"Della norma, degli scostamenti e…"

"Della norma, degli scostamenti e del prodotto finito", sarà questo l'argomento del discorso di Urs Widmer, relatore in occasione del Premio Bachmann di Klagenfurt, durante la serata inaugurale delle Giornate della letteratura tedesca.

 

Urs Widmer è redattore delle case editrici Walter di Olten e Suhrkamp di Francoforte.

Ha vissuto sedici anni a Francoforte, ma è rimasto alla Suhrkamp solo fino al 1968.

Urs WidmerUrs Widmer

 

Creazione dell’ ”Editore degli autori”

Con altri redattori ha dato vita all’ ”Editore degli autori”. Poco dopo la fondazione, ha pubblicato la sua prima opera, Alois. È un autore che non si accontenta “che la letteratura descriva solo le cose come sono. Essa deve possedere anche delle qualità utopistiche. Deve ricordarci che il mondo è stato bello”.

Ultimo lavoro pubblicato: Herr Adamson. Diogenes 2010. Numerosi premi e riconoscimenti, fra cui il premio Friedrich Hölderlin 2007.

 

LINK: DIOGENES

 

Urs Widmer 

Sulla norma, sulla deviazione e sui moduli prefabbricati

Signore e Signori,
prima, quando io stesso intervenivo nella lotta di rivalità nel contesto della letteratura e desideravo riservarmi un posticino nel grande mondo della letteratura, ho incrociato concorsi come questo delle Giornate della Letteratura di Lingua Tedesca carico di un certo scetticismo. Temevo ovviamente le offese che un concorso come questo porta inevitabilmente con sé e pensavo che in letteratura non è possibile redigere alcun ranking. Una cosa del genere la penso ancora oggi. In ogni caso, i concorsi nei quali in conclusione si sceglie una migliore o un migliore oggi li osservo con serena clemenza. Intendiamoci bene. La letteratura non funziona secondo il sistema knock out, nel quale alla fine uno dei partecipanti è un vincitore. La questione non è scegliere, se Goethe, Kleist o Bűchner, cioè, la risposta alla questione è: sia Goethe, sia Kleist, sia Bűchner.
Ovviamente nemmeno noi sappiamo fare a meno dei concetti  di “buono” e “cattivo”. Ovviamente sottolineiamo differenze, e in effetti le differenze esistono. Su molti testi ci ritroviamo presto d’accordo sul fatto che essi siano eccezionalmente pessimi: sebbene l’esempio di Euripide dovrebbe metterci su chi va là; la sua “Medea”, un capolavoro della letteratura mondiale, alla prima messa in scienza fu contestata dal pubblico così violentemente che il suo autore, per evitare di buscarle, fu costretto a nascondersi dietro l’altare del tempio di Apollo. A proposito del ranking personale, il mio “buono” e “cattivo” per uso personale, ad oggi  non sono ancora riuscito a superare la proverbiale formulazione che si attribuisce a Čechov, a Voltaire, o al mio editore – o a tutti e tre -: quella per cui il buon libro è quello che leggo volentieri, mentre il libro cattivo è quello che mi annoia.
Naturalmente questo non è sufficiente neppure per le valutazione per uso personale. Esistono certo delle differenze, e sebbene non possiamo motivare con precisione il perché Kafka scriva meglio – ma sì, diciamolo per amor di semplicità – di ognuno di noi, tuttavia siamo più o meno d’accordo sul fatto che sia davvero così. Da parte mia risolvo il problema in questo modo. La regola numero uno (“I buoni libri sono quelli che leggo volentieri”) perdura, tuttavia viene sostenuta, o ostacolata, dipende dalle circostanze, da una seconda riflessione.
Nessuno tra quelli che scrivono scrive spontaneamente così, come scrive. Questo vale anche per le donne. Scrittura seria e scrittura esistenziale staziona in territori nei quali si soffre e dove questa scrittura diviene qualcosa di necessario e d’ineludibile.
In questi contesti lottiamo per le nostre parole, perché combattiamo con le nostre resistenze e con le nostre repressioni, e proprio per questo neppure noi scriviamo spontaneamente, oppure siamo spontanei solo in una certa misura. La pressione è troppo forte. Nei casi ideali è “lui” che scrive, il testo che scrive stesso, e noi siamo qualcosa come il suo medium. Ovviamente questa condizione dello scrivere non va mitizzata – lo scrittore in trance; anche per lui il testo è un dono inatteso -, come qualsiasi cosa nel mondo lui non si manifesta mai. Il resto è lavoro. Diligenza, precisione, la serena capacità di gettare via per l’ennesima volta intere pagine, e l’attitudine a decidere quando il testo è così come deve essere. Se un proprio testo è “compiuto”, è “buono”, lo decide un sentimento dell’evidenza. Non esistono criteri più sicuri.
I testi si realizzano facendo uso della lingua. La lingua non è una nostra creazione, mai, non può esserlo, perché essa è l’universale di cui dispongono anche gli altri e che ci lega agli altri. Una “lingua propria”, questo alto ideale, cui tutti noi tendiamo e cui anelano gli stessi critici quando ci ascoltano, non esiste – un fenomeno di raffinata ironia – semmai poi, quando scrivendo siamo sempre coscienti del fatto che non può darsi ciò che è proprio, se non solo come residuo, come eccedenza o come errore produttivo: se tendiamo verso una nostra lingua abbiamo una chance per conseguirla (Se cominciamo con l’idea di scrivere “bene”, in forma “bella”, siamo perduti). Poiché si può certo dire, leggendo un testo di cui non si conosce l’autore, che esso sia di Thomas Bernhard, di Gert Jonke, di Klaus Hoffer: le nostre deviazioni dalla norma della lingua alla fine emergono.
La deviazione, che per prima definisce un testo letterario come tale, ha origine dalla pressione che qualcuno o “lei” – la vita – esercita su di noi ed alla quale noi, scrivendo, opponiamo una contropressione da cui poi deriva il deformato, ciò che devia dalla norma, quel deformato che alla fine, se l’avventura ha un esito felice, delizia il nostro lettore. “Il meraviglioso fulgore di un’opera d’arte”, così ha detto Walter Muschg, “è il dolore che non provoca più dolore. Un’opera compiuta non può più avere in sé alcuna traccia del dolore”.
La lingua è un grande kit di moduli prefabbricati di cui ci serviamo con più o meno rilevante abilità. Lo facciamo con le cose ovvie della quotidianità e lo facciamo anche quando scriviamo. Come potremmo fare diversamente? E’ dunque vero che ce ne serviamo tutti, di quei moduli prefabbricati della lingua, ma è altrettanto vero che ciascuno di noi li utilizza a modo suo. Ad alcuni questi non bastano, gli altri – molti, forse la maggior parte – sono del tutto contenti di gestire ciò che è familiare in modo che appaia come nuovo almeno per la durata della lettura. Questo vale anche per i contenuti. Coloro ai quali bastano le parti strutturali della lingua così come vengono usati da chiunque costruiscono anche i loro contenuti facendo uso delle parti prefabbricate familiari. E noi leggiamo tutto questo volentieri proprio perché ci risulta così familiare. Questo è ciò che viene chiamato meanstream, e il meanstream non è nulla di deprecabile. Solo che non fa progredire la letteratura e neppure noi.
Questo è dunque il secondo dei criteri coi quali cerco di distinguere la buona dalla cattiva letteratura. La cattiva letteratura viene costruita esclusivamente a partire da ciò che è già familiare. Dal denominatore comune della lingua e solo da lui. Lingua: ogni frase già sentita. Contenuto: the same procedure as last year. I buoni libri non rifuggono ad ogni costo da ciò che è familiare, ma lo urtano facendo uso di deviazioni. Nella lingua e, come conseguenza inevitabile, nei contenuti. Forse perfino di più
La lingua, sia nell’una che nell’altra forma, non è in nessun modo un sistema statico. Si trasforma incessantemente. Qui muore una parola, senza che vi sia nessuno che la compiange, e là qualcuno ne inserisce qualcosa di nuovo nel sistema. Tutto questo è affascinante, in particolare per noi, poiché siamo quelli che reagiscono con la massima sensibilità alla costante trasformazione del nostro materiale di lavoro. Non solo accogliamo le trasformazioni, noi siamo anche coloro che contribuiscono a crearle. Funziona così dalla notte dei tempi, da quando il primo ha detto “leone” senza che ve ne fosse uno lì presente, inventando così la comunicazione in forma di concetti. Non c’è mai stata una lingua normizzata, qualcosa di vincolante per  tutti e per ogni epoca, sebbene di essa avrebbero certo goduto dittatori, fondatori di religioni, insieme al signor Duden. Perfino la lingua del classicismo tedesco, in primo luogo quella di Goethe, che, sebbene ci siamo allontanati da essa già così bellamente, continua ad essere qualcosa di simile ad un metro di valutazione primigenio, non è mai stata per tutti e vincolante solo chissà chi. I contemporanei, al contrario, trovarono la lingua di Goethe come qualcosa di irritante, qualcosa che deviava dalla loro norma quotidiana. Ad essa anteponevano quella di Kotzbue o di Johann Timoteus Hermes, i quali facevano uso, con grande virtuosismo, della cassa contenente gli elementi prefabbricati del loro tempo.
Tutto questo va assolutamente bene così. L’uno può questo, l’altro può quell’altro. Solo, non dovremmo scambiare gli elementi. E non dovremmo fingere. Meglio un sincero bestseller prodotto con la cassa degli elementi prefabbricati di un libro che simula grande letteratura e che in realtà si rivela essere solo di seconda mano, per l’appunto di un altro. In realtà ognuno di noi scriverebbe volentieri un bestseller, sempre e di continuo. Solo: come? Se lo sapessimo nessuno di noi sarebbe qui. 

 

 

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