Bruno Preisendörfer, Berlino (D)
Nato nel 1957 a Kleinostheim/vive a Berlino. Studi di germanistica, scienze politiche e sociologia presso l’Università Goethe di Francoforte e alla Libera Università di Berlino.
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Videoritratto
Fifty Blues
1
Un clown lo guardò ghignando. Lo fissò negli occhi incessantemente e contrasse il volto in un riso beffardo. Gli occhi del clowm erano azzurri come il pianeta sul quale viveva da circa 50 anni. Il pianeta ruotò, ruzzolò nell’eternità, ruotò su se stesso, ruotò attorno al sole, appariva azzurro ed aveva macchie bianche sulle calotte polari, ancora.
Quando il buon Dio lo osservava con attenzione, riconosceva i contorni dei continenti, i tratti delle montagne, i grandi fiumi, i deserti. Se lo osservava ancor più attentamente, poteva riconoscere perfino la muraglia cinese. Non avrebbe mai immaginato che gli uomini avrebbero mai costruito un muro simile per difendersi da altri uomini. La muraglia era così larga e lunga che il buon Dio poteva vederlo dallo spazio strizzando appena un poco gli occhi. Il buon Dio era già abbastanza vecchio, aveva all’incirca 50 miliardi di anni. Quando 50 o 60 milioni d’anni prima s’estinsero i dinosauri, il buon Dio aveva circa 49,95 miliardi di anni ed era già un po’ presbite. Quanto più una cosa era lontana, tanto meglio riusciva a riconoscerla. Ciò che gli era davanti al naso riusciva a vederlo in maniera indistinta. In questo consisteva la soluzione del problema delle teodicea. I teologi la questione la pongono in questi termini: come si può legittimare un buon creatore, visto tutto il male che c’è nel mondo? I teologi non si preoccupavano del fatto che il buon Dio avesse all’incirca 50 miliardi di anni e fosse diventato un po’ presbite. Per questo poteva riconoscere la muraglia cinese che era sulla terra. La distanza era sufficiente. Il buon Dio aveva dimenticato che quella muraglia a chi l’aveva costruita non era servita a nulla. I popoli a cavallo, a difesa dei quali era stata eretta, entrarono ugualmente nel paese. Anche gli uomini l’avevano dimenticato. Era già trascorso molto tempo. La distanza era troppa. Ora se ne andavano a passeggio sulla muraglia e come impazziti premevano il pulsante delle loro macchine fotografiche e delle loro cineprese. Rendevano eterno il ricordo, dicevano gli uomini.
Il clown ghignò.
Le creature di Dio avevano costruito anche altre cose che si potevano vedere dallo spazio. Le piramidi, le dighe, i grattacieli. Anche le piramidi non servirono in alcun modo agli uomini che le edificarono. Le loro salme avvolte in bende erano distese in camere murate sulle quali i loro schiavi dovettero costruire collocando pietra su pietra. Essi tuttavia non erano risorti. Per il buon Dio non faceva differenza. La maggior parte degli uomini trovava questo ancora una volta giusto. Davanti alla morte siamo tutti uguali, dicevano. Ma si esprimevano in maniera imprecisa. Questo è ciò che pensavano in realtà: dopo la morte siamo tutti uguali. Non avrebbero sopportato il fatto che solo i possessori di piramidi o grattacieli potessero essere immortali: chi all’età di 50 anni non ha ancora una piramide, un grattacielo, o qualcosa di simile, resterà defunto, anche dopo che è morto. Il buon Dio fa risorgere solo quelli che ce l’hanno fatta. Semplicemente gli uomini non amano immaginarsi questo. Ma pare sia andata proprio così. Se si concedeva a qualcuno di risorgere, allora questi potevano essere solo quelli proprietari di piramidi, di grattacieli o di cose di analoghe dimensioni, tali che si potessero vedere dallo spazio.
Per il buon Dio la cosa era indifferente. Per lui era stata indifferente anche l’estinzione dei dinosauri, 50 o 60 milioni di anni prima, quando lui aveva circa 49,95 miliardi di anni. Gli uomini credevano che fosse caduta sulla terra, in mare, un’enorme cometa, e che quella avesse provocato così una grande onda, causa dell’annegamento di molti animali e molti sauri. Coloro che sopravvissero subirono col tempo le conseguenze del cambiamento climatico provocato dalla cometa. Questa teoria era falsa altrettanto quanto l’opinione degli uomini circa la vita dopo la morte. I sauri erano morti semplicemente per debolezza. Non si riprodussero più. I maschi pensavano solo ad una cosa: divorare, divorare, divorare. Le femmine altrettanto. Era un circolo vizioso. Erano così pesanti e goffi che non avevano più alcun piacere a fare sesso. Non amavano che facendo l’amore la terra tremasse. Dunque si preoccupavano piuttosto di divorare. E divennero ancor più pesanti e goffi. Infine morirono. Un circolo vizioso. Al buon Dio questo fu indifferente.
Non poteva riconoscere della terra più dell’astronauta che nella stazione spaziale ingeriva la sua colazione attraverso il tubetto ed osservava fuori pensando a sua moglie e a sua figlia, che vivevano laggiù da qualche parte. La moglie stava andando in giro con la Jeep in qualche punto di quella palla azzurra a vendere case. La piccola se ne andava in giro sulla palla azzurra col suo triciclo, e poiché la badante messicana non faceva attenzione, stava rovinando l’erba appena tagliata del giardino antistante casa. Questo avrebbe fatto arrabbiare l’astronauta, qualora avesse potuto vederlo. Ma poteva riconoscere solo le piramidi, i grattacieli, e la muraglia cinese. La rete alta cinque metri che separava gli USA dal Messico non era visibile dallo spazio. Ma per lui era indifferente.
S’immaginava la piccola sfregiare l’erba con quel triciclo dotato di spesse ruote in plastica. Per la badante era indifferente. Lei pensava piuttosto al suo piccolo in Messico, dunque così lontano come se vivesse su un altro pianeta.
Al buon Dio interessava poco anche del prato dell’astronauta. Stava pensando piuttosto a che cosa avrebbe dovuto creare dopo i dinosauri e gli uomini. Adamo ed Eva si erano presentati 50 o 60 mila anni prima in una valle africana per diffondersi in tutta la terra e rendersi sudditi l’uno all’altra.
Il buon Dio prese in mano un comando a distanza e si mise a riflettere. Poteva fare lo zapping da un’epoca all’altra, attraverso il passato, il presente e il futuro. Poteva vedere come vennero costruite le piramidi. Proprio in quel momento uno schiavo che non aveva fatto attenzione scivolò tra due dei tronchi d’albero senza corteccia posti l’uno dietro all’altro, sui quali veniva trascinato un enorme blocco di pietra. L’uomo urlò quando una delle sue gambe venne spappolata. I sorveglianti posti ai lati del percorso di traino spronavano coloro che tiravano con le corde usando la frusta. L’uomo venne pian piano stritolato tra i due tronchi. Questo è ciò che poté vedere il buon Dio. Così come poté vedere tutto ciò che era già e sarebbe poi accaduto. Per esempio, avrebbe potuto vedere come sarebbe morto l’astronauta facendo ritorno verso quella patata azzurra, l’astronauta che in quel momento stava facendo colazione ingerendola col tubetto e stava pensando a sua figlia sulla patata azzurra là sotto. Sarebbe soffocato. In qualche modo non coincideva con il destino dello shuttle. Questo sarebbe atterrato intatto ma con a bordo gli astronauti asfissiati. Il buon Dio avrebbe potuto vedere ciò che si stava prospettando per gli astronauti, se solo lo avesse voluto. Passato, futuro, nessun problema. Il buon Dio potrebbe fermare l’accadere anche per un solo istante. Gli uomini chiamavano presente ciò che il buon Dio fermava. Lo faceva di continuo. O almeno così sembrava agli uomini. Ora il buon Dio stava riflettendo se dovesse mettere da parte il comando a distanza e creare qualcosa di nuovo. Sono diventato un vero Couch Potaetoe, pensò, all’età di 50 miliardi di anni è tempo di voltare pagina.
Scherzi, disse il clown, e lo guardò negli occhi con un sorriso sfottente, nel corso delle vicende, aggiunse in maniera autoironica, diventerà tutto chiaro.
2
Successivamente il clown smise di ridere. Disse: tu pensi troppo. Era vero. Era stato da sempre un problema. Troppi pensieri. Troppo significato. Davvero troppo storie. Per quanto riguardava le storie, lui era come un ricercatore del Nilo. Sempre controcorrente, sempre alla ricerca delle fonti. Le persone lo andavano a trovare nel laboratorio, s’adagiavano su di un divano e raccontavano tutto quello che passava loro per la testa. Faceva parte delle regole. Solo così si produceva uno zampillio. Gorgogliavano acque cristalline, torrentelli saltellavano su pietre muscose nella valle e si riunivano in fiumi che avevano il lungofiume e serpeggiavano in paesaggi ameni. Nelle ville che si trovavano lungo quei lungofiume abitavano i suoi pazienti. La maggior parte di loro possedeva azioni di qualcosa di grandioso che si poteva vedere dallo spazio. Se un giorno si giungesse per errore alla resurrezione, anche loro ne avrebbero partecipato. Erano stati sempre tra i primi ed anche in quel caso lo sarebbero stati. Le loro anime sarebbero salite al cielo e avrebbero indicato verso il basso le piramidi, oppure i grattacieli, le dighe, o altre cose gigantesche che erano loro appartenute in vita e che sarebbero appartenute a loro anche dopo la resurrezione.
Simili persone visitavano il suo laboratorio quand’erano tristi senza sapere il perché. Si distendevano sul divano e cominciavano a raccontare le loro storie, storie come fiumi raddrizzati, finché gli argini cedono, per qualcuno prima, per altri dopo, e loro danno via libera alle loro fantasie. Le loro fantasie non erano acque cristalline, né ruscelli argentati, né fiumi raddrizzati, erano flutti torbidi, che gorgoglianti e biascicanti trascinavano con sé legni ed animali morti arrotolantisi su se stessi. Ognuno ha un Nilo nella propria testa. In quei flutti c’erano ippopotami e coccodrilli. Quasi tutte le storie riguardavano ippopotami e coccodrilli in torbidi flutti. Quelle che trattavano del motivo per cui i sauri s’erano estinti lui le chiamò storie degli ippopotami. Esse avevano origine nella zona compresa tra l’ombelico e il ginocchio. Gli ippopotami sono maiali. Fanno un effetto mostruoso, tuttavia in sostanza sono inoffensivi e quando sbadigliano fanno perfino un po’ ridere, con quegli spazi nella dentatura.
Uno dei suoi clienti, Hans Breuning, tremante per la vergogna raccontava di far visita una volta la settimana ad una signora in abiti di vernice nera che gli sculacciava con grande abilità il sedere. Erano storie di ippopotami. Breuning andava da lui nelle ore di ambulatorio perché voleva essere guarito. Bisognava capire che la questione divenne onerosa: la ragazza è ancor più cara di Lei, diceva lui, anche se venissi da Lei tre volte la settimana. E d’improvviso si vedeva per un attimo il dorso dentellato di un coccodrillo sotto la superficie dell’acqua.
Le storie dei coccodrilli erano molto più interessanti di quelle degli ipppopotami. Trattavano di ciò che si doveva essere, avere e fare per entrare in possesso di piramidi, grattacieli ed altre cose enormi che si potevano vedere dallo spazio. Esse avevano origine nella zona tra la sommità della testa e i denti. Nelle storie dei coccodrilli è a tema la cupidigia delle cavità della bocca e la cupidigia delle cavità del cranio.
Alla parete, nel suo studio, era appeso graziosamente sotto vetro l’homunculus sensoriale di Wilder Penfield, una raffigurazione schematica e con un effetto grottescamente stravolto corrispondente al lato destro del corpo della sua rappresentazione nella corteccia cerebrale sinistra. La faringe, la lingua e in particolare le labbra dominavano un enorme territorio. Confrontata con questo continente, la regione compresa tra l’ombelico e le ginocchia era solo una provincia.
Il clown disse: troppe storie, troppo significato, troppi pensieri. All’età di quindici anni aveva già riflettuto troppo. Lesse libri sui dinosauri e non credette che si erano estinti. Avanzò la teoria che si fossero ritirati in una regione della terra ancora ignota. Quando fosse diventato grande, avrebbe predisposto una spedizione e sarebbe andato a cercarli.
Nel frattempo sei diventato grande, disse il clown.
Aveva letto libri sulle piramidi ed aveva dubitato che i faraoni giacessero ancora intatti nelle loro tombe come quattro o cinquemila anni prima. Le loro mummie erano sicuramente ammuffite da tempo. In gioventù il senso della giustizia è particolarmente marcato, e lui trovava assolutamente giusto che le mummie fossero ammuffite.
Da giovane aveva letto altrettanti libri anche sulla muraglia cinese. Per questo sapeva che la si poteva vedere dallo spazio. Questo lo aveva convinto subito. I clienti dei pianeti lontani che passavano sbadati accanto alla terra nel loro viaggio attraverso il tutto a bordo di navicelle spaziali, potevano vederla. Ma li lasciava indifferenti.
Ora toccava la cinquantina. Talvolta, per esempio in un giorno come oggi, il buon Dio sentiva tutti i suoi 50 miliardi di anni. Era già presbite. Teneva i libri con il braccio allungato, come se, mentre li leggeva, gli ripugnassero. Da giovane una volta aveva ripassato un intero dizionario, dalla A (“abbreviazione per «anno») fino a z.Zt. (“abbreviazione per «al momento”). Per fortuna il dizionario era in un unico volume. Possedeva ancora quel dizionario, ma non lo sfogliava più. Era troppo difficile tenerlo a distanza da sé con il braccio allungato.
Ieri ha festeggiato il suo 49mo compleanno, che, per la precisione, è stato il primo giorno del suo 50mo anno di vita. Ma è proprio questo ciò cui ieri non aveva pensato. Aveva brindato con sua moglie e pensato: comunque sono ancora un quarantenne. Ma non era vero. Se ci pensava, doveva ammettere che lui ieri era entrato nel suo 50mo anno di vita ed ora andava per i 60. Per il buon Dio questo era indifferente.
Per il clown non era indifferente. Chiese: come si può diventare cinquantenne? Non ne ho idea. Probabilmente accade e basta. Ci si infila nel mondo, si gattona un po’, s’impara a camminare, s’impara a dire “mami” e “papi”, cresce fuori dalle fasce, accoppa il padre, sposa la madre. Dura un’eternità arrivare a cinque, e altre due eternità fino a quindici. Poi all’improvviso si arriva a 50. Il tempo ti mette le dita sulle tempie e le fa diventare grigie.
Un uomo con esperienze di vita lo si riconosce dal fatto che si rade alla cieca senza tagliarsi. Guardò il clown negli occhi e con il rasoio tirò via la schiuma del suo viso, Il clown gonfiò le guance per appianare le grinze che scendevano di sbieco dalle narici a sinistra e a destra formando due archi simmetrici. Con il viso allo specchio tirò via strisce di schiuma dalle guance, dal mento, dalla gola. Sul pomo d’Adamo era particolarmente attento. La pelle lì sembrava quella di un pollo morto spennacchiato. Rassodò la pelle del morto e spennacchiato pollo con due dita della mano sinistra, mentre con il rasoio nella destra tirava via la schiuma. Il clown era scomparso. Lui guardava negli occhi quelli che già conosceva da qualche foto. Le persone dicevano che fosse il suo volto. Possibile. Era principalmente il volto di sua madre, la zona della bocca era grosso modo quella del padre. Insomma era il volto del suo nonno americano, quello di parte materna. Circa 40 anni prima, con la candela della prima comunione in mano si era ritrovato vestito d’un grazioso completo da bambino in piedi accanto a suo nonno ed aveva atteso, come gli aveva detto bambinescamente il fotografo, che arrivasse l’uccellino. L’uccellino era arrivato ed aveva reso eterno quel ricordo. Se il buon Dio avesse riavvolto la sequenza ed avesse poi premuto sul comando a distanza il tasto “pausa”, sarebbe apparsa un’immagine fissa che mostrava un uomo sulla sessantina ed un bambino di dieci anni che accanto a suo nonno sembrava essere una sua replica. Ora era lo stesso bambino a toccare la sessantina e assomigliava sempre più alla sua prima copia. Sua madre era deceduta. Lui l’aveva amata ed aveva a lungo compianto la sua terribile morte. Tuttavia si sentiva a disagio all’idea che lei potrebbe vivere ancora e che potrebbe vederla, davanti al tempo, che, con la sua spietata pazienza, aveva realizzato sul suo volto la maschera della somiglianza con suo nonno, rispetto a come piano piano un figlio si trasformi nel padre della madre.
3
Sul pomo d’Adamo apparve un piccolo rubino. Dunque il suo sangue continuava ad essere rosso, rosso e denso come il primo giorno. Un buon segno. In quel mattino non l’avrebbe meravigliato se fosse stato d’un color rosa antico e acquoso. E sembrò non bastare neppure la sua esperienza per evitare, ad occhi aperti, di tagliarsi nel fare la barba. Ancora un buon segno. Anche se questo non era un bene per il colletto della camicia, al di sotto del quale, non appena si fosse vestito, avrebbe annodato una cravatta. Lui accoglieva i propri clienti sempre in giacca e cravatta. Orribile, uno dei suoi analisti aveva indossato pullover e scarpe da ginnastica. Se, detto in maniera simbolica, si deve mettere mano alle viscere delle persone, si dovrebbe quanto meno prestare una certa attenzione all’aspetto esteriore. La cravatta aiutava Breuning, quello che vuotava il sacco davanti ad uno psicanalista, perché lo sculacciare il sedere gli diventò troppo oneroso, non il ridere sul volto dissimulante.
Per abitudine portava la cravatta anche il giovedì, quando non riceveva pazienti. Il giovedì era diventato il suo giorno preferito, quello dedicato allo studio, come amava dichiarare quando doveva tenere alla larga i pazienti che imploravano appuntamenti supplementari. Solo con una cliente si era fatto trovare pronto per un’eccezione.
Strappò un pezzetto di carta igienica e se la incollò sul pomo d’Adamo. Lo faceva fin dal tempo della sua pubertà. Il buon Dio, cui la cosa era indifferente, non gli aveva risparmiato una virulenta fase con esplosione di brufoli. Allora i suoi tentativi di farsi la barba lo portarono a veri e propri bagni di sangue. Ponendo pezzetti di carta sulle ferite non faceva che accelerare la fuoriuscita del sangue. Trovò che aveva l’apparenza di essere stato rosicchiato da topi. Tuttavia doveva eliminare quella peluria. Anche i brufoli dovevano sparire, ma contro di essi poteva fare ben poco. La peluria dell’immaturità per lo meno si lascia tagliare. La madre baciava in maniera consolante la sua fronte brufolosa e lui si voltò per il disgusto, disgusto verso se stesso, i suoi brufoli, la sua peluria, la sua semivirilità di quindicenne. Sua madre, così sensibile, desistette dal baciarlo, e lui si voltò per la vergogna, vergogna di se stesso, perché lui non poteva desistere dal domandarsi se lei con quella sua coccola voleva che non si abbacchiasse, oppure se non lo amava più. Non stava più in quel metro quadrato di pelle che lo circondava ed attese, in maniera apparentemente ostinata, in realtà interiormente inquieta, di uscire da quella situazione. Avere 50 anni, forse, non è poi così male.
Accese lo spazzolino da denti elettrico. Rimase acceso esattamente per due minuti e mezzo, poi si spense automaticamente. Per lavare i denti due volte al giorno impiegava dunque cinque minuti; in una settimana faceva trentacinque minuti; in un anno se ne andavano trenta ore. Dall’inizio del suo quarantesimo fino all’inizio del suo cinquantesimo anno di vita aveva impiegato trecento ore per lavare i denti, dodici giorni e mezzo. Prima di quei dodici giorni e mezzo, ripartiti in dieci anni, aveva lasciato il suo posto in una clinica patologica e si era piazzato come psicoanalista. Si era trattato di una clinica raffinata, piena di persone dell’ambiente del cinema, della radio, della televisione: moderatori di talkshow alla ricerca di una seconda chance, allenatori di calcio, artisti, scrittori, tutti “fatti” di cocaina. Gli scrittori erano i peggiori. Gli scrittori sono quasi sempre i peggiori. Si trattava del reparto bianco, come veniva definito nel gergo della clinica. Il reparto d’oro era quello degli alcolizzati. E delle alcolizzate. Aveva conosciuto vecchie signore che cercavano di corrompere gli assistenti con importi a quattro cifre per ottenere dell’alcool. Aveva conosciuto una donna negli anni migliori, una ridente cinquantenne non ancora ridotta al lumicino dall’alcool che era scappata dalla clinica in accappatoio. Era stata ritrovata all’alba in una stazione di servizio. Se ne stava felice seduta a terra, appoggiata ad una pompa, attorniata da una sparpagliata armata di vuote bottiglie di Kleiner Feierlinge. Aveva conosciuto una quasi scheletrica ex modella che nella sua villa s’era lasciata prosciugare la carne dal whisky mentre suo marito porgeva il suo bianco sedere a signore vestite d’abiti in vernice nera.
Così era arrivato a Breuning. Per tre anni aveva avuto in cura sua moglie dopo la sua dismissione dalla clinica. Non gli era stato possibile evitare il suo suicidio. Ora aveva di fronte il marito. Provò dei sentimenti, quando lui entrò nel suo studio, e quei sentimenti non poteva eliminarli. Era un modo di fare non professionale. Con l’aiuto di un analista, chiamato come supervisore, lottò per liberarsi di quei sentimenti. Li provava non per la sciocca storia degli ippopotami, piuttosto a causa dei coccodrilli nei torbidi flutti. Si divoravano a vicenda per bramosia. Forse il buon Dio dallo spazio poteva riconoscere i contorni del Wüemsee. Lungo una sua riva Breuning aveva la sua proprietà, tra le ville con parco di altri manager, industriali, nuovi ricchi e famiglie che erano facoltose da tempo. Breuning apparteneva ad una di quelle famiglie facoltose da generazioni. Talvolta su questo filosofeggiava standosene disteso sul lettino, quando doveva scaldare il suo eloquio, prima che arrivasse la signora con l’abito di vernice nera. Quando Breuning filosofeggiava sul lettino, mentre sedeva silenzioso dietro di lui in una poltrona con poggiacapo, si potevano percepire i coccodrilli quasi fisicamente strisciare lenti sul tappeto.
La maggior parte delle persone si vergogna dei propri ippopotami ed è invece fiera dei coccodrilli. Se la cosa non fosse indifferente al buon Dio, dovrebbe essere il contrario. Che cos’è la zona tra l’ombelico e le ginocchia rispetto a quella tra i denti e la sommità della testa? La maggior parte delle persone si vergogna delle cose false.
Forse l’odio che provava per quell’uomo derivava dal fatto che non era riuscito ad impedire che sua moglie si togliesse la vita, prima stillandola piano piano, poi d’improvviso con un cocktail di compresse. Per tre anni era andata da lui cinque volte la settimana, anche di giovedì. Ma i 50 minuti di custodia di ogni giorno lavorativo non erano bastati. Erano stati sufficienti per impedirle di ricominciare con il bere, ma non per aiutarla a ricominciare a vivere. Non era diventata una trentenne. Era piuttosto un povero pupazzetto rotto. Una volta lei aveva detto: da bambina ero un angelo con riccioli neri a spirale e da ragazza la più bella di tutta la regione, con labbra rosse come il sangue, la pelle bianca come la neve, i capelli neri come l’ebano, davvero un mostro di bellezza. Ma poi qualcuno ha avvelenato Biancaneve e quel qualcuno sono io stessa. Dalla sua poltrona lui poteva vedere dietro la testata del lettino come lei s’irrigidisse, restando immobile come un cadavere nella bara. Dopo breve tempo lei portava una mano alla bocca e cominciava a mangiarsi le unghie delle dita, che erano già tutte morsicate fino al letto ungueale. Nel silenzio lui sentiva solo quel rumore fare l’effetto di quello d’un tarlo e non poteva fare nulla, semplicemente non poteva fare nulla.
Quella era stata la maggiore sconfitta professionale, non essere riuscito a salvare Biancaneve. Forse era stata anche la sua maggiore sconfitta umana. Ma non era professionale prenderla in questo modo. Nel frattempo sedeva tre volte la settimana nella poltrona con poggiacapo dietro la testa di suo marito, lo ascoltava mentre filosofeggiava, credeva di vedere coccodrilli strisciare per la stanza, e lo odiava. Avrebbe forse dovuto interrompere la cura?
Si batté con l’indice sulla fronte, tirava via il pezzetto di carta dalla laringe e con un fazzoletto bianco asciugava il viso dell’uomo, che sullo specchio posto sopra il lavandino sembrava come se fosse negli anni migliori. Devo fare qualcosa. Il cinquantesimo anno di vita è proprio quello giusto per cominciare ancora una volta dall’inizio. Potrei sbattere fuori la mia clientela del Würmsee e prendere in cura le persone senza piramidi. Si batté ancora una volta sulla fronte e disse all’uomo allo specchio: tu sei san Francesco? Non devi imboccare forse nessun coccodrillo? Non era già stato Sigmund Freud a lamentarsi: “Sollecitati dalla nostra attività medica a far fronte al nostro mantenimento, non siamo nella condizione di devolvere i nostri sforzi anche ai poveri”. Vedi!
4
Un cuscino era scivolato già dal lettino. Si piegò e lo raccolse. Dopo averlo drappeggiato per bene gli diede un colpo con la mano. Ora sedeva lì tutt’orecchi e attese che il giorno dopo arrivasse Hans Breuning, allora quello lo avrebbe preso tra i pugni per spiegazzarlo mentre lui avrebbe continuato a raccontargli della signora con l’abito di vernice nera. I cuscini venivano maltrattati anche da altri clienti. Alcuni se li premevano sul petto quando si mettevano a gemere, altri sugli occhi quando iniziavano a piangere. Altri ancora sembrava volessero dilaniarli con i loro pugni, come Breuning. Si distendevano sul lettino, li picchiavano per bene, finché non spappolavano la piuma che era all’interno, e raccontavano, raccontavano, raccontavano.
Si risistemò la cravatta che si era spostata nel momento in cui aveva raccolto il cuscino e prese posto dietro la sontuosa scrivania che se ne stava isolata nella stanza a tre metri di distanza dal lettino. Si trattava di una scrivania arcuata Jugendstil, con intarsi nelle porte davanti ai cassetti, intarsi preziosi finemente lavorati, raffiguranti uccelli stilizzati sul genere delle gru, le ante con linee ricurve, delicate e piene d’energia. Sul lato sinistro del piano della scrivania c’era un cellulare aperto, il display ancora scuro. Sulla parte destra un plastico di bachelite su di un piedistallo riproducente fedelmente il cervello umano. Lo si poteva disfare. Le singole parti si sentivano belle. Lisce e fresche. Sullo spigolo anteriore del tavolo, rivolto verso il lettino, erano disposti in fila i sette peccati capitali: la superbia, l’alterigia, l’avarizia, la cupidigia, l’invida, l’ira, la lussuria, l’accidia. Ciascuna delle figure in avorio era grossa quanto un pollice. I pazienti potevano vederle solo da dietro, quando entravano, prima di distendersi sul lettino e di fissare il soffitto o la parte interna delle loro palpebre. Per lui si trattava di amuleti contro le lagnanze della psiche che salivano dal lettino. Sortilegio di difesa contro gli spiriti e i fantasmi, contro la sovrabbondanza di simboli, contro tutto quell’infinità volontà di significato. Breuning una volta aveva chiamato scherzosamente le figure “i sette nani”, e poi, dopo una pausa più lunga, aveva aggiunto che sua moglie nei suoi ultimi anni di vita si considerava Biancaneve, la più povera. Forse è proprio questo, ciò che poi sarebbe accaduto, il meglio che potesse succedere.
(Traduzione: Vito Punzi)