Anna Maria Praßler, D

Nata nel 1983 a Lauingen, vive a Berlino. Studi in scienze cinematografiche e teatrali nonché di psicologia a Berlino, Los Angeles e Bologna, seguiti da studi di sceneggiatura presso l'Accademia del cinema del Baden-Württemberg.

 

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Das Andere

© 2011 Anna Maria Praßler

Traduzione: Vito Punzi

 

 

L’altro

 

Nell’anno in cui terminai la mia dissertazione mi riuscì difficile intendere la morte diversamente da qualcosa di simbolico. I romani le salme di quelli che avevano destinato ai combattimenti nel Colosseo le gettavano nel Tevere; la loro posizione amavo considerarla pragmatica, in quella scelta ci vedevo un’allegoria: un uomo deve lasciare Roma percorrendo un corso d’acqua, un corso d’acqua che assorbe il lerciume della città, che emette grevi esalazioni, e che s’amalgama con la liscivia della Cloaca Maxima. Su questo e su null’altro si concentrarono in quell’estate i miei pensieri, non permisi loro di discostarsi da questo, non tanto per applicazione accademica, piuttosto perché avevo paura di ciò di fronte a cui quelli erano fuggiti, non per faciloneria e tremore, ma il loro volo non era stato di quel tipo etereo che normalmente si attribuisce ai pensieri, al contrario. Era stato un atto faticoso. Presa da forte affaticamento non mi resi conto del fatto che riempii pagine e pagine solo per cercare di spiegare come venga annientato ed eliminato pubblicamente il corpo del criminale, del cristiano, della vittima sacrificale, come venga liquidato l’altro col fine di confermare e conservare se stessi.

Non pensai a Björn.

Piuttosto Panem et circenses. Con l’ipotesi della bella apparenza per la distrazione delle masse, il nuovo stipendiato intervenne nella discussione in seno al convegno, proprio nel momento in cui mi ero alzata per andarmene in sordina. La mia professoressa mi fece un cenno. Un caso di morte, così spiegai, nel sud della Germania. Non ci trovai nulla in quell’ipotesi dello sviamento, volentieri sarei rimasta lì, ancora per un’ora, o per un’ora e mezza, nell’aria stagnante della stanza dell’istituto, tuttavia per le 16 e 10 dovevo aver fatto il check-in a Tempelhof.

Un caso di morte nel sud della Germania risultò avere tratti indistinti: il mio modo di esprimermi fece pensare a persone che aspettavano, ad un cordoglio e a rituali comuni. Di fatto però la tumulazione era già avvenuta senza che fossi stata avvisata. Björn ha voluto così, scrisse sua madre, ed io sapevo che lei non mentiva.

Quando uscii dall’istituto il 183 aveva appena attraversato l’incrocio e stava arrivando alla fermata. Il piccolo tratto di via pedonale fino al palazzo comunale di Steglitz capitò a proposito, poiché mentre cammino riesco sempre a ordinare i miei pensieri. Tuttavia l’incespicare delle rotelle mi fece perdere rapidamente il filo. Era ancora l’epoca precedente l’avvento delle compagnie low cost, quando il crepito dei trolley non era ancora parte del rumore della città. Quando tirai la mia valigia sul gradino del marciapiede cullai la (non molto originale) idea di aprire con Svetonio. "Nel suo ultimo giorno di vita", così iniziava la citazione che anteposi infine alla mia dissertazione, "l’imperatore Augusto chiamò i suoi amici e chiese loro se lui aveva recitato degnamente la commedia della vita e concluse con la chiusa: ‘Se si è recitato molto bene allora applaudite e chiedo a tutti voi di scortarmi con gioia.’ Subito dopo spirò. "Citato da Zanker, avevo infilato il libro Augusto e il potere delle immagini nella tasca laterale del mio trolley.

Era tipico per Björn il fatto che lui non mi fece decidere se arrivare per tempo alla sua tumulazione. Nel suo testamento era scritto che avrei dovuto essere informata della sua morte solo tre settimane dopo. Altro di me lì non si diceva.

Non appena entrai in aeroporto ebbi per un momento la sensazione di essere atterrata su di una scialba cartolina postale. Trascinai la mia valigia sul pavimento in liscio PVC ed attraversai per intero la hall prima di trovare il banco per il check-in: ore 16 e 30 per Augusta. Mi circondavano per lo più viaggiatori d’affari, tra quelli c’erano sicuramente anche dei politici, era l’anno in cui Berlino divenne sede del governo. l’affaccendata immobilità degli uomini in attesa penetrava l’elevato spazio della hall e sciabordava verso di me e mi trasformò rapidamente in uno di loro, un obiettivo concreto davanti ai loro occhi, una missione, un affare, passare a casa la serata dopo il lavoro.

Conobbi Björn durante il mio settimo semestre. Era una calda giornata d’inizio luglio. All’epoca avevo numerosi disturbi di vario tipo a causa delle quali ero in cura. Dovevo presentare una relazione in istituto, lavoravo febbrilmente di lima giorno e notte ad un testo la cui ineccepibilità scientifica mi stava causando meno fatica degli inserimenti presi dalla lingua parlata che stavo imparando a memoria per aggiungerli nei giusti punti; anche un certo grado di sbadataggine non avrebbe disturbato, perché avrebbe rivelato la vera pensatrice, una volta la ripetizione di una mezza frase, una pausa al momento giusto, e nulla di tutto questo era autentico. Con Björn la situazione migliorò. Che a lui piacesse o meno.

Davanti a Björn accadde che io per l’intera giornata non riuscissi a sollevare la tapparella. Di tanto in tanto, la sera e la notte me ne uscii, verso Charlottenburg o Mitte, mi truccai come Anita Berber nel dipinto di Dix ed apparendo davvero misteriosa. 

Sebbene fosse una casa che potevo fare da anni, viaggiai per la prima volta nel Brandenburgo. Al come mi riuscì, una domenica mattina, d’incamminarmi verso Buckow non seppi darmi alcuna risposta; allora entrai con l’atteggiamento il più devoto possibile nella casa di Brecht e Weigel e attraverso la grande vetrata guardai verso il lago ed il giardino. Brecht, che stimavo come teorico del teatro, ma le cui opere teatrali mi erano sempre risultate estranee, mai come in quel momento mi apparve superato.

Del matrimonio di Björn sapevo solo che era stato infelice. Che lui aveva lasciato sua moglie per me, e lui lo considerava un sacrificio che io non apprezzavo a sufficienza. Ora stavo aspettando il volo diretto verso la sua patria, destinazione il cui unico scopo per me era quello di non visitare la tomba di Björn. Questo avrei potuto farlo anche a Berlino, ma laggiù, come diceva sempre lui, avrei potuto farlo meglio. Cioè non mi lascio sottrarre volentieri le decisioni.

Ero sufficientemente forte, non c’era dubbio. Sottrarre ad un morto anche l’ultimo trionfo potrebbe sembrare impietoso, folle o meschino. Ma ne avevo davvero abbastanza, quando Björn decideva al posto mio. Pensai solo a questo.

"Per lavoro", dissi quando l’uomo piegato davanti a me nella fila, quello che stava raccontando della sua visita al figlio e ai nipoti a Kreuzberg, mi chiese circa il motivo del mio viaggio. Parlai del teatro dei Gesuiti e di Jakob Bidermann, il drammaturgo barocco che aveva insegnato teologia e filosofia a Dillingen. Parlai a lungo e tortuosamente e per il modo in cui mi espressi tutto si mostrò logico e vero. Quasi come se io stessa fossi convinta di proferire, durante il semestre invernale, un seminario propedeutico sul carattere del teatro dei gesuiti. Mi sentii colta quando l’uomo rimase sorpreso nell’apprendere che una cittadina della capitale si recasse nella sua patria per simili motivi e infervorato fece un cenno d’assenso con la testa.

Dovetti pensare a Björn, il quale trovava inappropriata per una berlinese la mia ossessione di salire solamente sulla U-Bahn quando qualcun´altro davanti a me aveva già premuto il bisunto tasto per l´apertura. Lui era tra quelli che credevano che la loro indolenza, al più la loro resistenza al bere, li autorizzava a vivere nella capitale, diversamente sarebbero stati rispediti in provincia. Questo mi divertì, o quantomeno così dovette apparire, perché Björn mi diede della presuntuosa. Al contrario il suo credere di aver ottenuto qualcosa con un annuncio nell’ufficio circondariale di Prenzlauer Berg mi rese anzitutto confusa e curiosa.

Una volta Björn mi aveva invitato a trascorre il periodo natalizio a casa, al momento giusto mi venne in mente una scusa. La sua Germania del sud mi sarebbe rimasta sempre estranea, il suo strano miscuglio di caparbio orgoglio e fughe sporadiche, la sua r, che lui arrotondava, tanto che io in un primo momento lo presi per un russo. Lui disse a casa ed io pensai al pomeriggio del sabato, quando m’incrociai con mia madre lungo la Kudamm da Bijou Brigitte, quattro anni dopo essermene andata all’età di sedici anni. Lei si mostrò sentimentale e si scusò, senza che questo servisse a nulla. Con il tipo è finita, mormorò, mormorare o sbraitare, per lei non c’era una via di mezzo. Con il tipo è finita, ripeté, mentre da parte mia mi limitai a fare un cenno con la testa. Probabilmente ripeté la frase per la terza volta, ma nel frattempo io ero già uscita di corsa dal negozio.

Nel centro di Buckow, dove stavo aspettando che si liberasse un tavolo nel giardino di un cafè, c’era odore d’erba tagliata. Un odore che, a differenza di Björn, non conoscevo. Più tardi l’avrebbe presa alla larga per spiegarmi quanto lui aborrisse tutto ciò che gli ricordava persone come i suoi genitori e i loro prati curati, i quali avevano fatto di lui un uomo infelice – nel silenzio pensai: vanaglorioso -.

Una donna fece cenno all’oste di voler pagare, poi si alzò spianando la sua gonna e scomparve all’interno del cafè. A giudicare dalla dimestichezza dei suoi gesti, rimase indietro suo marito, o compagno, del quale vedevo solo le spalle. Non appena quello si allungò all’indietro per ammiccare nel chiarore sotto l’ombrellone io mi avvicinai al tavolo chiedendo se quello si sarebbe liberato.

"Si sieda", disse l’uomo.

Ed io mi sedetti. Credo che in quel momento tutto era stabilito.

Spinsi il mio passaporto sul banco d’accettazione, poggiai la mia valigia sulla bilancia dei bagagli e poco dopo ricevetti in mano la carta d’imbarco. Sapevo di essere forte. Forte abbastanza per trascorrere il fine settimana riflettendo sul teatro dei gesuiti, per camminare lungo le strade di sampietrini, senza farmi intenerire dal fatto che Björn avesse camminato per diciannove anni su quelle pietre, trastullandosi come un bambino, qualche volta saltellando trasognato, strisciando i piedi da ragazzo, da fico, magari qualche volta con una ragazza al fianco, e questo di lui lo sapevo già. Avrei osservato quadri d’altare barocchi, la sala dorata nell’antica università del collegio dei gesuiti, la chiesa dell’università, quella del monastero, i delicatissimi putti in stile rococò, ed il pensiero bastava per intirizzire in me tutto, per congelare tutto questo in una cartolina postale. All’improvviso non potevo fare più alcun passo.

Il gobbo con i nipoti a Kreuzberg mi guardò disorientato e sussurrò che anche lui volava per la prima, no, per la seconda volta.

"Si sieda", aveva detto.

Il suo viso s’immerse dal sole nell’ombra, quando si rivolse a me aprendo nella mia direzione la sedia che sua moglie aveva sospinto verso l’angolo del tavolo. La ghiaia crepitò. Quasi tentennai, perché il prendere posto mi sembrò troppo baldanzoso, indiscreto, ma qualcosa presente nel sorriso di Björn cancellò quel mio pensiero. Afferrai la spalliera e mi sedetti. Björn non tolse con sufficiente rapidità la sua mano e strisciò il mio avambraccio. Non so se fece questo volutamente. Volentieri avrei voluto saperlo, anche dopo, soprattutto in seguito, ma non mi azzardai mai a chiederlo.

Björn si tolse gli occhiali da sole, in attesa del conto che il vecchio oste portò al nostro tavolo presentandolo a me. Non aveva notato che il cenno di voler pagare l’aveva fatto un’altra donna seduta allo stesso tavolo. Björn esitò divertito, poi premette le labbra ghignando. I nostri sguardi s’incontrarono. L’oste mi guardò impaziente e fece risuonare i soldi che aveva nel portamonete.

"Paga mio marito", dissi.

Per Björn fu quella la frase con la quale iniziò tutto. Tutto, si trattò, come riconobbi molto dopo, di non più di quaranta, cinquanta secondi sotto l’ombrellone di un cafè di Buckow. Il nostro ridere, il tavolo non sparecchiato ed il nostro silenzio ci fecero pensare ad una vita diversa.

In due, lui ed io. Chiunque fosse lui, chiunque fossi io. Una vita che in qualche modo era più leggera, domenicale, senza preoccupazioni artificiali e senza quella paura di un nuovo giorno che non mi faceva alzare la mattina, sebbene avessi già dormito a sufficienza.

Mostrai la mia carta d’imbarco ed attraversai il controllo per la sicurezza, di nuovo alcuni passi per avvicinarmi al punto in cui c’era una lapide con il nome di Björn. Due numeri sotto, forse incisi in oro, tra quelli una lineetta, quella che doveva tenere insieme una vita. Proprio per questo motivo dovevo andare a Dillingen: per sapere che nella zona pedonale c’era questa lapide, e per essere forte. Per tenere insieme la mia vita, o ciò che di essa restava.

Björn non lo amavo più.

Tutte le volte che lui aveva trionfato erano diventate una sola. Nei dettagli del nostro litigare, che era piuttosto il suo litigare, perché non esisteva nulla che fosse nostro, neppure nel litigio, solo il mio disperato mutismo e il suo rimprovero che io mi nascondessi dietro la mia scienza; io non pensavo, no. Non volevo pensare a Björn, non potevo. Non alla t-shirt che lui amava tanto, quella color rosso scuro, sulla quale era scritto Non m’importa, ora la lascio così, non alla sottile cicatrice che allungava l’arco del suo labbro superiore e sembrava aprire la bocca ad un invito, ad una promessa e che io a Buckow trovai subito attraente.

Sua moglie, gli occhiali da sole tra i capelli, tornò al tavolo, sistemandosi la borsa su di una spalla chiese se era già stato pagato il conto, fece un cenno di saluto senza guardarmi, mentre Björn si stava alzando.

Mi fu chiaro che da lì a un paio di giorni l’avrei dimenticato.

Il fatto che lo incontrai in quella stessa settimana alla Biblioteca di Stato, a Potsdamer Platz, fu un caso. La congruenza delle ultime cifre del numero del nostro tesserino fece sì che ci ritrovammo a cercare i libri prenotati presso lo stesso scaffale. La sua bocca e la cicatrice furono le prime cose che vidi di lui, poi una pila di libri me lo nascose, lo scaffale che era tra noi. Procedette, meno esercitato di me, tornò indietro, verificò di nuovo, e le sue dita, che battevano sulla mensola dello scaffale, fecero tremare la lamiera. Percepii come se afferrassi i libri dall’altra parte.

Lui portava una t-shirt che in qualsiasi altro uomo avrei trovato ridicola e che contraddiceva le mie convinzioni: Non m’importa, che vada pure così. I titoli che lui aveva selezionato indicavano contenuti tecnici e a me non dicevano nulla. Quando lui mi scoprì tutto sembrò accadere naturalmente, fino al suo "Vieni, andiamo". Presi il mio zaino dalla cassetta di sicurezza e lo seguii.

A Berlino non accade spesso che due vie s’incrocino due volte. Björn viveva a Prenzlauer Berg, io a Steglitz. Nulla mi apparve più chiaro di queste due parole, "Vieni, andiamo."

Al gate un tabellone annunciava il volo per Augusta, mi sedetti e in quel momento non vi era nulla di più chiaro di questo: Björn voleva che io mi sentissi in colpa. De mortuis nil nisi bene, a causa mia. Ma ero sicura che Björn si era raffigurato come, tre settimane dopo la sua morte, mi sarei accasciata presso la sua tomba. Questo favore non glielo farei, no. La decisione che lui mi aveva sottratto volevo riprendermela. Doveva essersi immaginato quanto dolore provassi al momento del mio crollo, per questo si è rifiutato di prendere congedo da me. Così sapevo io. Sua madre è a tutt’oggi convinta che io abbia abbandonato Björn perché il suo tumore divora l suo corpo.

"Vieni, andiamo…"

Parlammo per tutta la notte al “Cafè nero” e la città ci ascoltò. In un primo periodo andammo molto a passeggiare, trovammo il nostro posto, poi un altro, ed ogni dieci metri ci fermavamo per baciarci. Björn raccontava del suo lavoro, che aveva un po’ a che fare con la tecnica, tecnica del suono in una fabbrica di dischi, questo lo raccontava non senza orgoglio, per me non faceva differenza, l’ascoltavo, ma senza attenzione, piuttosto ridevo, semplicemente, molto e forte, lui faceva la stessa cosa con me. Parlavamo delle nostre famiglie, dei nostri fratelli e della nostre sorelle, io menzionavo mia madre, Björn suo padre ed abbassammo entrambi il tono.

Sua moglie era spesso in viaggio per lavoro e del suo matrimonio sapevo solo che lei era infelice, così come mi raccontava lui senza che io gli chiedessi nulla. All’inizio tra Björn e me non andò poi così male.

Davvero venni più facilmente a capo delle mie ossessioni. Durante il mio ottavo semestre diedi spontaneamente un aspetto decisivo, senza aver preparato precedentemete le mie frasi, ad una discussione seminariale sulla dimensione teatrale del movimento culturale nudista tedesco degli anni Venti. Poco dopo iniziai il lavoro alla tesi di laurea e presi ad amare la ricerca e gli archivi. Mi sentivo bene in mezzo alle segnature, nel sistema che è dietro questo ordinamento che sembrava corrispondere alla mia nuova vita: io amavo ed ero amata. Tutto era molto semplice, il caos era finito, non c’era più nessun filo allentato, nessuna Anita Berber, al suo posto l’odore di vecchi libri, lo strepito delle cassette per i fogli ed il cadenzato tremolare alla lettura del microfiche. Ed amavo la scherzosa derisione di Björn dei miei nudi. Stavamo bene insieme.

Finché Björn lasciò sua moglie. Per me, come disse lui stesso. E d’improvviso gli dovetti qualcosa.

"La morte arriva in centesimi di secondo, nell’incendio gli uomini svaporano", lessi due anni dopo il completamento della mia dissertazione in un reportage nel quale si trattava delle torri infuocate di New York. Quando alcuni anni più tardi appresi che in Svizzera esistono macchine per la cremazione che dalle ceneri di cadaveri realizzano diamanti ho riflettuto ancora una volta sul fatto che ci siano uomini che con la morte sono diventati nulla ed altri che invece sono diventati diamanti. Intitolai il saggio The Body of Death: Notes on Dying in a Postmodern Age, e prima ancora che ne fossi cosciente l’avevo dedicato a Björn. Pochi secondi dopo aver battuto queste cinque lettere, quaranta, cinquanta secondi dopo, le mie dita erano in posizione d’attesa sopra la tastiera. Ancora una volta tutto era diventato rigido.

Mi sembrò sbagliato trasformare uomini in diamanti. Come se l’uomo fosse così: trasparente, luccicante, liscio.

Erano trascorse già sette settimane dal tempo in cui le nostre strade s’erano separate quando io, nel penultimo venerdì del semestre invernale (il mio secondo come collaboratrice scientifica), uscii dalla mia stanza presentandomi nel corridoio per chiedere chi fosse la prossima studentessa per l’orario di ricevimento. Davanti a me mi ritrovai Björn, in piedi. Doveva aver atteso sulla soglia, perché avevo sentito il suo respiro e il modo in cui era scivolato sulla mia guancia. Fece subito un passo indietro, tuttavia il momento in cui condividemmo un respiro, un tremolio, venne meno non appena lo guardai negli occhi leggendovi la lucida paura. Rimasi atterrita.

Si sieda. Paga mio marito. Vieni, andiamo. È questo tutto ciò che rimane? Sette parole, due incontri, un caso? Questo era il bello, e questo rimase.

Ciò che vi fu di odioso iniziò quando Björn si presentò davanti alla porta del mio appartamento a Steglitz, con due borse da viaggio piene e con la superiorità di chi ha affrontato un sacrificio, chiedendomi da quel momento più tempo ed attenzione di quanto io non fossi pronta a concedergli. I miei sentimenti per lui erano rimasti gli stessi, tuttavia la sua attese mi esasperò contro di lui. Per la separazione dalla moglie, con la quale aveva resistito per quattro anni di matrimonio e per una serie di inutili tentativi d’inseminazione artificiale, ora lui voleva essere compensato, se non addirittura risarcito. E questo da me. Dal grande amore che avevamo vagheggiato a Buckow. Ma che razza di amore è se uno dei due, non appena non gli piaccia qualcosa dell’altro, dice: "Posso tornare indietro in ogni istante"? La moglie di Björn non aveva ancora acconsentito alla separazione. Le sue minacce portarono a litigi al termine dei quali per lo più era lui a trionfare, prendendo decisioni cui io mi sottraevo, e questo diventava il motivo del successivo litigio. Lui si era allontanato da sua moglie, dunque io ero nel profondo della sua colpa e con me doveva essere tutto perfetto, io dovevo essere perfetta, o quantomeno dovevo renderlo più felice di quanto avesse potuto sua moglie.

Björn non capì il significato che aveva per me il comitato dei graduati, cui appartenevo da poche settimane, mentre a me rimase oscuro il motivo per cui lui si volesse trasferire da me. Essere amato da due donne contemporaneamente per un uomo come lui mi parve davvero l’ideale. Lui faceva una buona impressione in una maniera leggermente non convenzionale e rispetto alla vita aveva pretese tanto gradevoli quanto semplici. Un tipo compatto, il suo corpo era così robusto che la malattia figurava come scherno. Inizialmente non crebbi davvero al suo tumore, lo presi piuttosto per un ulteriore mossa di scacchi per farmi pressione. A quel tempo l’avevo già lasciato.

Mentre in realtà avevo bisogno di lui. Ad eccezione delle notti nelle quali mi davo per scellerata e mi sentivo come Anita Berber, ero sempre stata cocciuta, più schiva e più cervellotica di altre, finché Björn mi dava la sensazione di essere sufficiente normale per essere amata da un uomo come lui e per essere invitata a casa per Natale. Con presupposti totalmente differenti ho intrapreso ora questo viaggio e siedo già da almeno mezzora vicino all’alta parete di vetro che s’affaccia sulle piste di Tempelhof.

 "E’ un tumore", disse Björn, "al pancreas”. E: "Morirò". Nel corridoio non c’era nessun altro, nel mio istituto era già fine settimana e le pareti ci cingevano. In quel momento riflettei molto: malattia come metafora, Susan Sonntag, il simbolismo dei miei morti romani, pensai a tutto questo. Björn cominciò a piangere. "Non puoi tornare indietro per compassione", disse, quando passeggiamo l’uno accanto all’altra sulla neve fresca della Grunewaldstraße. Si accesero i lampioni. Uno di quelli lampeggiava nervosamente. Guardai in lontananza. "Oppure solo perché in questo modo non avrò una cattiva coscienza", aggiunsi io. Björn annuì. Eravamo persone ragionevoli, eravamo ormai adulti e sapevamo che cosa fosse il meglio per noi: smetterla di litigare, fare basta con le pretese esagerate e con i doveri ingiusti. “Ce la farò”, disse lui, "sono forte". La neve attenuava qualsiasi rumore. Se fosse piovuto forse il nostro colloquio sarebbe andato diversamente. Sicuramente. Mi sono chiesta spesso come la pioggia mista a neve avrebbe potuto modificare il corso delle cose.

Arrivati al palazzo comunale di Steglitz ci lasciammo, perché io presi il bus, lui invece la S-Bahn. Ci abbracciammo, con l’accortezza di evitare qualsiasi troppo a lungo, tanto che fu quasi solo un fugace strusciarsi. Dovevo pensare a Buckow. Quando dal bus guardai indietro lui avrebbe dovuto voltarsi per una sola volta, per un unico sguardo lungo il vetro del 183, sarebbe bastato anche un esitante stare immobile per farmi scendere immediatamente. Gli sarei corsa dietro, forse avrei dovuto correre. Mentre me ne stavo sul bus in corsa mi rividi in piedi con le guance rosse davanti a Björn. Altrettanto facilmente lui avrebbe potuto suonare da me, nella Lauenburgerstraße; quella sera l’ho aspettato. Avrei riso e gli avrei detto che sarei tornata da lui, che l’avrei accompagnato a fare le chemioterapia e che avrei condiviso con lui tutta quella merda, perché lo amo.

Probabilmente non avrebbe funzionato. Da quella sera è questa la formula cui mi tengo salda. Non era forse il suo testamento la migliore dimostrazione, quest’ardita messa sotto curatela? Björn non chiese, come Augusto, se avesse recitato degnamente la commedia della vita, piuttosto stabilì d’improvviso che quello spettacolo aveva in serbo per il secondo personaggio principale un epilogo della colpa. E lui concluse con la chiusa: "Se si ha recitato molto bene, allora applausi. Rallegratevi della vita, perché non è vero che la morte è terribile solo per quelli che rimangono indietro. Continuate a vivere, truccatevi ancora come Anita Berber e prendete l’abilitazione ad Amsterdam, lì volevo invitarti, solo sei ore di treno, ma il saggio doveva essere pronto per lunedì. Devo recitare la parte del morto, di quello che non esiste più; io non sono più. Io non sono più e questo mi fa schifo. Non ho più alcuna voglia di ciò che qui presumibilmente accade e non ho davvero più voglia di nulla. La morte è la cosa peggiore, per chi muore, credimi". Poi morì.

"Venga", disse il gobbo guardandomi, incerto se toccare o no il mio braccio. Non mi ero resa conto che i primi passeggeri s’erano già imbarcati e sentii in quel momento il sapore delle lacrime sulle mie labbra. Terrorizzata mi toccai le guance: stavo davvero piangendo. E pensare che non piango mai. Guardai l’uomo, mi alzai, mi allontanai, tornando nella sala delle accettazioni. Björn era morto. Non era più in vita. Non pensava più, non amava più, non parlava più. Il suo corpo era andato in rovina, il suo spirito s’era spento. Nell’anno nel quale terminai la mia dissertazione fino a quel giorno mi risultò difficile cogliere la morte come qualcosa che non fosse solo simbolico. All’improvviso Björn era morto, non c’era più, non c’era più, se n’era andato per sempre ed io non sono forte.            

 

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