Gregor Sander, Berlino (D)

Nato nel 1968 a Schwerin/ vive a Berlino. Dopo la maturità e un breve apprendistato come fabbro consegue una formazione professionale da infermiere.

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Videoritratto

 

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Pesce d’inverno

 

E’ mattina, sono le quattro e mezzo e c’è già più luce che all’aurora, che al crepuscolo, e tuttavia non è ancora giorno. Ho dormito bene sul sedile posteriore della mia auto e mi sembra impossibile ch’io sia qui. Lungo la via del canale a Kiel-Holtenau. La sveglia del mio cellulare ha suonato, mi sono messo le scarpe mezzo assonnato e sono uscito in questa mattinata. Completamente solo, non si vedeva altro uomo. Le case sono ancora scure. Di fronte a me due panfili a vela attraccati ad un ponticello e più in là, se si guarda lungo il canale, scintilla il fiordo e a Kiel ardono ancora le lanterne della notte. Le foglie degli aceri attenuano su di me ancora una volta la luce mattutina, ma sono certo che sarà una bella giornata. Un giorno d’estate con molta afa. Un giorno come quello di ieri, quando i campi erano ricoperti d’un tremolio, gli steli d’un colore giallo miele erano prossimi a seccarsi e mi sono meravigliato del fatto che l’autostrada non arrivi fino a Kiel e che negli ultimi chilometri si debba percorrere una strada di campagna. Ho attraversato il centro della città e, superato il ponte, nell’altro lato ho percorso il canale di Kiel, che si trova molto in basso, ed il viaggiare lì mi ricordava qualcosa dell’America, dello Hudson River, solo che lì il fiume è stato sepolto del tutto.

Un auto sta percorrendo la strada del canale. Una BMW Kombi di colore rosso vino. L’uomo che scende porta una salopette blu. Viene verso di me e penso che un pescatore non può guidare una BMW.

“Lei è il figlio del mio capitano?”

“Il suo capitano?”

“Sì, di Walter per la precisione.”

Gli do la mano e dico: “Sono io. Cioè non sono suo figlio.”

“Cosa significa?”, chiede il pescatore ridendo. Da l’idea di essere già ben sveglio, il volto è piatto ed i capelli si staccano dalla testa come fossero setole grigie. I suoi tratti sono delicati e non sembra essere uno che va per mare. Come se sapesse ciò che sto pensando e volesse dimostrarmi il contrario, fruga nella tasca e ne tira fuori una pipa ed una piccola busta di plastica con del tabacco. Riempie la pipa, la accende e neppure ora sembra essere uno che, così come me lo immagino io, trascorra le sue giornate da solo in mare. Ce ne stiamo entrambi lì impacciati ed io indico il canale, dove proprio di fronte alla chiusa è ormeggiato un peschereccio. “La Sua barca?” chiedo e sembra essere proprio un peschereccio. Bianco, con un parapetto d’acciaio e con una cabina di pilotaggio e il timone in legno. In qualche modo ero pronto a qualcosa del genere.

“Sì, è il mio, ma oggi non usciamo con quello. Con quello vado in mare, quando è il tempo delle aringhe o dei merluzzi. Oggi prendiamo i Lütten. E’ nel porto.” Indica con la testa l’isola al centro del canale ed io annuisco chiedendomi dove andremo a pescare.

“Forse Walter non si è svegliato in tempo. Ogni tanto gli succede. Più spesso negli ultimi tempi”, dice il pescatore aggiungendo che il suo nome è Josef Neuer. Avrei preso volentieri un caffé. Per un breve istante della mia vita vorrei starmene per conto mio, nella mia cucina, e non in piedi accanto a Josef Neuer.

Ancora ieri Walter voleva che dormissi da lui: “Ho badato a te già abbastanza, in passato”. Ma dopo questa notte passata insieme quasi vent’anni dopo per me era troppo, così ho saputo qualcosa di un hotel ed ero infine felice di potermene andare: “Non dormire troppo, giovane”, mi gridò dietro, appoggiato alla porta, alticcio ed ormai ottantenne. Un’immagine curiosa, per me che di lui non ne avevo più alcuna.

“Vieni, andiamo. Walter è stato già più volte fuori con me”, dice Josef Neuer battendo la pipa sul tacco di uno dei suoi stivali di gomma per svuotarla. Andiamo con la sua macchina, attraversiamo la porta sull’isola delle chiuse. Mostra un documento sollevandolo e dice senza guardarmi: “A causa dell’11 settembre”, come se questo spiegasse tutto e perfino i pescatori di Kiel-Holtenau dovessero lasciarsi identificare dalla CIA ogni volta che entrano in porto. Percorriamo lo stretto ponte sulla chiusa, e l’acqua  della conca delimitata da pareti in metallo è piena di meduse. Come l’addensante nella fredda zuppa di ciliegie che mia madre cucinava nei giorni d’estate, s’addensavano l’un l’altra: “Il vento viene da est” dice Josef Neuer. “Questo  spinge quella robaccia nella chiusa nel canale. Difficile prendere pesci con questo tempo. E’ così da giorni ormai. E’ tutto pieno di alghe e meduse.” In un prato c’è una piccola casa mobile rossa in legno e attraverso la finestra sul lato posteriore si vedono reti e gavitelli ammucchiati fin sotto il soffitto. Neuer apre il lucchetto e porge pantaloni oliati e stivali di gomma. “Dovrebbero andare. Sono di mia moglie e lei non era alta”.

Che cosa ha detto e che cosa fa sua moglie a bordo? Porta sfortuna?, penso e poi ci dirigiamo verso una piccola imbarcazione piatta con motore fuoribordo, e partiamo, ci allontaniamo dalla chiusa ed entriamo nel canale. Passiamo accanto a capannoni, a grandi silos in cemento, ad un cantiere. Davanti a noi si tende alto il ponte dell’autostrada. Quattro bastimenti commerciali ci vengono incontro dall’altra parte del canale, lenti come enormi animali. Sono quasi del tutto silenziosi, si sente solo il nostro piccolo motore. Il cielo è di un colore blu aviazione e le silhouette degli alberi lungo le rive si stagliano contro le striature giallo-rosse della luce all’orizzonte.

 

“Sei ancora qui dunque”, aveva detto Walter, quando mi chiamò due giorni fa ad Amburgo, nello studio. Era tardo pomeriggio e non mi stava accadendo nulla di particolare, sedevo ancora alla scrivani e lavoravo. La segretaria se n’era andata e, come sempre, aveva trasferito le chiamate direttamente al mio apparecchio. Il caso che avevo di fronte era facile e lo stato degli atti era chiaro, quando il telefono suonò e Walter disse quella frase senza neppure salutare.

Non posso ricordarmi se ho aspettato qualcuno, se mi sono meravigliato che il telefono suonasse, oppure se lo afferrai facendo un’azione scontata, senza riflettere.

Di solito solo Sarah telefonava a quell’ora, e parlavamo per un po’. E se per me si faceva tardi, allora lei mi passava i bambini così che potevo dare loro la buona notte. Ma Sarah non chiamava più, già da settimane.

Non lo riconobbi dalla voce. Forse non sarebbe stato neppure possibile, dopo così tanto tempo. Walter mi parlò come se dovessi sapere chi fosse e avessi atteso la sua chiamata. “E’ da un bel po’”, mi sentii dire a un certo punto, e me lo vedevo davanti a Güstrow, caricare di casse la sua Ford Escort azzurra, appena comprata ad Amburgo, ed io che me ne stavo in piedi lì accanto. “Perché te ne vai ora?”, chiesi allora e lui mi rispose: “Probabilmente tu non lo capiresti.”

“E’ tutto passato ormai, no?”, dissi. “Tu puoi andare dove vuoi e quando vuoi.” Davanti al suo garage il giardino era incolore e senza una foglia. L’anno stava per terminare e credo che mi confondesse il fatto che lui se ne andasse prima di Natale e come se non avesse più tempo.

Water allora aveva sessant’anni. Un uomo anziano, per me che avevo tredici anni. C’eravamo conosciuti giusto sei mesi prima a Güstrow. Mia madre vi si era trasferita con me, subito dopo la consegna del certificato, così come lei aveva fatto ogni volta. Avevamo vissuto tra anni a Lipsia e ora voleva provare con il Meclenburgo. “Qui è tranquillissimo, abbiamo il lago davanti alla porta di casa. L’ospedale mi ha messo a disposizione un appartamento con un locale e mezzo. E tu in estate potrai cercarti subito degli amici.” Cercava di consolarmi, ma non ne aveva bisogno. Ero felice di andarmene da Lipsia. Lì non avevo amici, quantomeno nessuno di cui avrei sentito la mancanza, e l’unico motivo per cui me la prendevo a male era perché lei con il suo frettoloso cambio di residenze non voleva mai trasferirsi a Berlino, la città dove mi aveva partorito.

Lei trovava sempre facilmente un impiego come infermiera e non so esattamente da che cosa fuggisse. Se si trattava di irrequietezza, di noia, del suo modo di avere a che fare con l’essere recluso nella DDR, oppure solo di una fuga dalle fallite relazioni d’amore avute a Lipsia e prima ancora a Jena. Lei aveva solo 32 anni quando ci trasferimmo a Güstrow, mi aveva partorito a 19 anni e nessuno dei suoi amoreggiamenti durò così a lungo da permetterle di avere un secondo bambino. Restammo soli in una maniera particolare. Nessuno dei suoi uomini si trasferì da noi, me li tenne lontani, pagando il prezzo di dover rimanere relativamente presto a casa da solo, perché lei aveva il turno di notte oppure doveva andare dal suo uomo del momento. Quando mi svegliavo la mattina presto, lei sedeva in ogni caso sempre in cucina con una tazza di caffè e una sigaretta. Portava ancora il camice da infermiera con la targhetta con il suo nome sul petto e sembrava stanca e in qualche modo contenta. Quando andai a scuola, mi preparava la colazione e in estate, durante le ferie, quando arrivammo a Güstrow, dormivamo tutti e due fino a mezzogiorno.

Andavamo insieme in piscina a Inselsee e mi tuffavo dal trampolino di tre metri, cosa che non avevo ancora avuto il coraggio di fare a Lipsia. Altalenavo leggero sulla tavola, guardavo sotto e avevo solo paura di rivoltarmi e dunque di finire con la schiena sulla superficie dell’acqua. La città era piccola e dava l’idea di essere un paese in confronto a Lipsia, ed il castello non bastava a far cambiare questa impressione. Il nostro appartamento si trovava in un edificio basso, di soli quattro piani, e per me ricevetti una mia propria stanza, una specie di budello con vista sulla strada e con un lampione davanti alla finestra.

Walter abitava lì sotto in una villa degradata. Lui abitava il pianterreno e lì accanto, nel giardino, c’erano vecchi alberi da frutta, cespugli e un grande prato. Dietro la nostra casa i residenti avevano il loro piccoli appezzamenti dove potevano coltivare le verdure.

Walter lavorava alla disinfestazione dei letti d’ospedale. Cioè, gli portavano i letti usati in cantina, i letti sui quali erano stati gli ammalati per giorni o dove vi erano stati perfino dei morti, e lui li disinfestava, li tirava lucido, come nuovi, e li posizionava davanti al suo bugigattolo, come si trattasse di auto nel loro parcheggio. Per la sua richiesta di espatrio ci vollero cinque anni e loro lo avevano relegato lì nella cantina. Per anni era stato alla guida del reparto di sterilizzazione, poi gli avevano sottratto quel ruolo e l’avevano collocato nel posto più lontano del suo reparto. Avrebbe potuto evitare di defilarsi e di poter trovare un altro lavoro chissà dove. Ma non voleva questo. Quel sopportare in cantina rientrava in quella posizione. Mia madre attaccò discorso con lui, dopo che un’altra sorella, lì in quel budello senza finestra illuminato da un neon, gli aveva detto: “Tu sei sempre qui.” E lui aveva sbraitato: “Non dipende da me.”

 

Il pescatore rallenta fino a spegnere del tutto il motore. Con un rampino di metallo cerca ilfondo. Siamo vicini alla riva, consistente solo di un po’ di sabbia ammonticchiata e di un paio di magri cespugli.

“Di solito se ne esce qui con sua moglie?”, chiedo nel silenzio di questa mattina che improvviso si manifesta dopo lo spegnimento del motore. Lei è morta, di questo sono certo, Voglio che lui lo racconti e non posso dire il perché. Lui ha detto “Lei non era alta”. Era.

Josef Neuer ha trovato la rete ed inizia a tirarla. “Siamo sempre usciti insieme. Per vent’anni. Quando il nostro Lütten era fuori è venuta anche lei. ‘Che sto a fare a casa?’, ha detto. Solo che per me non era giusto. E poi lei sospettava. Getta le reti qui, e il giorno dopo erano piene. Diamine, ho pensato.”, dice lui senza concludere la frase e senza finire di tirare su la rete. “E l’anno scorso una volta non è venuta, perché non stava bene, e quando sono tornato a casa se ne stava seduta lì, fredda.”

Lo guardo e non mi pento della mia domanda. Un traghetto per auto si avvicina a noi con una carlinga d’un colore rosso acceso e con su scritto “Danube Highway”. Neuer l’osserva e poi cala ulteriormente la rete. Ha dei guanti di gomma azzurri ed i corpi lacerati delle meduse tra le maglie scintillano al sole come scaglie di ghiaccio. Finalmente un pesce, uno con striature di color verde scuro sul dorso. Non saltella, piuttosto pare stiracchiarsi. Neuer lo rivolta lentamente e dice: “La prima pescata, un pesce persico, gliel’ho ficcato in culo.” Ridiamo entrambi.

“Chi è Lei se non è il figlio di Walter? Viene mio figlio, mi ha detto, aggiungendo che tu, o Lei, prima era molto appassionato di pesca con l’amo.”

“Eravamo vicini di casa, e forse qualcosa di più, a Güstrow. Intendo amici.”

“Forse amici?” Neuer ripiega la rete come un capo di biancheria e la getta di fronte a sé, sul pavimento. Riempie ancora una volta la pipa e mi guarda.

“Walter non mi ha raccontato molto a proposito di Güstrow e dell’altra parte. Ma quando ha parlato, ha detto di voi. Non della Stasi o di robaccia simile. Sempre di tua madre e quanto questo sia stata per lui una fortuna. Di quella così bella e giovane donna alla fine della sua vita, e del fatto che lui per i suoi figli poteva sentirsi come un padre. Lui la definiva un tipo superbo. Solo gli dispiaceva che Sua madre non volesse andare con lui all’ovest, neppure dopo la caduta del Muro. Lei era troppo vile.”

“Lui era troppo vigliacco per rimanere”, dico e poi per me è penoso così come lo era stato allora, quando pensai così solamente nel momento in cui Walter mise tutte le sue cose in auto e poco dopo scomparve per sempre. Non volevo che se ne andasse, ma come avrei dovuto dirglielo?

“Come ha potuto pensarlo poc’anzi: mio capitano?”, chiedo spiccio a Neuer.

“Si dice così. Walter mi aiuta di tanto in tanto. Quando vendo il pesce a Holtenau. Oppure qualche volta mi rimedia l’esca o cose del genere.”

 

“Il mio migliore amico qui è un pescatore”, aveva detto invece Walter quando mi aveva chiamato in studio ad Amburgo, aggiungendo che sarei dovuto andare a trovarli per andare con loro a pescare. Glielo promisi. Ero curioso di tutto ciò che mi faceva uscire dal solito tran tran, dalla quotidianità dell’ufficio e dalla mia vita casalinga. Da quando Sarah se n’era andata, lì non potevo stare bene. Mezzo anno prima l’avrei liquidato subito.

Nel giorno in cui Sarah mi lasciò dall’ufficio me ne andai a casa. Come sempre. Solo più tardi. Ne avevamo discusso così come avevamo discusso di molte altre cose nell’ultimo mezzo anno. Lasciavamo che l’altro parlasse, chiedesse, raccontasse di sé. La terapista familiare presso la quale andammo su desiderio di Sarah una volta le chiese: “Lei ama suo marito? Lei deve volerlo, altrimenti possiamo risparmiarci tutto questo.” A quella domanda non seppe davvero che cosa rispondere e un paio di settimane dopo se n’era andata. I bambini vivevano alternativamente da lei e da me, e quando erano da me mi accadeva di sentirmi estraneo a me stesso. Come se non fossi il loro padre, piuttosto solo uno zio. Perlomeno avevano ancora la loro camera, ed era così com’era sempre stata.

La cosa peggiore nell’appartamento, in quel giorno dell’abbandono, erano i margini sulla moquette. Un cerchio per un piatto, sul quale era stato posato un vaso di fiori, un rettangolo per il comò stile Biedermeier, i piccoli calchi delle sedie attorno al tavolo da pranzo, che sembravano le impronte di zampe di cane. Dovevo voltare continuamente lo sguardo. Era come se la mia famiglia fosse andata a fare la spesa o a fare sport, chissà dove. Solo quelle impronte erano nuove.

 

Walter ieri voleva parlare solo di mia madre. Mi fu subito chiaro, appena mi sedetti nel suo appartamento mansarda a Kiel-Holtenau. La strada mi aveva condotto dal ponte sul canale in direzione dell’acqua. La strada si snodava scendendo attraverso un quartiere di case in mattoni. Alcune avevano due frontoni ed avevano l’apparenza di essere due case unite tra loro. Proseguii fino in fondo, fino al canale, e parcheggiai di fronte all’isola della chiusa. Lì dove i fiordi sfociano nel canale di Kiel c’erano un piccolo caffé, una casa singola, anch’essa in mattoni e attorniata da utensili navali. Era pomeriggio tardo e all’interno una giovane coppia ballava il tango in una stanza ai cui lati erano disposte delle sedie, come si trattasse di una scuola di ballo. Erano completamente soli e l’uomo portava un abito color sabbia, mentre la donna aveva un vestito scuro che le arrivava alle ginocchia. La maggior parte degli ospiti però sedeva fuori al sole calante bevendo vino e birra. Non sembravano turisti, ma neppure gente del posto. Forse erano semplicemente persone di Kiel che avevano attraversato il fiordo per bersi una birra dopo il lavoro. Mi sedetti lì e non me ne volli andare subito. Una nave russa attraccò proprio di fronte a noi. I container disposti l’uno sopra l’altro davano l’idea di un giocattolo cresciuto a dismisura. Saltò fuori un marinaio per ormeggiare la nave. Fece rifornimento da un piccolo battello e dopo pochi minuti la nave era già scomparsa.

Mi accadde come in Olanda, in Inghilterra o in Danimarca. Non sapevo esattamente, ma era come se la mia realtà fosse lievemente slittata, come se fossi accanto alla traccia. Mi piacque, era tutto ciò che avrei voluto, e che in realtà non avevo sperato da quel giorno.

Tuttavia mi rimisi alla ricerca dell’indirizzo di Walter. Fu molto felice quando mi aprì la porta. I suoi occhi celesti si trovavano sotto grigie sopracciglia cespugliose, lacrimavano, mi abbracciò e con la voce un po’ tremolante disse: “Che bello che tu sia qui.”

Poco più tardi, nella sua cucina, tirò fuori un calamaro dalla pentola. Io mi ero già seduto quando lui prese quella bestia enorme con una forchetta poggiandola sul ripiano come si trattasse di un trofeo. Vidi le piccole ventose rosse lungo i tentacoli del polipo ed il corpo massiccio dalla pelle bianca. “Lo si deve cuocere con tre turaccioli di vino rosso, a causa dell’acido tannico”, disse Walter, come se volesse consigliarmi una ricetta di famiglia.

Tagliò il calamaro e ricoprì i piccoli pezzi con un impasto d’olio d’oliva, aglio e prezzemolo. Aveva un sapore fantastico, quasi non sembrava pesce, e la consistenza era irregolarmente più tenero di quanto non fosse sembrato avere il polipo.

“Questo è il miglior pesce che ho mangiato negli ultimi tempi”, disse Walter ed io chiesi, tanto per dire qualcosa: “E lo pescate nel Mar Baltico?” “Ma no”, rispose Walter sorvolando e poi prese a parlare ininterrottamente di mia madre. Lui allora l’ha amata, e lo sapevo, avevo potuto vederlo coi miei occhi quand’avevo tredici anni, anche perché Walter non aveva mai dissimulato. Lui non era il tipo per mia madre, ed anche questo mi era chiaro. Conoscevo il tipo di uomo che lei prediligeva, a sufficienza, e Walter non aveva nulla a che fare con quello. Lo desiderava, tenendolo tuttavia a distanza. Ma questo non lo disturbava, le portava fiori e si presentava alla sua porta con una bottiglia di vino. Non andammo mai nella sua villa e credo che Walter venisse da noi anche per mettersi in salvo. Non solo fuggiva dalla sua solitudine. Al primo piano della villa viveva il suo successore, il nuovo capo del reparto di sterilizzazione dell’ospedale, e quello non perdeva occasione per angariarlo. Una volta era stata cambiata la serratura della porta d’ingresso e di notte, intorno alle due, faceva suonare marce militari e di tanto in tanto nell’appartamento di Walter c’era perfino la luce accesa, sebbene sapesse che uscendo l’aveva spenta.

“E tua madre? Che fa ora?”, chiese Walter togliendo dal tavolo i resti del polipo. Continuava ad essere molto caldo e lui portava una camicia bianca a maniche corte su pantaloni di stoffa neri non stirati. L’aveva slacciata quasi del tutto e si potevano vedere la sua vecchia pelle molle ricoperta di molti nei.

Feci ruotare il bicchiere di vino con la mano ed osservai il margine dove rifrangeva la luce della candela. “Sta bene. Vive a Monaco. Ha aperto un centro di cura privato e guadagna molti soldi. Si è risposata con un austriaco che collabora con lei. Ed ha avuto un altro bambino all’età di 38 anni. ‘In questo modo’, continua a pensare, ‘così com’ero una madre normale all’est, lo sono anche oggi all’ovest’.” Lo guardai e sapevo che lui non voleva ascoltare, ma non volevo avere alcun riguardo per Walter.

Parlammo ancora dei vecchi tempi. Di come lui mi aveva insegnato la pesca con l’amo, il lampeggiare su pesci persici e lucci, e come, avvicinandomi, mi accosciai, quando mi mostrò per la prima volta il taglio a scanalatura su di un leucisco rosso, il cui corpo era così finemente squamato e sembrava indossasse una cotta di maglia.  

Ricordo particolarmente bene un giorno di quell’estate. Molto tempo prima che le persone scendessero per le strade di Lipsia ed anche settimane prima che gli ungheresi aprissero i confini. Era molto caldo. Era un fine settimana. Con il recinto della nostra bassa casa, dietro i piccoli giardini, confinava un parco e lì, su di un prato, c’erano uomini che giocavano a calcio. Uomini grassi e sformati con larghi pantaloncini lunghi fino alle ginocchia. Davanti al recinto, mi sedetti sul tetto della conigliera che apparteneva ad un affittuario della casa. Avevo in braccio uno dei conigli, uno bianco e grigio per il quale avevo stipulato una specie di contratto d’adozione, dal giorno del nostro arrivo fino al momento del suo abbattimento, poco prima di Natale. La carta catramata sotto di me era calda ed io sedevo a gambe incrociate, mentre mia madre e Walter erano dietro di me e gridavamo, urlavamo e c’infiammavamo in direzione degli uomini che stavano giocando. Poi vidi l’uomo, quello che abitava sopra Walter e che combinava quelle cose incredibili, attraversare il giardino. Portava pantaloncini da ginnastica, una canottiera bianca e un paio di cesoie in mano. Non l’avevo mai visto così da vicino e quando i nostri sguardi s’incontrarono lui bloccò brevemente il movimento. Nello stesso momento mia madre appoggiò un braccio su Walter, continuando a guardare dall’altra parte. E quello fu l’unico contatto affettuoso che ci fu tra loro in quel mezzo anno.

 

Josef Neuer fece partire il motore fuoribordo premendo un pulsante. “Ora andiamo”, disse. Nelle ultime delle venti nasse c’erano solo un paio di granciporro e granchi, e neppure un anguilla, così come prima nelle reti non c’erano stati né platesse, né pesci persici. “I giapponesi e gli spagnoli pescono le anguille quando sono ancora piccole come potranno finire qui da me, da adulte, nelle nasse?” Io sedevo a prua, lui a poppa, e su di un bancale posto tra noi due nuotava il pescato. Si può sollevare il coperchio e Neuer ha gettato i pesci lì dentro. Continua a vestire solo le due paia di pantaloni, l’una sopra l’altra, e le spalline arancioni del suo abito oliato spiccano chiare sulle spalle di colore marrone scuro.

Neuer ora si è deciso finalmente a darmi del tu e si sfila il “Lei” come farebbe con una cravatta troppo stretta. “Sono contento che arrivi l’inverno. Così non ci saranno più meduse ed alghe. Con questo tempo non si pesca nulla”, dice con voce energica rivolto verso il motore. “Sai, poi torna il freddo, ma non fa nulla. Ricominci a pescare qualcosa e i pesci non ti diventano bianchi e completamente molli solo per aver trascorso una notte nella rete. E poi ci sono i merluzzi. Il merluzzo è il pesce invernale, il migliore.”

Ci dirigiamo verso Kiel e nel canale ora c’è un’animazione bestiale. Si dirigono verso di noi una dozzina di barche a vela. Si erano raccolte nella chiusa di Holtenau ed ora veleggiano per un po’ l’una dietro l’altra, come perle infilzate l’una dietro l’altra in una collana, in direzione del Mar del Nord.

Le sue dichiarazioni d’imposta erano ammucchiate sul tavolo della cucina, ha detto prima Neuer. Le aveva compilate sempre la moglie. Ed ora, con quel tempo, avrebbe dovuto innaffiare le piante in giardino solo per un’ora. In parte non sapeva neppure che osa versasse. Si augurava che si fermasse una volta per un giorno. E la gatta era scappata dopo la morte della moglie, mentre il gatto, quello grigio che non lo poteva mai soffrire, ora vive con lui nella casa vuota e pian piano avevano finito con l’abituarsi l’uno all’altro. Lui non ha detto neppure una volta di averla amata e neppure che lei gli manca, ma per me è come se stamattina non potesse parlare d’altro.

Ed oggi siamo sul grande peschereccio attraccato lungo la via del canale e Neuer vende il suo pesce. Siedo appoggiato al parapetto e fumo una sigaretta. Walter me l’ha data senza aprire bocca e ugualmente senza parole sorvolò sul suo non farsi vedere la mattina presto. “Allora Walting, ti sei svegliato finalmente!“, ha detto Neuer.

Le persone arrivano col contagocce. Sanno quando il pescatore è qui e vende il pesce. Si fermano un po’ e parlano con gli uomini del tempo e del pesce che al momento manca. Neuer ha un guanto di lana nella mano con la quale tiene il pesce, mentre nell’altra ha un coltello col quale lo sviscera. Le frattaglie volano oltre il parapetto, dove i gabbiani se le contendono schiamazzando. Infila il pesce in una busta, la passa a Walter e chiama un prezzo. Walter incassa i soldi e lo infila nella piccola cassetta di metallo. “Mia moglie mi ha insegnato ad essere cordiale con i clienti”, ha detto poc’anzi Neuer e non posso certo dire che lui sia scortese. Ma è chiaramente felice del fatto che ci sia Walter tra lui e i clienti. Una donna compra un paio di platesse e vuole ancora parlare con gli uomini. Si nota che si era agghindata per la spesa. I capelli rosso castano sono stati lavati da poco, è truccata con decenza e porta una giacca di jeans con sotto una t-shirt bianca. Forse sui cinquanta, forse un insegnante, o una qualsiasi impiegata. Acquista il pesce e si ferma lì. Dietro di lei non c’è più nessuno a fare la fila e Neuer filetta i persici che abbiamo pescato. Tira via loro la pelle ed ammassa i brillanti pezzi bianco rosa.  

“Ha sentito qualcosa dell’omicidio?”, chiede la donna. Anch’io ho letto qualcosa sul giornale, ieri nel piccolo caffè. Un uomo ha ammazzato sua moglie, qui a Kiel-Holtenau, e la polizia non ne ha ancora chiarito i motivi. L’uomo non si lasciava portare dentro ed i vicini ciò che i vicini dicono così spesso: “Erano persone cordiali, discrete.”

La donna non molla. “Signor Neuer, Lei conosce tutti qui? Non ha sentito nulla? Perché l’ha ammazzata? Lo conosceva?”

“Che vuol dire conoscere”, dice Neuer.         

“Lei qui parla con parla con tutti.” Incrocia le tibie e la busta con il pesce penzola lì accanto.

“E Le?” La donna osserva Walter mentre lui scuote la testa e le ricambia lo sguardo.

“Su, signor Neuer e signor Walter, voi sapete più di quello che mi dite.” Con la mano gioca con il pendaglio attaccato alla catenina che porta al collo.

Walter, senza alzare lo sguardo, dice: “Forse ha chiesto troppo”, la donna lascia il pendaglio, il suo sorriso resta congelato e senza salutare attraversa il piccolo ponticello fino alla via e poi prosegue per la sua strada.

Neuer sta ancora filettando i suoi persici e dopo un po’ guarda verso Walter che è appoggiato alla piccola cabina di comando. “E allora?”, dice quest’ultimo e Neuer solo “Allora, allora”, poi ridono entrambi, con un riso che assomiglia più a quello di ragazzi che a quello di uomini adulti. Getto il mio mozzicone nel canale ed inizio a piangere, con molta facilità e per la prima volta, da quando Sarah mi ha lasciato.         

 

(Traduzione: Vito Punzi)

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