Daniel Mezger

Nato nel 1978 a Brugg, vive a Zurigo. Studi in materie teatrali alla Berner Hochschule für Musik und Theater. A partire dal 2001, numerosi ingaggi presso il Jungen Theater di Göttingen. Dall’estate 2004 è autore, musicista e attore professionista.

 

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TDDl 2010TDDl 2010

 

Daniel Mezger

Continua a vivere

(estratto Land spielen)

Tradotto da Vito Punzi

E l’insegnante di paese ogni giorno manda a casa i bambini del paese. E l’insegnante di paese rimane nell’appartamento dell’insegnante del paese. L’insegnante del paese aspetta le ferie d’autunno, così non dovrà più trovare una scusa. E l’insegnante del paese implora sua moglie. L’insegnante di paese s’intrattiene sui suoi freschi litigi. L’insegnante di paese dice formule di scongiuro. Rimani in vita. Per favore. Mia bella, mia cara. Mio ex diletto. Rimani in vita. Metti via i coltelli con i quali cerchi di tagliarti, osservare talvolta quanto giungi in profondità, non voglio vedere, non posso più leccare le tue ferite. Resta qui, se non in questo mondo almeno in un altro possibile, lo so, tu non ci credi più, non più, dici, al momento no, tento di dire, mentre sediamo su questo sofà, Armageddon, The Day after Tomorrow, Godzilla. The Storm, Dante’s Peak davanti a noi. Tutti film che non parlano d’amore, né di vita, solo di un gruppo di uomini che si cercano, che si trovano, che, nonostante la catastrofe, tirano fuori da sotto le macerie un paio di conoscenti, per poi riandarsene. Il mondo non possono più salvarlo. Questa è la sola cosa che ora capisci, qui su questo sofà, sul quale tu ed io continuiamo a sedere, sebbene io avrei dovuto alzarmi da tempo. Avrei dovuto dire: non con me, cercati un’altra spalla cui appoggiarti per frignare. Cercatene un altro che ti dica di non impiccarti. Cercati qualcuno che ti trascini in taxi e ti dia il valium, qualcuno che ti caccia dalla camera, perché si era detto di avere letti separati. Letti separati, avevi detto tu stessa. L’avevi proposto tu stessa. Avevo pianto per una mezza serata tra noi, ed un mezzo pomeriggio. Poi dovette essere salvata. Ripulire torrenti di lacrime, prendere coltelli dalle mani. Chiudere a chiave porte, così che tu non possa saltare dai ponti, invece di serrare porte dall’esterno dietro di me per dire che ora sono di nuovo single. Invece di starmene disteso su materassi per ospiti presso estranei chiamati amici, ascolto sul nostro sofà le tue domande e rispondo a tutte immediatamente: rappacificatamente. Resta in vita. Per favore, per favore, per favore, non farti nulla. Non farmi nulla. Anche se hai smesso già da tanto tempo di minacciare. Tu gemi ancora, mendichi, implori: in una notte come questa non posso dormire nel tuo letto ho rovinato tutto tu non saresti felice se io fossi via non sarebbe un sollievo. Voglio tirartele fuori dalla bocca, queste parole, voglio essere di nuovo me stesso, non voglio imboccarti, spogliarti e portarti a letto come fossi una bambina. Non posso dirti che sei una bambina, posso solo spedirti al lavoro, sicuro, questo riesci a farlo, ma per favore ora vai, vai, non lasciarti andare così, per favore conserva in te la responsabilità verso te stessa, non consentirmi di dover essere forte solo perché posso esserlo. La terra arde, viene colpita da meteoriti, cancellata da alieni, ghiacciata, calpestata, e noi sappiamo che cosa s’intende. Dal sofà siamo felici di essere compresi, saremmo felici se uno tsunami spazzasse via anche noi. Intanto ti vieto di piagnucolare, ti vieto di venire in questo mio letto che è solo un materasso per ospiti collocato nel mio studio. Ti mando via se vieni prima di mezzanotte, fai come se il giochetto non venisse intuito quando vieni alle tre del mattino. Io continuo a dormire o, mentre fai questo, faccio come se tu non fossi qui. Mentre tu progetti come potrebbe accadere l’andarsene, il dissolversi, lo scomparire dal mondo, il trasportarsi fuori dal mondo. Finché non mi svegli con il tuo piangere, il tuo tremare, il tuo ritirarti, il tuo staccare, il tuo dare i numeri. Oppure il tuo startene in silenzio, che è ciò che più di tutto mi spaventa. I tuoi momenti lucidi, nei quali ti accorgi che era stato tutto un equivoco: l’essere stata partorita. Il fatto che esistano uomini che sono semplicemente troppo deboli per questo mondo. Che tutto questo non può essere preteso da te. Che tutti penserebbero solo che tu puoi tutto questo. Ma tu non puoi. È troppo grande, troppo difficile, troppo pesante. Troppo oneroso per gli altri, troppo gravoso per me. Tu saresti senz’altro felice se finalmente me ne andassi. Dici. Che cosa dovrei fare ancora qui. Chiedi. E non lo fai in forma retorica. Mentre io non verso più lacrime, da quando nell’appartamento scorrono flutti d’acqua salata. Mi sposto a più tardi, funziono, ordino, salvo, sono pratico, sono controllato, non lascio che t’impicchi, ti chiamo al lavoro, in città da una psicologa, ti trascino in auto, ti porto in città, ti porto su per le scale, mentre tu non sai più come ti chiami e perché una psicologa ti abbia spedito da una psichiatra, e perché una psichiatra ti abbia prescritto queste pillole, che ti fanno male, e che pure ti costringo a prendere, quando ti scongiuro, ti prego di tornare da te, di alleggerirmi del tuo carico, senza che tu ti liberi subito del carico di nome della vita. Ti dico che dovresti affidarti a qualcun altro. E dico ancora una volta che in caso di necessità sarò sempre qui. Lo prometto. Ed elenco i casi di necessità. Sei corresponsabile del fatto che io t’aiuti a stare in piedi, visto che non potresti farlo più da sola. Perché ti propongo di scavarti una tana sotto il tavolo dello studio, se non funziona più nulla. E te ne stai accovacciata sotto tavoli coperti con tovaglie, ascolti cassette per bambini e mi inviti da te. Rifiuto, tiro avanti la famiglia, sono contento che tu ti dia da fare. Metto in ordine la tua vita, finché è ancora una vita. Riconsegno film catastrofici, affitto per noi film catastrofici. Così trascorrono le serate. Qualche volta. Finalmente. Così qualche volta e finalmente sei talmente sfinita dal piangere, dal mendicare, dal gridare e dal rinunciare che la smetti e ti addormenti. Ti porto a letto. Tutto è questo è routine. Una vita funziona anche in questo modo. Anche a questo ci si abitua.

Ho altro da fare piuttosto che sentirmi il polso. Sento il tuo. È lento, è veloce. È la tua vita ciò per cui combatto, mia bella, mia cara. Mia amata di un tempo. Tu narcisista, tu egocentrica. Tu accumulatrice di dolori, tu che sguazzi nello squallore, tu che reclami compassione. Ricattatrice con le tue lacrime, con i tuoi coltelli, con la tua predilezione per alti ponti e per il discuterci sopra. Ti credo, perché tu sei già altrove, mentre non desideri più essere in alcun luogo. Perché non senti più alcun dolore se rifletti su quale potrebbe essere il metodo più consono all’esito. Poiché ti dissolvi nella tua lamentela, nelle tue grida, nel tuo pianto. Nonostante il valium barcolli con le lacrime agli occhi, proprio a causa del valium, per la città, mi preghi di comprare la pappa per bambini, perché riesci a mangiare solo quella. Il tuo corpo già troppo esile perde chili su chili. Pappa per bambini, Ovomaltina, nel migliore dei casi una banana. Nel migliore dei casi imboccata. E se mi rifiuto d’imboccare, cosa che faccio per lo più, allora mangi solo se controllata. Ogni cucchiaio dev’essere da me richiesto con lusinghe. Ti prego, solo un altro ancora e poi il prossimo, no, tu devi mangiare, non devi lasciare questo mondo da affamata.

Prendi un cucchiaio pieno, dimentichi ciò che hai appena fatto, io te lo ricordo, ti chiedi se vuoi ciò che stai facendo, io te lo ordino. La mia voce si fa ferma: ora mangia e basta, smettila di piangere. Per favore, faccio pressione, ma tu non senti già più. Tu non mi ami più, dici, altrimenti non mi parleresti così. Dico che non si tratta di questo.

E tu piangi ed urli, finché non suonano i vicini chiedendo se va tutto bene. Apro e dico che nulla è a posto. E ringrazio per il loro interessamento. Non c’è nulla da temere, non la sto picchiando, semplicemente lei è così, evito di aggiungerlo. E chiudo la porta. E il giorno dopo viene l’altra vicina, chiede un po’ di latte, di latte qui ce n’è in abbondanza, da quando mangi solo la pappina. Oggi ti sei data al lavoro. Attendo per vedere quanto resisterai, sono felice del poco tempo che ti resta per me. Lavare i vestiti, spolverare, raccogliere le videocassette, sgomberare i castelli, nascondere i coltelli.

Il vicino si comporta come se non vedesse l’appartamento devastato, i quadri che mancano, le montagne di cassette che s’elevano al cielo nel corridoio e nel soggiorno. Fin dalla prima sera hai raccolto tutto ciò che ti appartiene ed una settimana dopo hai notato che così non si può vivere, non certo in maniera transitoria. Così hai nascosto nei cassetti pezzi sopravvissuti al precedente arredamento, hai sistemato cose pro forma che dovrebbero rappresentare la normalità. Rendiamo talmente confortevole  quest’abbozzo d’appartamento che ci si può ancora sopravvivere. Ma tu non puoi ingannarci, ogni occhiata gettata nel soggiorno è come uno sguardo rivolto verso la casa della tua anima, tutto è lì solo pro forma, è solo facciata, mentre in realtà tu sei già fuori da questo mondo.

E tu non inganni neppure il vicino, lui si comporta come se non fosse venuto per farsi un’idea e per gettare uno sguardo nell’appartamento. Gli faccio un cenno, lui ringrazia per il latte e se ne va. Ed io rimango nel caos che entrambi abbiamo creato. Ora viviamo come ci fossimo appena trasferiti, cerco le pentole nell’ammasso delle cassette, frugo cercando ciò che è più necessario, osservo l’appartamento, sembra sincero. Così come te. Come noi. Io so dissimulare meglio la situazione. Alla biblioteca non mi chiedono perché abbia bisogno di altri film catastrofici, non mi offrono il valium. Neanche gli antidepressivi che ora si dovrebbero prescrivere a te, anche se tu ti opponi, anche se tu dici che non si tratta di depressioni e piuttosto solo di panico di fronte all’essere sola, all’essere persa, all’essere.

Tu mendichi, implori, vuoi che torniamo ad essere una coppia, una parte di ciò che tu ed io chiamavamo “tu-ed-io”, prima che ci separassimo, prima che lo confessassimo. Il mucchietto che di te è rimasto desidera essere amato di nuovo, non ama essere da solo al mondo, non ha dunque altri oltre a me, vuole solo un po’ di sicurezza, non ha fatto nulla di sbagliato, non può farci nulla se è così com’è. Ho distrutto tutto? Chiedi. Giorno dopo giorno non premo neppure più su “pausa”, Godzilla può continuare ad infierire, mentre io ti do le solite risposte. Che cosa avrei dovuto fare diversamente? Chiedi. Oppure prometti di fare da questo momento assolutamente la brava, prometti di comprarmi qualcosa, prometti di fare tutto come io avevo sempre voluto. Andarcene insieme in un altro posto, in città a causa mia, o in un altro paese, poi fermarsi e voltare completamente pagina, senza alcun amico, a causa mia. Dovrei dire semplicemente che tutto tornerà a funzionare, che tutto tornerà ad essere come prima. Prima non andava bene, dico, un aereo da combattimento attacca Godzilla, ma per l’enorme mostro è solo una mosca, solo un’altra serata sul sofà, sopravviviamo a questo, noi due, la cosa importante è che tu lentamente ti stanchi di piangere, di implorare e di mendicare. Di promettere di cambiare. Di domandare: sono così terribile? Di domandare: che cosa mi rimane ora? Che cosa devo fare ora? Non sarebbe meglio se semplicemente non fossi più qui? Posso dormire con te stanotte?

Stanca della vita ma mai stanca abbastanza per dormire. Oppure paura di risvegliarti. Da un sogno nel quale sognavi che la situazione fosse come non era mai stata. Tutto bene, tu-ed-io. Perché non può tornare? Chiedi e chiedi e ricomincia la routine. Mi ci sono abituato. Ti mando a letto, ti caccio dalla mia camera, ti spedisco al lavoro, ti mando al colloquio d’accettazione in una clinica. Tu non vai da nessuna parte, io annullo le ore di lezione, rinvio loro e me di uno, due giorni e so che neppure allora ce la farò. Oggi sostengo che ti saresti ferita al piede, che sarei dovuto andare con te al pronto soccorso, ciò che dirò domani ancora non lo so. Tutto fuorché siedo dalle cinque del mattino accanto a te sul mio letto, che è un materasso per ospiti, e ti imploro di prendere un valium o di lasciarti istruire. Che io siedo con te da una psichiatra o la sera davanti alla televisione, mentre dico che quella psichiatra oggi ha avuto ragione nel dire quello che ha detto, mentre tu non ricordi neppure di essere stata lì. E i tuoi pensieri volteggiano, noi volteggiamo, la nostra quotidianità volteggia, come se il tempo fosse inchiodato, come se il tuo cervello fosse un uccello rapace che subito vuole aggredire, tu vuoi tagliarti fuori dalla vita, il fatto che i coltelli siano nascosti non ti fermerebbe. Mi viene risparmiata la sgridata, perché tu ti sei già tagliata, e la minaccia che io debba lasciarti istruire da sola, perché io non posso più farlo. Ed io non posso più, sono impossibilitato a muovermi, sono ancora efficiente solo in apparenza, attendo una qualche liberazione, un sollievo.

Tu abbandoni il tuo lavoro, non parli più con nessuno, ti porto tutti i giorni in città. La psicologa fa la faccia di una che sa. Dei tuoi castelli in aria, del tuo desiderio di strapparti dal mondo non le racconti nulla, finché non te lo ordino io, non te lo impongo, non te lo suggerisco in mille modi. Finché la psicologa non ti consiglia una psichiatra, finché tu non ti lasci accompagnare una volta lì, solo per renderti conto, solo per stabilire che tu lì non potrai andarci, dici che lì ci sono solo persone scoppiate che ti renderebbero ancor più sfinita. E sembra che tu stia meglio, che ti sia convinta a portare la responsabilità di te stessa, quando non vuoi venire via, oppure sono solo i medicinali di cui odori e che tu già di nuovo non prendi quando ho smesso di turarti il naso così che tu possa ingoiarli?

E l’insegnante di paese scrive una lettera ai genitori, fa iniziare una settimana prima le vacanze autunnali. L’insegnante di paese dice di essere malato, l’insegnante di paese parla di contagio vagheggia una qualche fine, fatta eccezione per uno. E l’insegnante di paese sa, quand’anche lei avesse un nuovo appartamento, seppure lei vivesse in un'altra città o qui dove un tempo arrivò, lui non la lascerà andare via. Lei chiamerà tutti i giorni, facendo sempre le stesse domande. Lui risponderà, dirà che lei deve rimanere in vita. E lui non troverà mai risposta alla domanda: perché? Se non: non farmi questo. E lui rimane al telefono finché lei non si mette una pasticca sotto la lingua, finché la pasticca non si è sciolta, con la cornetta in mano lei si mette finalmente a letto, l’insegnante di paese resta al telefono, finché non sa che anche quella sera sta passando, che lei è sopravvissuta anche a quella giornata. Rimani in vita. Per favore, ti prego, rimani in vita.