Maja Haderlap, A
Nata nel 1961 a Bad Eisenkappel, vive a Klagenfurt. Studi di scienze teatrali e filologia germanica all'università di Vienna. Assistente sceneggiatrice e di produzione a Trieste e Lubiana.
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Im Kessel
© 2011 Maja Haderlap
Traduzione: Vito Punzi
Nella caldaia
Il boschetto dietro la nostra casa che devo attraversare andando verso Michi e la sua famiglia, quando voglio vedere la televisione, sta crescendo rigogliosamente. Credevo di conoscerlo bene. Ho attraversato quel boschetto infinite volte e potrei percorrerlo ad occhi chiusi. Invece devo farmi coraggio per entrarvi. Prima credevo di poter annusare ogni tratto del percorso, ogni piccola radura, la statura, talvolta bassa altre volte alta, degli alberi, di poter tastare ad occhi chiusi la sequenza delle piante di nocciolo, dei lamponi, dei cespugli di salice, di poter percepire quando la copertura costituita dagli abeti sopra di me si apriva o si chiudeva. Ora il boschetto ha perduto la sua intimità. Si è unito al grande bosco e si è trasformato in un mare verde, pieno di aghi appuntiti e di scaglie ad angoli vivi, con un sottobosco di ruvide croste ondeggiante e debordante. Non appena mi metto alla finestra della camera da letto il bosco s’accalca nel mio occhio, oppure se ne sta in agguato dietro al prato con la sua superficie scanalata e dentata. Un giorno esonderà, temo, ed abbandonerà la Waldraine, invaderà i nostri pensieri, così come sento ora che il bosco occupa i pensieri degli uomini che lavorano con mio padre o che ci vengono a trovare per andare con lui a caccia.
Andare nel bosco nella nostra lingua non significa solo tagliare alberi, cacciare o raccogliere funghi. Significa anche, come si racconta ogni volta, nascondersi, trovare rifugio, aggredire alle spalle. Nel bosco si è dormito, cucinato, mangiato, non solo in tempi di pace, gli uomini e le donne se ne sono andati nel bosco anche durante le guerre. Non in questo bosco, no, era troppo rado per quelle cose, troppo piccolo e di facile orientamento. Hanno fatto irruzione nei grandi boschi. I boschi sono stati il luogo della fuga di molte persone, un inferno nel quale è stata cacciata la selvaggina e nel quale loro stessi sono stati cacciati come fossero selvaggina.
I racconti gravitano sul bosco come il bosco gravita intorno alla nostra corte.
In esso si nascondono i campi di caccia, i campi di foraggio, i luoghi delle bacche, i posti dei funghi che vengono rivelati. Ancor più segreti sono i luoghi segretissimi cui nessun sentiero e nessun viottolo conduce, quelli che devono essere rintracciati percorrendo sentieri di caccia e letti di torrenti, i luoghi per nascondersi e per sopravvivere, i bunker nei quali la nostra gente, come si dice, si nascondeva.
Quest’anno un vento impetuoso ha causato grossi danni sulle pendici boschive comitali. L’uragano ha lasciato dietro di sé una distesa di distruzione nella quale gli alberi sono a terra, piegati, spezzati e sradicati. Da tutte le zone di taglio del conte vengono radunati i legnaioli per rimuovere il capolavoro compiuto dal vento. Per settimane l’urlo delle seghe, il sordo strepitare delle accette e il crocchiare dei tronchi pendono sopra il fossato.
Nei fine settimana si raccolgono nella nostra corte i boscaioli per affilare e migliorare i loro arnesi. I loro pantaloni sono disseminati di macchie di pece che brillano come piccoli acquitrini. Dal centro dell’acquitrino s’estendono boccioli di sudicio a forma circolare e filtrano come ombre di nubi di pece nella stoffa dei pantaloni. Le camicie dei boscaioli sono intrise di sudore, i maglioni e le giacche che si sono messi attorno alle spalle si sfilacciano nelle maniche e nei bordi.
Papà ripara una sega che lui chiama “l’Americana” standosene seduto su di una panchina. Martella sulla sega con colpi leggeri. Quella s’alza e s’abbassa con cadenza ed emette ronzii.
Tu fai ballare la sega, dice Michi. Appena la metto nelle tue mani le viene il buonumore. Zio Jozi racconta ai suoi colleghi che gli piacerebbe trasmettere alla radio ed ha già richiesto un registratore alla sezione slovena della radio austriaca, parlerà con la gente e registrerà i colloqui. Se i suoi colleghi non avessero nulla in contrario lui creerebbe una storia su di loro, i boscaioli del conte Thurn.
Voi non siete più taglialegna, disse papà, già da tempo avete abbandonato il bosco.
Si dovrebbe guardare dove si resta, rispose Michi, non si potrebbe andare ogni giorno nel bosco come se non ci fosse nient’altro, come se non si avesse altra possibilità per guadagnare soldi. Lui si è iscritto al partito socialista. Qualcuno gli ha promesso che l’avrebbe sistemato da qualche parte.
Vuoi fare politica? chiese papà, ma sindaco non lo diventerai mai, non lo permetteranno mai, a te che sei sloveno, di diventare sindaco, mai!
Tu non capisci, dice Michi.
Capisco ciò che devo capire, ribatté papà.
Lui riferisce che in quella settimana dal crinale di Mozgan, dove lui taglia legna per i contadini, è andato oltre il confine verde, sul lato sloveno, a Kumer, per farsi una birra. Le donne erano rimaste sorprese dal fatto che lui avesse osato oltrepassare il confine. Gli erano state poste domande a proposito di persone di Lepena e gli era stato chiesto di salutare tutti i conoscenti. Grazie, grazie dicono i taglialegna e a piedi prendono la via del ritorno. Solo Jozi sale su una moto e su allontana con quella, facendo un cenno con una mano.
Dov’è il confine? chiedo a papà.
Lassù, risponde e mi indica la cresta che chiude la valle in semicerchio.
Vorrei venire una volta con te al lavoro, dico.
Papà è così sorpreso dalla mia richiesta che mi promette di portarmi il giorno dopo con lui al taglio, in qualche modo dovrebbe portare fin lassù degli attrezzi.
La mattina presto la sua moto è davanti alla stalla, una Puch col serbatoio scuro rilucente che sembra il dorso di un delfino nero. Papà fissa lo zaino ripieno d’attrezzi ed una tanica di benzina al portapacchi. Io mi siedo dietro e stringo prudentemente le braccia attorno al suo bacino. Dice che devo stringermi a lui, così da non cadere dalla moto. Alla prima curva mi grida: Stai dondolando, tieniti stretto, altrimenti sbandiamo. Dopo la paura iniziale che mi assale quando papà frena e prende una curva, mi lascio trascinare in posizione retta dalle sue sollecitazioni.
Posa la moto dietro la corte di Mozgan, spinge un paio di morsetti di ferro dietro la cinta dei suoi pantaloni e imbraccia lo zaino. Prendiamo a camminare lentamente. La benzina nella tanica gorgoglia. Si deve camminare su di un terreno ripido, altrimenti ci si sfiata, dice papà. Poi accelera i suoi passi. Resto indietro e su tratti pianeggianti prendo la rincorsa per raggiungerlo. Hai fatto la guerra qui? Chiedo.
Sì, più in alto avevamo un bunker, risponde. Tuo nonno era responsabile della posta delle staffette. Io cucinavo. Era molto pericoloso.
Hai avuto paura? Chiedo.
Non poteva che essere così, ero ancora un bambino, avevo un paio d’anni più di te.
Alle nostre spalle si sente scappare un animale selvatico.
Ci ha preso in giro, dice papà.
Sotto la sommità del bosco, tra abeti possenti, i cui grossi rami quasi toccano terra, appare una capanna. È ricoperta per intero da cortecce che strato dopo strato sono state inchiodate su di una sottostante struttura in legno. Altre volte, quando abbiamo tagliato la legna, dice papà, abbiamo dormito qui. Apre la serratura e appoggia gli attrezzi e la tanica sul tavolaccio libero.
Devo andare a tagliare, dice, poi potremo oltrepassare il confine.
Il suo posto di lavoro appare ordinato ed è segnalato da cumuli di rami. Tocchi di legno con e senza corteccia sono disposti sul terreno, con monconi di rami o ripuliti, come dice papà, in mezzo un odoroso piccolo cumulo di segatura. I tocchi hanno gli angoli tagliati di sbieco, i punti di taglio dei ceppi rifulgono come piatti di legno appena intagliati
Papà se ne sta al centro della radura ed abbraccia con lo sguardo il taglio, poi raccoglie i tasselli spaccati sparpagliati e li copre con dei rami. Ora berrei volentieri una birra, dice e mostra la direzione che porta al confine.
Con mia meraviglia il confine di stato corre vicino all’area di taglio. Dalla cresta del bosco posso abbracciare con lo sguardo la parte jugoslava del versante boschivo, che con mia sorpresa assomiglia a quello austriaco e si manifesta come una prosecuzione del paesaggio consueto. Per saltare il confine papà s’appoggia su di un palo del recinto. A me invece permette di strisciare sotto il filo spinato, mentre lui solleva il filo che sta sotto, così che io non resti impigliato tra le spine attorcigliate di quel filo. All’improvviso lui ha di nuovo fretta. Scendendo con lunghi passi attraversa un rado bosco. Non riesco a seguirlo. Felci di bosco mi sbattono in faccia. Lui mi aspetta sotto il bosco. Siede sull’erba e guarda verso una profonda valle che sembra scomparire per intero nella depressione.
Là dietro la Raduha, papà indica il dorso di una montagna, là sono andato a scuola durante la guerra. non per molto. Saranno stati quattordici giorni. Sono andato a scuola lì, a Luče, dice. Lui e suo fratello erano a bacchetta delle staffette, in una fattoria. Dopo la loro fuga da casa poterono restare nel bunker del loro padre per sole due settimane. Poi furono portati in val Savinja, perché quella valle si trovava in territorio libero. A gennaio si dovette abbandonare la centrale di comando, poiché la valle era stata attaccata dai tedeschi. I tedeschi hanno sparato così tanto sui campi da bucare fino a questo punto la terra, dice papà. Lui e le staffette hanno sotterrato nel terreno le macchine da scrivere. Scavarono un buco, vi gettarono della paglia e sopra quella poggiarono le macchine da scrivere. Poi vi sparsero sopra altra paglia e infine terra, erba e neve, finché in superficie non si notasse più nulla. Nel pomeriggi si misero in cammino e marciarono per tutta la notte. I tedeschi il giorno dopo continuarono a darci la caccia, dice papà. La neve mi arrivava ai fianchi. Un comandante di reparto pensò che non ne sarei venuto fuori. Sputa energicamente, come se dopo il racconto dovesse alleggerirsi.
A Kumer ci salutano due donne che conoscono il suo nome. Zdravko, chiamano, Zsravko, che bello che tu sia tornato! Servono una birra a mio padre e un panino con spalmato sopra del pasticcio di fegato.
Sulla strada del ritorno il mio papà mi guarda assente e sorridente. Mi immagino come sarebbe bello se mio padre si confidasse con me e mi descrivesse ancora una volta la storia che ha raccontato e poi mi chiedesse che cosa ho vissuto e a lui potessi rispondere che sulla strada che porta a scuola vengo ricattato e che sogno che lui punti i miei compagni di scuola, pretendendo da loro di smettere immediatamente di minacciarmi. Con la speranza di poter contare su mio padre gli faccio una promessa tacita, una promessa che io stesso non capisco, la concessione di accompagnarlo sulle vie di casa e su quelle per la scuola, sulle vie in questo paesaggio, forse, o nel suo ricordo. Durante la salita attraverso il bosco rifletto se io debba rimanere nel mio corpo di bambino o se desideri superare me stesso, e per quel giorno resto infilato nella mia gonna corta, nella mia calzamaglia di cotone e negli stivali di gomma.
Quando sotto il confine mettiamo piede sul Finanzerweg mi metto alla ricerca di impronte di piedi nel terreno molliccio, nel quale si sono formate pozzanghere. Papà dice che i finanzieri, oggi che è domenica, forse hanno fatto festa, e di quest’ipotesi lui stesso si mette a ridere.
Raggiungiamo il territorio austriaco senza essere scoperti e papà chiede se desidero partecipare ad una battuta di caccia, poiché lui ha notato che potrei andarci con decoro. Rispondo di sì e decido di superare la mia ombrosità boschiva. Sulla via per Mozgan il bosco permette allo sguardo di gettarsi sulle corti disposte in ordine sparso negli affossamenti della valle. Ci fermiamo e guardiamo fuori della boscaglia verde. Come due pesci, mi viene in mente, che fanno capolino dal fuco. Ho visto gli arzilli pesci alla televisione e mi immagino come mio padre ed io osserviamo con grandi occhi dalla confusione del sottobosco e poi scompariamo in esso, sollevando una piccola nuvola di polvere che solo lentamente si trasforma in acqua torbida. Un mare pieno di steli, penso, presto raggiungeremo la riva.
Quando salgo sulla moto di papà sono felice. Stringo le mie braccia attorno alla sua vita e premo contro la sua schiena. È pomeriggio tardi quando scendiamo la strada piena di curve della Koprivna. Il sole si offre alla nostra altezza. Ad un tornante sporgente il mio papà si ferma e si fuma una sigaretta. Prima qui c’era una rete, dice e soffia il fumo nell’aria.
Prima di raggiungere la depressione della valle superiamo un ponte di legno in direzione di una casa cadente nascosta in mezzo ad alberi di prugne e meli. Quando scendiamo dalla moto, appoggiato ad una falce, davanti alla porta di casa c’è Jaki, il collega taglialegna di papà. Attorno alla casa c’è sul terreno l’erba tagliata a forma di onda.
Sono andato in mezzo all’ortica, dice Jaki. Sieti andati a tagliare? Chiede papà.
Se non si taglia con regolarità cresce di tutto, dice Jaki. Lui è stato giusto oggi su, a Blajs, lì prolifera anche l’erba.
Papà guarda una figura solitaria che è ancora illuminata dal sole.
Peccato che nessuno coltivi la terra della fattoria, dice. Chi avrebbe immaginato che sarebbe andata così?
Quanti fratelli sono morti nel lager? Chiede Jaki.
I tre più grandi, Jakob, Johi e Lipi, dice papà. Le ceneri di Lipi sono arrivate da Natzweiler, gli altri sono morti a Dachau.
Sento il sonante nome Dachau che già conosco, Natzweiler però mi risulta nuovo e lo dimentico subito.
Anche suo zio è caduto lassù, ricorda Jaki. Ha disertato, dice rivolto a me, perché percepisce il mio sguardo, ed è stato ferito durante la prima battaglia con i tedeschi. si è trascinato sul prato verso Jekl e sanguinante è rimasto disteso dietro ad un cespuglio a valle della strada. Il battaglione dei tedeschi lo ha raggiunto ma non l’ha visto. Solo l’ultimo uomo del gruppo s’è accorto di lui e gli ha sparato, uccidendolo. La gente di Jekl lo ha sotterrato di lato alla strada.
Lo so, dice papà, conosco quel posto.
I morti tramandano la loro freddezza a questa macchia, dalla quale il sole si è ritirato. Mi chiedo se il freddo che mi fa venire i brividi abbia a che fare con la sera e con il bosco che s’avvicina alle case. La luce s’affretta a raggiungere le cime. Papà sprofonda nell’immobilità. Gli chiedo di dirigerci verso casa.
Sì, sì, dice, non dovrei cincischiare come mia madre. Si decide a salire in moto solo quando Jaki spinge la sua macchina attorno all’angolo della casa. Scendiamo in tre lungo la strada di ghiaia, ma alla biforcatura, quando dovremmo voltare a sinistra, mio padre volta a destra e si ferma al margine della strada.
Tu puoi andare a casa, se vuoi, dice, lui va a farsi un’altra birra.
Prendo la scorciatoia attraverso il pascolo della locanda, dove pigre e satolle mucche si colpiscono con le loro code. Passando su due tronchi d’albero che si trovano al di là del torrente Lepena mi libro sino a raggiungere l’altro lato del torrente e mi affretto a salire una scarpata dietro la quale si fa udibile il grugnire dei maiali della nostra stalla.
Si dice che il modo in cui qualcuno sia entrato o sia uscito dal bosco svela tutto di quella persona. Portava con sé un fucile, una stella rossa sul berretto, portava due paia di pantaloni e due cappotti per non congelare, veniva con la camicia aperta e i pantaloni strappati, con un capriolo morto nello zaino, oppure portava il lardo per i disertori, lassù dove ci sono gli abeti più alti? Portava un cesto pieno di funghi, una brocca di birra, oppure la posta di un corriere nelle tasche? Portava una camicia pulita, odorava di pece e di bovino, oppure puzzava di rancido e di terra e sudore prodotto da paura, di sangue e di escoriazioni?
Gli amici cacciatori di mio padre portano pantaloni stirati e giubbe con i colori degli alberi, nei capelli odorano di muschio e nei cappelli portano gli scalpi di prede. Dai loro zaini penzolano le teste di vari esemplari di cervidi, che sono stati affrontati con il fucile, che sono piaciuti e per questo sono stati abbattuti. Dalla bussola colano ancora sangue e sudore, la rugiada dell’ultimo respiro che quegli animali hanno tirato. I loro scuri occhi prorompono ancora a lungo nel capo pallido (zart = fragile, tenero), i loro crani, liberati da pelle e peli, cuociono a fuoco lento ancora a lungo nell’acqua all’idrogeno, finché imbiancati, come trofei, vengono tirati fuori dalla pentola.
La caccia appartiene al mito familiare, ogni giorno di caccia è un giorno di festa, è così da sempre, dice papà. Si premura ancora di andare a caccia all’alba e di sera, di oliare i suoi moschetti e i suoi fucili, di pulire il suo cannocchiale, di contare le sua cartucce. In cucina si prepara e si brasa ancora carne di selvaggina, le esalazioni delle zuppe di camoscio risvegliano il nostro appetito. A casa nostra ancora vanno e vengono i suoi amici cacciatori e raccontano storie. Lui si rallegra della battuta di caccia annuale, del bracconaggio, cui lui mi vuole portare con sé, perché io sono davvero bravo.
Quando è il momento, si discute della battuta di caccia alla mattina presto, mentre ai cacciatori vengono serviti tè caldo e frittelle. Viene suddiviso il terreno, vengono assegnate sezioni di bosco, si stabiliscono i box. Io devo andare con il vecchio Pop, che conosco bene. Lui è il più anziano del gruppo e, come si dice, quello con gli occhi peggiori. Una volta, si racconta si sono voluti mettere alla prova lui e la sua vista, nascondendo un gatto domestico sotto un pelo di lepre a lui ben fissato con dei lacci. Il gatto, furioso e graffiante, si mise in salvo salendo sull’albero più vicino e Pop non volle credere ai propri occhi, perché lui, e questo potrebbe giurarlo in ogni momento, vide per la prima volta una lepre arrampicarsi su di un albero.
La nonna mi prende da una parte. Lei ha sentito che la caccia dovrebbe concludersi da Gregorič. Così mi chiede di salutare da parte sua la vecchia Gregorička. È stata lei a portarmi via dal lager, quando quello doveva essere evacuato ed io ero troppo debole per andarmene da sola, dice la nonna. Gregorička mi ha retto, sostenuto e portato con un carriola per tre giorni, finché le SS scomparvero. Gregorička è impazzita quand’era ad Auschwitz, ancor prima di essere stata trasferita a Ravensbrück, e da quel momento ha bestemmiato, sostenendo che il diavolo che l’aveva portata nel lager avrebbe dovuto anche farla uscire. Nella sua gioventù lei era stata una donna energica che poteva competere con chiunque, racconta ancora la nonna. Annuisco e dico che le porterò i suoi saluti.
Mentre ci dirigiamo verso la nostra sezione di bosco e battiamo con i bastoni su alberi e cespugli Pop mi tiene per mano. I cacciatori hanno sistemato i loro fucili sulle spalle ed avanzano davanti a noi. I cani spingono le lepri e le volpi verso di loro, si sentono solo colpi sporadici, vediamo fuggire verso di noi solo pochi animali.
La sequenza delle prede che viene predisposta nel pomeriggio davanti alla corte dei Gregorič è breve come la veglia funebre e veloce come un sorso di grappa. Nella locanda dei contadini ci viene domandato se si è cucinato lo spezzatino, per l’impulso degli avventori, come si dice. La vecchia Gregorička siede sul pancaccio accanto al tavolo. M’incammino verso di lei per portarle i saluti della nonna e le do la mano. La sua è fredda e umida. Puzza di urina. Gregorička non si rende conto di chi stia salutando e mi guarda con uno sguardo vuoto. Sveršina cerca di interporsi. La vecchia ed energica donna fa un cenno e mentre mangiamo dondola il suo corpo gagliardo avanti e indietro. La osservo di lato e devo pensare alla nonna e a come questa Gregorička sia stata in grado di gettare per aria degli uomini e di portare fuori dal lager la mia nonna indebolita.
Un cacciatore racconta che il suo vicino, che è appena morto e durante la guerra aveva combattuto con i partigiani, una volta gli ha raccontato che durante la guardia, non nella posta della caccia, ha adocchiato un cervo bianco ed ha avuto l’ispirazione che il bunker dei partigiani sarebbe stato scoperto. Lui aveva avvisato i combattenti ma quelli non avevano voluto dargli retta. In effetti il giorno successivo il bunker fu attaccato dalla polizia. Quello era stato un segno, si dovrebbe tenere conto dei segni, dice il cacciatore. Sveršina la considera una follia, ispirazione, ma che ispirazione, sbraita lui. La paura che si potesse finire nelle mani della Gestapo non è stato nulla di paranormale. Dopo che lui ha portato Kori dai partigiani non è durata a lungo e la polizia è nella corte dei Brečk. Qualcuno potrebbe averne sentore e per lui già significa: via, verso Mauthausen!
Papà chiede se i cacciatori ricordano ancora chi sia stato il miglior tiratore a Lepena, allora, dice, allora non vi viene in mente nulla, è stata la vecchia contadina di Mozgan, prosegue lui dopo una breve pausa, come se avesse giocato l’asso pigliatutto. Lei aveva una leggendaria mano da bracconiere ed ha abbattuto qualche forte capriolo. Che cosa dite su questo? vuole sapere papà, potete solo sognare di riuscire a mirare così bene come sapeva fare la contadina Mozgan. Lei faceva la maglia nella posta da caccia e quando un animale cominciava a brucare lei non batteva più ciglio, sollevava il moschetto e peng, colpito! Ma a Ravensbrück non è sopravissuta, Sveršina gioca il jolly, perché lei era andata in rovina, sì lei era andata in rovina.
Quando i cacciatori se ne vanno inizia a far buio e noto che papà ha bevuto troppo. Si regge su gambe traballanti e si lamenta di quanto sia lunga la strada da fare ancora per arrivare a casa. Qualcuno mi mette in mano una torcia elettrica e mi si lascia andare dicendo: fai attenzione a tuo padre.
Io cammino davanti e tentò di illuminare il sentiero per papà e me. Lui racconta quanto spesso abbia fatto da solo quel percorso e quanto lo conosca bene.
Il bosco inizia ad attrarre a sé l’oscurità. Da tutte le parti ci coglie di sorpresa un silenzio mal sonorizzato che sembra starsene in agguato sui nostri passi. Penso a come far parlare mio padre, così che l’assenza di rumori non dilaghi. Quando noi usciamo dal bosco e ci fermiamo sul prato dietro alla fattoria degli Auprich chiedo come si chiami quella fattoria che più in alto si può riconoscere sotto la cupola della collina ricoperta di bosco. Quella è la fattoria Hojnik, dice papà, anche lì ha infierito la polizia nazista. La famiglia doveva essere evacuata ma il vecchio Hojnik si rifiutò di abbandonare la fattoria. Per questo motivo fu ucciso sul posto. Il figlio e la nuora vennero fucilati, i morti furono gettati in una capanna in legno e fu dato loro fuoco. A papà si spezza improvvisamente la voce. Parla con una tonalità leggera. Trovo la cosa urtante.
S’alza un vento leggero. Non appena siamo entrarti di nuovo nel bosco gli alberi prendono a gemere. Lo stormire delle fronde è appena udibile, tanto è frammisto con voci e grida. Prego mio papà di allungarmi la mano. Lui ride e fa un lungo passo in avanti per afferrarmi la mano. In questo momento perde l’equilibrio e scivola per lungo in un declivio scosceso, finché finisce disteso dietro un cespuglio. La torcia elettrica che ha trascinato con sé quando ha tentato di afferrarmi la mano si è spenta. Nell’oscurità non riesco a vederlo e lo sento che impreca là sotto. Come diavolo posso risalire da qui, piagnucola. Penso che gli sia accaduto qualcosa e faccio cenno di scivolare giù verso di lui, resto su, me la cavo da solo. Lui inizia da solo a salire scivolando lungo il declivio. Non c’è luce, come si può riconoscere qualcosa con quest’oscurità? impreca papà mentre affonda gli scarponi di montagna nel terreno per trovare appoggio. Nel frattempo mi ha quasi raggiunto e dice: ora puoi tirarmi su, ed io provo a tirare con tutte le mie forze. Papà è di nuovo in piedi accanto a me. Voglio riposarmi un po’, dice, poi proseguiremo. Si siede sul terreno del bosco e si addormenta, così almeno mi pare, dopo pochi secondi. Mi accovaccio accanto a lui e sento che mi stanno scendendo le lacrime. Il bosco e l’oscurità sguinzagliano ogni tipo di fantasma su di me afferrandomi all’impazzata. Sollevo la mia testa e cerco di vedere la luna, che questa notte è velata. Una sfera scura sembra abbassarsi dal cielo verso di me. Temo di averla tirata giù con le mie lacrime e chiudo gli occhi. L’oscurità mi afferra e si riversa inebriante nel mio petto.
Papà è disteso come intontito accanto a me. Dopo un’eternità apre gli occhi e dice: sai, quando nel bosco si ha paura si devono cantare le canzoni dei partigiani. Lui l’ha già fatto spesso ed è sempre d’aiuto il fatto che io ne conosca alcune. Da parte mia rinuncio. Va bene, allora canto io, dice. E papà canta canzoni di guerra partigiane, per quello che gli consente la voce, ricordandosene solo alcune strofe, dunque ripetendo sempre le stesse, finché arriviamo a casa.
La mamma ci attende irritata, mentre sta accudendo la cucina. Non voglio inquietarla, dunque non voglio raccontarle nulla delle fatalità che ci sono capitate. Temo che la morte si sia annidata in me, come un piccolo bottone nero, come un oscuro lichene appuntito che invisibile s’infila nella mia pelle.