Michel Božiković, CH

Nato nel 1971 a Zurigo, vive a Zurigo. Studi di filosofia, scienze politiche e pubblicistica a Costanza e Zurigo. 2006 – 2008 diploma postuniversitario Executive MBA a Zurigo, Yale e Fudan.

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Wespe

© 2011 Michel Božiković

Traduzione: Vito Punzi

Vespa

 

Resto disteso sulla collina per metà della notte, nel frattempo, quando per breve tempo torno in me, proseguo, non so se non spararsi sia stata la giusta soluzione, ed alterco, alterco per l’intera notte, sempre, quando la coscienza ritorna, un cerchio da sinistra verso destra e viceversa, e sempre in forma circolare, vita, morte, quale diavolo è la differenza? È chiaro, devo vivere per quanto a lungo è possibile e la luna e l’isola non offrono alcuna chance, lo spettacolo è troppo intenso, eternità fin nelle ossa.

Dunque mi adagio di nuovo, la pistola sul cuore e i pensieri rivolti alla famiglia, ai genitori, ai fratelli, talvolta anche alla compagna che credo di amare, sono certo le visioni che danno da fare, le visioni dei genitori, come appaiono davanti alla loro tomba, guardare in basso verso qualcuno, affranto, i fratelli pallidi, e ad un certo punto la luce cambia, la luna non brilla più, lotta disperata contro il sole, che manda in avanscoperta un rosa che a qualcuno spezza il cuore e so di nuovo che voglio vivere ed è così per sperimentare ancora una volta un attimo del genere, dal momento che sento un tintinnare, il leggero tintinnare di campanelli, ed è già passato, e penso, resto allucinato, e non sarebbe neppure strano dopo tre giorni senza sonno, dopo una notte durante la quale sono stato disteso e sveglio come uno stregone in trance, come uno sciamano suicida senza il sapere dei suoi antenati, e mi auguro, possiederei i relativi aiuti, sarei volato via e non avrei sentito il dolore, avrei fatto un salto e mi  sarei svegliato di nuovo nel letto, migliaia di chilometri a nordovest, un Castaneda di Dalmazia, ma poi forse non l’avrei vista, la piccola vespa che volando a zig-zag è arrivata posandosi su qualcuno; che cosa cavolo fa qui, mi chiede, per te non c’è nulla qui da mangiare!

Sciocchina, vorrei gridarle, e a qualcuno davanti a quella creatura vengono le lacrime, che cos’è lei in filigrana? Vive la propria vita senza brontolare, senza se e senza ma, e atterra sulla punta dello stivale destro, dopo aver compiuto uno, due volteggi, si percepisce, è come se lei sentisse in quale squallore mi trovo, vorrei abbracciarla per la sua presenza, quella piccola cosa, e comincio a parlare con lei, Francesco fucking Assisi, per Dio, no, è una vita che vale la pena vivere e lo è solo per uccidere altri, come la vespa, questa piccola e brutale assassina.

La compagna ha pianto in quella notte, in quelle immagini che ho visto davanti all’occhio interiore, lei ha pianto ed ero certo che lei ha avuto lo stesso sogno, ed anche i genitori, perché frattanto loro dovevano aver trovato la notizia, passando questa notte nella paura, e mi odio per questo, come si potrebbe far loro questo, le lacrime della madre, la preoccupazione del padre, per nulla e di nuovo nulla, ma avrei potuto dire loro che vorrei morire in guerra per una patria nella quale non ho mai vissuto, che non è stata mai neppure desiderata, difenderla, proteggerla, chi dunque, un’idea, un ideale? E si pensa a Franco, quel segaiolo, e a tutti quei giovani e a quelle giovani dall’intera Europa e dal mondo intero, arrivati per difendere gli uomini che avevano meritato di meglio, e dove sono quelli ora, gli uomini e le donne dall’intera Europa e dal mondo intero, che fine ha fatto il loro aiuto, avrei detto ai genitori, e loro forse avrebbero esaminato attentamente, ma questo non l’ho fatto, anche perché non avrei ottenuto l’auto, in nessun caso.

La vespa annusa le lacrime, percepisce il dolore, siede ancora lì, e come se la pregassi di avvicinarsi, e non la schiaccerò, perché svolazza con le sue alette, si solleva lentamente come un piccolo elicottero, piega le ali in avanti e si avvicina senza frenesia, e non si so se devo distendere la mano, oppure se facendo ciò la  terrorizzerei, ma lei non ha paura, neppure un po’, si avvicina, annusa la canna della pistola, le piace lo zolfo, il piccolo diavolo, vedo le sua tenaglie, so che con quelle uccide altre creature, lisce a metà, ed è come se controllasse la pistola per vedere se sono armato quanto lei.

Lei si siede sull’avambraccio sinistro, sulla pelle morbida che lentamente si sta scaldando al sole mattutino che tutto trasforma in rosso e quasi riluce d’arancione, e lei mi osserva con i suoi mille occhi, come volesse dirmi che quella di continuare a vivere è la decisione giusta, perché quello di vivere è anche il suo destino, e non si può sapere quando arriverà l’uccello che la mangerà, o quando io verrò ucciso da un nemico, tira a campare, sembra dire, divora, uccidi e muori, se è arrivata la tua ora.

Il sole vince la battaglia per il nuovo, sostituisce la luna e posso riconoscere in lontananza la catena delle isole, quando questa viene raggiunta dai raggi, ed il rosso si fa più intenso, e quella sbuca fuori, si eleva come cosa del tutto ovvia, la linea rossa corre attraverso le isole, e vedi, è il sole, dice la vespa osservandomi, occhieggia il rosso viso ed entrambi sappiamo che si lotterà, che entrambi combatteremo, finché non arriverà il grande uccello.

Di nuovo quel tintinnare e non sono sicuro se si tratti di un brutto scherzo degli esaltati sensi oppure davvero di un risuonare di campanelli: la vespa si solleva, molto lentamente, tranquilla, con gli occhi rivolti verso di me vola come se così facendo volesse benedirmi, mi traccia un cerchio attorno e ronza via dalla creatura alla quale forse lei ha salvato la vita, ed il tintinnio si fa sempre più forte, e lo si può localizzare, viene da dietro, c’è un tintinnio proveniente da un qualche punto dietro le prossima collina e dice a qualcuno che è tempo di tornare in sé, di darsi una regolata e di alzarsi e di lanciare al nuovo giorno un vivo “Salve, io sono qui!” e la decisione di restare momentaneamente in vita, di rafforzare, una vita nella quale compio una prima mossa, e deve trattarsi di una mossa irrevocabile, assolutamente inevitabile: devo scendere alla macchina, perché la troverò. E non potrò continuare ad insultare i soldati che arriveranno, mentre giocherello, dirò loro che volevo uccidermi, poiché non intravedevo più alcun significato, c’è poi un cane che abbaia, mi volto e di fronte a me c’è un grosso animale con sguardo tagliente e lunghi denti, mi sta osservando, mi sta fissando immobile e minaccioso, finché arriva il suo padrone, un giovane pastore, che con la sua mandria se ne va in giro in questo deserto di pietre. Il giovane solleva il suo bastone e lo lascia cadere su di una pietra provocando un leggero ma distinto rumore, allora il cane si volta e torna da lui, s’accosta alla sua gamba e infine torna ad occuparsi delle sue capre. S’allontana dalla figura che non s’adatta all’immagine e che non ha perduto nulla nel suo mondo, lontano da un altro che è intaccato dal virus della follia.

Il giovane non dice nulla, non fa neppure alcun cenno di salutare qualcuno, e divento coscienti dell’impressione che devo fare su uno che dopo aver fatto un’alzataccia è arrivato con le sue capre su di una collina e all’improvviso si ritrova di fronte a questa figura in nero che ha in mano un’enorme pistola e, mio Dio, penso tra sé, il giovane se ne sta incredibilmente tranquillo di fronte a quella situazione e alla scena che gli si offre.

Ripongo l’arma in maniera ostentatamente lenta, in forma del tutto incidentale, poi faccio un cenno a quello, con la mano destra, che ora è libera, ed il giovane pastore ammicca, si volta e va verso sinistra, scompare dietro la collina, quella da cui era arrivato, ed ora mi siedo e so che il giovane, se non mi sbrigo, s’imbatterà in uno degli uomini, e dirà a chissà chi che sulla montagna siede un folle personaggio vestito di nero, con una pistola in mano, e spera siano civili o forse soldati quelli di cui lui racconta, certo non poliziotti, tanto meno quello dell’ultima notte, dunque mi metto in cammino.

I passi sono incerti, ma li faccio senza inciampare e senza cadere in avanti; o i piedi conoscono il sentiero, oppure sono la stanchezza e il corpo leggero, e perché anche zampe cotte di gallina con pejote e succo di coca, quando è lì l’isola, e la luna e il sole e il mare e la montagna e la mancanza di senso e le vespe inviate da Dio e il grande uccello con i suoi carri armati, le sue granate e i suoi proiettili.

L’auto è chiusa, dovrò aspettare, così mi siedo lì accanto, lascio penzolare le gambe al margine della strada, lì dove, trenta metri più in là, sotto, rumoreggia lieve il mare, appena mosso, come in una vasca, quasi viscoso, le onde arriveranno più tardi, insieme al vento, e lì sento un motore, già da lontano, e quando si avvicina sempre più sento il suo guaito riflesso dalle rocce della montagna, seguito dallo stridere dei pneumatici che a lungo bloccati strisciano sull’asfalto, uno stridere che si conclude con un brontolio palpitante: sono qui per prelevare qualcuno.  

La lievità percepita di nuovo alcuni istanti fa si stacca da me, come schioccata da un violento ceffone di qualcuno, e la stanchezza di colpo mi soffoca: potrei inclinarmi in avanti e, se chiudessi gli occhi, sarebbe anche il minimo movimento, e sarebbe compiuto. Ma lì non vedo nessun uccello, dunque mi alzo, gemendo come un vecchio, li vedo scendere dalla loro auto della polizia, uno in abito civile, l’altro in uniforme, e questo afferra subito la sua pistola, ma non dalla fondina, fatto che mi stupisce, probabilmente a causa dei film americani e del pejote.

Stanno cercando qualcuno?, chiedo, e l’uomo in abiti civili risponde “Sì!” e chiede come va e rispondo così così, che ci sono alle spalle un paio di notti difficili e quello annuisce solamente. “La pistola”, dice quello in uniforme all’altro ma questo lo ignora e dice che non mi devo preoccupare, che è tutto a posto, e questo lo confermo annuendo e dicendo: “Chiaro, è tutto a posto”. Ma so che non è vero e getto uno sguardo sull’isola che ora sembra essere molto lontana rispetto al momento del levare del sole, e a me e con impressionante nettezza, quella che deve cogliere chi sale al patibolo, a me diventa chiaro che mi sono ficcato nella merda fino al collo e che non c’è davvero nulla che sia a posto: Mi dirigo ora direttamente verso la prigione, forse non per l’eternità, ma addirittura per un periodo un po’ più lungo, perché c’è la guerra e i giudici in guerra probabilmente hanno anche linee guida leggermente spostate ed umori ancor più spostati rispetto ai tempi di pace e mi chiedo come si possa uscire da questa situazione, senza ferire seriamente qualcuno. Mi è rimasta una sola cartuccia, ma i poliziotti questo non lo sanno.

Quello in abiti civili s’avvicina con passo lento, mentre l’altro resta nei pressi dell’auto, con la mano che non stacca dalla pistola, e dico al civile che la pistola è stata gettata in mare, là sotto, ed indico oltre gli scogli – in quel momento non mi viene in mente nulla di meglio. E quello ancora una volta non fa altro che annuire.

“Tutto a posto, nessun problema, ne riparliamo con calma più tardi”, dice, e mi dirigo verso di lui, mi avvicino fino a un paio di metri e mi fermo, continuando ad ignorare l’altro, quello in uniforme.

E adesso?, chiedo, e quello dice che andremo insieme alla stazione di polizia, a Senj, dove si discuterà e si vedrà come poter regolare al meglio e il più rapidamente possibile la faccenda. Annuisco con un movimento lento e dico: “Okay, andiamo!”. E il civile fa il gesto del “dopo di Lei” e gli passo davanti, in direzione della Fiat della polizia e dell’uomo in uniforme, sempre attento al fatto che quello in abiti civili si getti su qualcuno prendendolo alle spalle e tenti di gettarlo a terra, ma quello gira alla larga e so che arriveranno le manette, e tuttavia il tutto procede piuttosto velocemente.

Più tardi mi chiedo quanto tempo passerà prima di essere beccato. Non può essere che abbia picchiato due poliziotti e che li abbia ammanettati alla loro auto, senza che quelli siano tornati in sé, e propriamente: Non è davvero possibile che sia riuscita una cosa del genere!

Dall’altra parte ho provato per la prima volta il calcio all’indietro, come quando avevo otto anni, e da allora l’ho ripetuto migliaia di volte. Il trucchetto consiste nel fatto che non si voltano le spalle e neppure la testa, piuttosto si scalcia all’indietro, come i cavalli, colpendo l’avversario con il calcagno all’epigastrio – effetto garantito: chi viene colpito s’affloscia come un sacco vuoto.

Con quello in uniforme mi ci vuole un po’ più tempo prima di riuscire a gettarlo a terra, e tuttavia in lui c’è quella forza del disperato che sprona e che alla fine è sufficiente, dopo aver inferto un calcio nelle palle, per colpire energicamente col gomito sulla cervice, così che anche quello perda conoscenza; vivo un momento d’ebbrezza e provo un qualche piacere nel fare tutto questo, e quando il poliziotto in abiti civili si tira su e cerca di afferrare la pistola sono più veloce e con lo stivale lo colpisco alla testa, che così viene spinta all’indietro e trascino il corpo: l’uomo resta a terra e certo non tornerà presto in sé.

Prendo tutte e tre le pistole, quello in abiti civili ha una piccolo revolver al polpaccio, afferro anche i caricatori, infila il tutto nelle tasche del giubbotto e nella cintura dei pantaloni, trascino i corpi terribilmente pesanti verso le portiere dell’auto, le apro e  chiudo le maniglie con le manette. Perquisisco le carte e le chiavi che i due hanno con sé e prendo solo i soldi – non si può mai sapere.

Nell’auto della polizia non c’è più niente da cercare, dunque mando in frantumi la grossa radiotrasmittente, afferro il piccolo walkie-talkie del poliziotto in uniforme,  corro verso l’auto dei genitori, rompo il vetro posteriore dalla parte del passeggero, m’infilo dentro l’auto ed afferro la chiave d’accensione. Appena seduto sul sedile del guidatore metto subito messo in moto e prima di quanto previsto spingo il pedale del gas; ci vorrà un po’ prima che i due tornino in sé. Poi loro si accorgeranno di non avere più la radiotrasmittente e neppure le chiavi, né quelle per l’auto, né quelle per le manette, e poiché molto probabilmente nessuno dei due è pari ad un Houdini, passerà da mezzora a tre quarti d’ora prima che vengano dati per dispersi e a quel punto mi sarò allontanato di almeno cinquanta chilometri e sarò da qualche parte ad arrampicarmi in giro, ma poi, mio caro, ci sarà fermento: Loro si metteranno alla ricerca di un uomo, con i cani e facendo un gran baccano, prospettiva di merda. Ma fino a quando loro avranno organizzato tutto e avranno trovato l’auto, sarò letteralmente al di là delle montagne, mi starò arrampicando e starò correndo, finché non mi scoppieranno i polmoni, ma ora s’annuncia il delirio, guidare come il carnefice.

Non ho nulla da perdere, penso, navigando attraverso le curve, forse un paio di colpi all’arresto, per quanto non spari sul luogo, cosa che non sarebbe poi così male, perché le monete per il battelliere sono già pronte nel vano portaoggetti, dunque deve andare al diavolo.

Dieci minuti e milleottocento battiti del cuore più tardi l’orologio dell’auto indica le otto. Mi riprometto di abbandonare l’auto al più tardi alle nove. Prima di quell’ora dovrò trovare un luogo, una roccia dietro la quale poter nascondere l’auto e da lì salire, da lì fare come Spiderman, quando noto che non ho acqua da bere e prendo una curva da far rizzare i capelli, rabbia, odio, poi panico, no, no, lasciar perdere, nessun panico; logorerò certo qualcosa, ho sempre potuto logorare qualcosa, se così doveva essere.

E così continuo a guidare, sempre con in testa il pensiero di essere osservati, dalla propria gente o dal nemico, là, sulle montagne, loro siedono e mirano qualcuno, i propri forse con fucili di precisione, il nemico probabilmente calibri più grossi, bene o male mi dovrò abituare ai pensieri riguardanti mine, granate e pallottole e fino a questo momento ho avuto solo fortuna, una fortuna sfacciata perfino, e chissà, forse sono stati gli stessi poliziotti ad avvertire i loro colleghi. Ma non è in vista alcun bosco, neanche un albero, un cespuglio, un arbusto.

Mi sono detto nove e nove dev’essere, non un minuto più a lungo, alle nove devo scendere dalla strada, devo uscire dall’auto, nervosamente, molto nervosamente, paura della strada costiera, della gente che potrebbe spararmi. Che ci vuoi fare! Se lo prenda il diavolo: accelero, i profili corrono, curva dopo curva i pneumatici stridono, l’auto scarta, in controsterzo, nessuno, non c’è ombra di uomo, nessuno che venga incontro, né su due, né su quattro ruote, cinque minuti alle nove, segnala l’orologio digitale sul cruscotto – quanta strada si fa in cinque minuti se si viaggia a cento all’ora? – otto chilometri e rotti, questo è il calcolo approssimativo, ed è sufficiente per raggiungere una delle rientranze della strada, uno di quei punti panoramici e di quelle piazzole per pisciare di lato alla carreggiata. L’orologio affetta il tempo, che cresce, finché non tocco un paracarro, appena e con il paraurti posteriore in plastica, fatto che risulta essere un segno sufficiente per frenare, anche se solo un po’, ed il cuore martella veloce come i pistoni nel motore e batte contro i bulbi oculari e c’è del verde laggiù, più avanti, ora lo vedo, poi non più, curva a sinistra, curva a destra, non è più lontano, lì rientra, il piccolo, bianco, fedele, un piazzale ghiaioso, alberi, freni, sbandamento, breve trepidare (inchioda, dannazione!) e viene baciato l’albero, dolcemente, dal labbro di plastica, e lo spengo, il buon motore ed accarezzo grato il volante.

Il biglietto è per terra davanti al sedile del passeggero, la notizia a chi lo troverà, con il numero del proprietario, e lo sollevo per riporlo amorevolmente sul sedile, scendo, cara auto, macchina buona, il colpo di spugna ora definitivo: pulsante giù, maniglia su e la portiera sbattuta, chiusa nonostante il finestrino posteriore rotto, la chiave sotto il sedile anteriore. Pagherà l’assicurazione se è stato il figlio a graffiare la carretta? Non importa.

Uno sguardo oltre il tettuccio, verso il mare, un altro verso la montagna, poi nulla in strada e con salti scomposti sopra bastoni e pietre, un caprone, un ariete, su per la montagna.

Ho ancora un paio di sigarette, mi siedo dopo un’ora buona di arrampicata continua, di smottamenti, di imprecazioni, di colpi alle ginocchia e invocazioni di grazia con mani palpitanti e gambe tremanti. Tirare fuori l’accendino, accendere sigarette – impresa difficile, poi un tiro, ah che meraviglia, ah com’è leggera l’anima, guarda com’è bello il mare! Un momento – Mare? Isole? Strada costiera? Inseguitori…

Dov’è la sinuosa linea d’asfalto, inzuppata di gomma, sdrucciolevole, chiamata strada principale, quella grazie alla quale loro arriveranno? Mi alzo in piedi, tengo la mano sopra gli occhi, ed eccola, la strada, un tratto avanti a destra ed un altro intero tratto a sinistra, tra bianche rocce un paio di metri con la linea gialla al centro. Sorpasso vietato. Indirizzo lo sguardo alternativamente verso destra e verso sinistra, fisso i tratti di strada e si fuma e si torna lentamente a respirare. Dove se ne stanno i poliziotti? Dovrebbero essere tornati già da tempo a Senj ed essere ormai alla calcagna.

Permettono a qualcuno di camminare? No. Non può essere. L’umiliazione inflitta è troppo grande, verrà organizzato un commando speciale per uccidere il ladro, il picchiatore e il potenziale traditore, lo spione; dopo l’ultima azione nessuno dubiterà del fatto che il poliziotto, il quale la notte scorsa ha accusato uno di essere nemico della patria, avesse ragione, ora, poiché mi ribello al potere dello stato e mi sono ficcato quattro pistole e circa cento colpi nella giacca e nei pantaloni, per non dire poi della radiotrasmittente con la quale la loro frequenza…radiotrasmittente?! Non ne ho mai adoperata una, tanto meno l’ho posseduta, la guardo come un bambino di tre anni osserva una struttura Bang & Olafson, e come un bambino di tre anni comincio a premere a casaccio sui pulsanti e a girare i regolatori; scopro subito i tasti di on e off, ma come funziona il resto? C’è scritto “Threshold”, ma non ne conosco il significato, usato da centinaia di dita, girato da una parte all’altra e d’improvviso comincia a frusciare, il display digitale indica 10 – su quale frequenza comunica la polizia…?

Non va bene. Non va per niente bene. Può, deve essere rilevata! Off! Disattivarla, lasciarla cadere come un pezzo di carbone ardente e poi il tacco dello stivale e inginocchiarmi per sicurezza e con una pietra sopra, fino a che particelle nere e verdi di plastica, cavi colorati e l’antenna di gomma dimezzata sono disposti su di un mezzo metro quadrato: “Alzarmi, voltarmi e continuare a inerpicarmi!”, dico, urlo, dunque faccio tutto questo e ad un certo punto, lungo il cammino, stacco il cervello, celle e sinapsi sono disposte su miglia quadrate, arrampicata vegetativa e cammino, non affaticante e costante, campo visivo di massimo trenta gradi, passano ore, senza sete, nessun dolore, nessun affaticamento, trance.

Le pietre hanno cambiato colore, il bianco diventa arancione chiaro, il rosso chiaro diventa grigio chiaro-rosso scuro, perché, mi chiedo, è la stessa montagna, convulsioni e sinapsi si riattivano e mi dicono che il sole sta calando lentamente, potrei continuare a girarmi, busto in avanti, puntare le mani sulle cosce e sollevare la testa, ed è lì, il mare, il sole, che s’inabissa nel suo oro fluttuante, ancora un quarto d’ora e sarà buio. Anche questa non è una buona cosa.

Mi guardo intorno, pietre, rocce, appuntite ed aspre, neppure un mezzo metro di terreno pianeggiante dove ci si possa rannicchiare e superare la notte, la tua bocca, si fa vivo la mia lingua, il mio stomaco, rumoreggiano le viscere, il menisco sinistro rintraccia il mio ginocchio, cazzo, e la testa dice in maniera sorprendentemente tranquilla: Sedersi, rilassarsi, riflettere, sciogliere i muscoli, ancor prima di aver acconsentito e il sedere e il coccige sono quelli che sopportano il dolore, quelli che hanno sentito le pietre appuntite, certo di loro non si preoccupa il resto del corpo – una chiara decisione presa a maggioranza.

Dura un po’ ma ritorno in me. Ed ho un brutto aspetto – un paio di minuti e sarà buio pesto; ieri non c’era luna piena? Scruto il cielo ed è effettivamente così, ancora deboluccia, come una lampadina da mezzo watt, ma la conosco, conosco il suo sole, lui le fornirà l’energia, così la luna m’illuminerà, come del resto ha sempre fatto: Ti ringrazio, vecchia mia, grazie. Potrò proseguire senza rompermi l’osso del collo.

Il cervello riavviato produce volti, voci, oggetti e sentimenti, al posto dello stato di trance ora un sogno permanente, non capisco nulla, riconosco appena qualcosa, ciondolo nella tempesta, finché nella baraonda dei toni, dei suoni e della voci non riesco a determinarne una, ed è quella della madre, e subito appare il suo viso davanti ad un mosaico di immagini diverse, poi il volto del padre, ed entrambi sono tristi, e la voce della madre è tremolante, e sebbene non la capisca so ciò che dice e mi si stringe il cuore e mi succhia il sangue dalle vene e la scongiuro di non preoccuparsi, dico che è tutto a posto e che sono ancora vivo, e cerco perfino di spiegare dove mi trovo e perché, ma non ci riesco, perché i volti della madre e del padre scompaiono nel vortice delle immagini di sogno, mentre cerco ancora le giuste parole e lancio loro un saluto e grido nel caos che li amo, in seguito un lampo attraverso il vortice di immagini, una, due risa, i genitori, che mi hanno sentito, e so quanto mi amino – abbi cura di loro, buon Dio, penso, abbi cura dei genitori e dei fratelli, e quando penso questo loro scompaiono e mi trovo davanti ad un pendio di montagna, al crepuscolo, e cerco di ricordarmi quando questo era accaduto e dove, dev’essere stato chissà quando nell’infanzia, e mi guarda intorno e provo un dolore acuto nell’occipite e sento una voce che grida cretino, poi altre due, gridano, fai attenzione, maledetto, e sono le mani e il ginocchio sinistro (la cui voce, da quando gli mi è rovinato il menisco giocando a calcio, è un po’ più alta rispetto a quello di destra), imprecano insieme e all’improvviso il pendio di montagna è vicinissimo.

“E’ tempo di fare una pausa”, penso e ni chiedo quanto tempo ci vorrà ancora finché mi pieghi, cada, disidratato, sovraffaticato ed estenuato, e batta la testa, così da restare per sempre disteso – tranquillo, del tutto tranquillo, caro amico: guarda, quanto è lontano il mare, guarda com’è piatto il pendio sul quale tu cammini, lì, guarda, attraverso fessure di pietra crescono lì dei ciuffi d’erba, togliti dunque i guanti, toccali, sentili, sono tuoi, ancora un poco più avanti ed arrivi al muschio, e lì da qualche parte ci sarà dell’acqua e ti adagerai sotto una sorgente e berrai, fin quando vorrai, vai avanti, avanti!

“Avanti!”, il cuore gioisce nella notte lunare e pompa, pompa, pompa sangue, e sono già un pezzo in alto e neppure cento metri più avanti, perché non si va più in altro, piuttosto si scende un po’, sono è in alto, sulla cresta – un momento; dov’era all’incirca ancora il corso del fronte, cos’avevano detto i soldati quando si preparavano per la ronda notturna? – e poi, in quell’istante esatto, come se la domanda avesse premuto il bottone della guerra che scatena l’inferno, un rombare fragoroso, scudisciate, l’oscuro cielo viene perforato da saette verdi, gialle e rosse, squillante canea di artiglieria, esplosioni crepitanti, fischiare nelle orecchie che rompe i timpani, ed il corpo risponde prima dello spirito, mi getto a terra, incrocio le braccia sulla testa, ed ecco albeggiare e balbettare: “Guerra!!!!”

E io, proprio nel mezzo.

 

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