Tilman Rammstedt, Berlin (D)

Tilman Rammstedt, nato a Bielefeld nel 1975, vive a Berlino. Rammstedt è stato proposto per il concorso da Ursula März.

 

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Tilman Rammstedt

L'imperatore della Cina

(estratto da un romanzo)

Nel momento in cui mi arrivò la sua ultima cartolina, non potevo sapere che mio nonno fosse già morto. Senza averla letta, l'avevo messa da parte, così come avevo fatto con le cartoline arrivate in precedenza. Insieme con le fatture e i solleciti tra i quali stavano in agguato quasi quotidianemente, formavano sotto la scrivania una catasta sempre più pericolosa che io ricoprivo con un vecchio giornale: sebbene ciò aiutasse poco, sapevo che cosa ci fosse lì sotto.

Da quindici giorni tutto si giocava lì, sotto la scrivania. Strisciavo attorno ai quattro angoli e mi muovevo solo in tutte le zone della stanza che non fossero visibili dall'esterno, le ginocchia imbottite con spugna per lavare. Dormivo sotto la scrivania, lì mi spalmavo il pane, indicavo un cielo stellato sul il piano inferiore del tavolo e aspettavo che passassero le tre settimane, che fossi verosimilmente tornato di nuovo dalla Cina per spiegare in qualche modo ciò che c'era da spiegare, una spiegazione per mio nonno, una per Franziska, una per i miei fratelli, nel caso che fino a quel momento non mi avessero ancora scoperto. Restavano sei giorni per farmi venire in mente qualcosa, per le cartoline non c'era tempo, potevano attendere a lungo, e anche mio nonno, così credevo di sapere, poteva attendere così a lungo, poi arrivò la telefonata e tutto ciò che aveva a che fare con l'attesa divenne inutile.

Naturalmente non ero andato al telefono, da quindici giorni non c'andavo più, alla segreteria telefonica ascoltavo una donna che mi chiedeva di richiamarla, „Si tratta di suo nonno", aveva detto, e anche quando aveva aggiunto: „E' urgente", intuii che non era giusto che avessi a che fare con ciò che nel mondo è meno impellente, chiamai, mio nonno divenne un nonno morto e la sua cartolina si rivelò come la sua ultima; da me uscì qualcosa di piuttosto sconvolto e monosillabico: „Sì", dissi alla donna al telefono, aggiunsi un „No", poi un „Bene", nonostante non vi fosse nulla di buono, poichè da quel momento avevo un problema in meno, ma anche diversi di nuovi, attaccai, presi l'ultima cartolina della pila e credetti di sapere che ero triste.

Sulla parte anteriore della cartolina si vedeva la statua di un uomo grasso che in un rigoglio dorato siede su di un elefante, il retro era costellato di quelle minuscole e nodose lettere di mano di mio nonno che da sempre trovavo faticoso decifrare, e che allora, come potei verificare, s'erano deteriorate fin a giungere all'assoluta inleggibilità, neppure con una lente d'ingrandimento riuscivo a intravedere una qualche struttura ricorrente, tanto meno a circoscrivere le vocali. Prima di dare forfait avevo scoperto un „io", una „montagna" e un „domani", o forse un „desiderare", o uno „stomaco", ma non avevo ne alcuna certezza.

Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

Solo l'ultima frase era scritta chiaramente, in un formato più grosso rispetto al resto e, proprio come l'indirizzo, in stampatello, ed era stata calcata a tal punto la mano che le lettere si potevano leggere, rovesciate, sugli elefanti della parte retrostante. „Saresti dovuto venire", c'era scritto, e mio nonno vi aveva messo anche un punto esclamativo cuneiforme utile a convincermi definitivamente del fatto che non si trattava di un fioretto e neppure dell'espressione di un rimpianto, piuttosto di una delusione bell'e buona, di un rimprovero, di una minaccia, e poichè quella era la sua ultima cartolina, incombeva in particolare, come se egli non sarebbe morto nel caso fossi andato, come se egli non si sarebbe accasciato di colpo in quel paesucolo abbandonato da Dio, del quale non avevo mai saputo dove si trovasse esattamente, se non che era in Cina, o, nel migliore dei casi, neppure sarebbe morto, se fossi andato, si sarebbe dovuto aggrappare a me solo per poco, „Non è nulla, sono solo un po' stordito", avrebbe detto, perchè a me non sarebbe venuto in mente altro, perchè non sarebbe stato necessario nient'altro, „Riparti pure", avrebbe detto mio nonno dopo un paio di minuti ritirando fuori il suo pettine, perchè la pettinatura era il suo problema più grande.

„Saresti dovuto venire", quella frase mi faceva arrabbiare, sentivo come lui la pronunciava, come sottolineava quel „saresti", come le sue sopracciglia si inarcavano verso il basso, come successivamente mi osservava, come se aspettasse una risposta, ovviamente la giusta risposta: sì, è vero, nonnno, sarei dovuto venire, è stato un errore, hai avuto ragione ancora una volta. Mio nonno amava avere ragione, mio nonno sapeva presumibilmente tutto già in anticipo, avresti dovuto portare un ombrello, avresti dovuto guardare la cartina della città, avresti dovuto imparare più lingue straniere, avresti dovuto lavare separatamente il pullover, avresti dovuto ordinare la bistecca. Mio nonno si sentiva costantemente offeso quando finiva con l'essere inascoltato, ma non lo si poteva ascoltare mai, perchè i suoi consigli rappresentavano sempre il senno di poi, secondo il quale si sarebbe dovuto agire in maniera diversa, ma nessuno gli domandava consiglio, così, alla fine, se ne usciva con un „vedi, ora sei tutto bagnato", oppure, „vedi, ora ci siamo persi", „vedi, ora sono morto."

Certo, sarei dovuto andare, eppure non ero andato, nè in Cina, e neppure nel paesucolo abbandonato da Dio e lo sapevo, sembrava come se l'avessi piantato in asso, sapevo che dovevo anche a lui un qualche chiarimento, ma ora non era più necessario e con tutta la buona volontà non sapevo se fosse opportuno che a questo proposito mi sentissi sollevato.

Era facile riconoscere che anche l'ultima cartolina non era arrivata dalla Cina. Era affrancata con una francobollo tedesco, e la foto del grasso uomo dorato era stata strappata da un qualche opuscolo di viaggi ed era stata incollata alla meglio su di una di quelle cartoline che vengono regalate, un angolo s'era già staccato e da sotto sbucava un orso bianco. Quasi tutte le cartoline che mio nonno mi aveva scritto nelle ultime settimane erano fatte a quel modo, ma talvolta era anche peggio, di alcune si mostrava l'originale e dello stampato „Tanti saluti dal Westerland" era stata barrato „dal Westerland" per poterlo sostituire con un autografo „da Shangai". Certo mi sorprendeva poco il fatto che mio nonno alla fine non avesse raggiunto la Cina, 8000 chilometri, per farli l'auto era semplicemente troppo vecchia, anche mio nonno era semplicemente troppo vecchio per riuscirci, e tentai di convencermi che lui non aveva mai avuto davvero l'intenzione, che non aveva voluto confessarlo, che lui aveva solo avuto bisogno di qualcuno cui dimostrarlo. Se si conserava la questione in questo modo, lui doveva essermi perfino riconoscente.

Cina, proprio la Cina, come se non esistesse il Mare del Nord, come se non esistesse lo Harz, Ruegen, la Francia, il lago di Garda, doveva essere la Cina, la Cina e null'altro. „Su questo non voglio discutere", ha detto mio nonno, ed io ho detto, che bella combinazione, perchè neppure voglio discuterne, la Cina non si discute, ho incrociato le braccia, altrettanto ha fatto mio nonno, sebbene gli fosse rimasto solo un braccio, quello destro, ma lui poteva avvolgerlo così abilmente attorno alla manica sinistra della camicia che sembrava come se si trattasse di due intatte braccia incrociate, poi ci siamo osservati a lungo, mio nonno con lo sguardo il più possibile risoluto ed io il più possibile irrisorio, per mostrargli che l'idea Cina era assolutamente ridicola, infine mio nonno disse: „Muoio".

Non bisogna sopravvalutare un'espressione del genere, neppure col senno di poi, neppure ora, perchè ha avuto ancora una volta ragione. „Tu non morirai", dissi dunque, sebbene quella fosse in ogni caso, ovviamente, una menzogna, eppure semplicemente non volevo concederlo come argomento, non volevo fare la parte di quello che rifiuta l'ultimo desiderio, volevo rimanere oggettivo, perchè ero oggettivamente nel giusto e raggiungere la Cina era assolutamente impossibile, ma di fronte ad uno prossimo alla morte conta poco l'essere nel giusto, questo mio nonno lo sapeva e per questo, anche per motivi di sicurezza, aveva iniziato presto a fare i conti con il morire. Mio nonno morì, cioè, già dal momento in cui lo conobbi, probabilmente perfino prima, e ha smesso di farlo solo poco prima della sua morte. In uno dei primi ricordi che ho di lui mi guarda serio e dice: „Presto non sarò più qui", mostrando poi tutti i possibili oggetti che dovrei ereditare dopo il suo decesso, il quadro ad olio con i due cavalli al galoppo, il tagliacarte a forma di pugnale, il posacenere girevole, tutto ciò che allora si poteva ammirare. Anni dopo scoprii che lui aveva promesso gli stessi oggetti anche ai miei fratelli, con lo stesso ammiccamento cospiratore, con lo stesso. „Questo però resta il nostro piccolo mistero". Non l'ho più costretto a tornare su quel discorso, perchè da un lato il quadro e il tagliacarte avevano perduto da tempo il loro fascino, dall'altro era già diventata un'abitudine rispondere agli annunci di morte di mio nonno solo con un cenno d'assenso. Nessuno più in famiglia lo contraddiceva, nessuno diceva: „Vivrai di sicuro cent'anni", perchè sembrava sempre più verosimile la possibilità che davvero sarebbe arrivato a quell'età. Ad ogni visita medica, sempre preceduta da lunghi rituali di commiato, veniva riconfermata la quasi inquietante tempra di mio nonno. Fino a tre anni fa aveva ancora tutti i denti, fino a due anni fa ha avuto necessità di occhiali solo per leggere, tanto più che per vanità non li metteva quasi mai, nonostante le tante sigarette prima e le tante gomme alla nicotina poi, i polmoni e il cuore svolgevano ancora il loro compito in maniera esemplare e certo nessuno si sarebbe sorpreso se prima o poi gli fosse riscresciuto il braccio sinistro.

Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

Eppure ad un certo punto il suo corpo si accorse che quello stato da tempo non corrispondeva più alla sua età e in pochi mesi recuperò ciò che aveva perduto in precedenza. Muscoli afflosciati, arterie otturate, articolazioni rigonfie, orecchie ingigantitesi. Da quel momento, al ritorno da ogni visita medica portava con sè nuove medicine; se prima durante i pasti accanto al suo bicchiere c'era solo una mezza pasticca, pian piano la sfilza delle medicine andò occupando l'intera superficie del suo piatto. „Ah sì, il mio dessert", diceva prima di raccattarle solitario dalla tovaglia con dita sempre tremolanti, infine, con la bocca contratta per il disgusto, le inghiottiva. Mio nonno faceva sempre attenzione al fatto che noi vi assistessimo, che noi capissimo ciò che lui sopportava. Probabilmente in maniera intenzionale, talvolta lasciava cadere una capsula, „Lascia", diceva, se qualcuno di noi si metteva a cercarla sotto il tavolo, ma lui non faceva alcun gesto per andarsela a prendere e infine afferrava la pasticca ritrovata senza una parola di ringraziamento.

E fu proprio la tramontante salute di mio nonno ad offrire l'occasione per regalargli un viaggio. „Chissà fino a quando sarà in grado affrontare un viaggio", aveva detto il mio fratello maggiore e non ci venne in mente nulla di meglio di una settimana dopo la Pentecoste, si potevano prendere un paio di giorni di ferie, insieme avremmo in qualche modo resistito, ma poi mia sorella più grande disse di aver da fare qualcosa con suo figlio piccolo, il secondogenito si ricordò di dover fare qualcosa di pressante, e poichè non si sarebbe trattato di un viaggio con i nipoti al completo, la mia sorella più piccola propose di tirare a sorte: „Non dobbiamo lasciare che ammuffiscano tutti i nostri giorni di festa", disse, e il mio fiammifero alla fine risultò il più corto, su questo non ci fu dubbio alcuno, e gli altri due non si diedero neppure pena di celare il loro sollievo, la sorella più giovane serrò per un po' il pugno e il fratello più grande mi diede una pacca un po' troppo forte sulla schiena, „Su con la vita", disse, e voleva dirlo con tono consolatorio, ma suonò piuttosto come un ordine. Chiesi loro se pensavano fosse davvero una buona idea che fossi proprio io a partire con il nonno, ma loro confermarono, „Forse è la cosa migliore", si pronunciarono all'unanimità, „così alla fine riavrete tempo l'uno per l'altro", ed era proprio questo ciò che più temevo.

Fu impossibile capire se mio nonno fosse contento di quel regalo. Studiò il voucher restando inespressivo e infine continuò a mangiare il suo dolce. „Keith farà il viaggio con te", spiegò il mio fratello secondogenito, ancora una volta alzando troppo la voce e un po' troppo festante, come gli succedeva ultimamente ogni qualvolta si rivolgeva a nostro nonno. "Saremmo partiti con te volentieri tutti, ma capisci...", e mio nonno naturalmente non sapeva cosa fare, con la lingua percorreva ininterrottamente tutti i denti e, incapace di comprendere, guardava mio fratello secondogenito. "Un viaggio per dove?|", domandò alla fine. "Dove da sempre saresti voluto andare", rispose mia sorella minore, e non avrebbe potuto dirlo meglio. Poiché la mattina dopo, ancora in pigiama, mio nonno disse: "Cina", e lo ripetè nel pomeriggio, poi ancora la sera e quando gli mostrai dei cataloghi di viaggio, su Praga, Corfù, la regione di Mazury, neppure li guardò, "Cina", disse, "Un regalo è un regalo", aggiungendo che non avrebbe voluto più discuterne. Infine incrociò il braccio e venne tirata in ballo la morte.

 Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

"Anche se tu non dovessi morire", dissi, "sarebbe un motivo in più per non andare in Cina. La Cina è lontana, la Cina è impegnativa, in Cina non c'è medico che ti possa capire", e mio nonno sorrise, fu uno di quei sorrisi tristi che nessuno è in grado di rifare tanto rapidamente, e disse piano che alla fine preferirebbe non partire, mi augurò buon divertimento a Corfù e fece come se dovesse sprofondare di nuovo nel suo libro, rimasi fermo di fronte a lui più di quanto volessi, lo osservai portare continuamente l'indice della mano alla lingua, prima di quel suo incredibilmente frequente voltar pagina, "Come vuoi", dissi, per abbandonare rapidamente la stanza, la casa, e, se mai mi fosse riuscito, di allontanarmi.

"Allora, dove ve ne andrete?", mi chiesa Franziska, dopo che l'avevo persuasa a rifarsi viva.

"In ogni caso non in Cina", risposi.

"Certo c'è anche dell'altro" disse lei e non si fermò a dormire.

Erano già sei settimane che Franziska non dormiva da noi. „Devo andare", diceva sempre troppo presto, guardava il suo cellulare per verificare l'ora e cercava nella sua borsa la chiave della macchina: "Guida con attenzione", dicevo al momento del commiato, senza volerlo davvero, e lei rideva, stanca, chiudevo piano la porta di casa e solo dopo che il rumore del motore era così lontano da non sentirsi più.

Mio nonno, ovvio, non era mai stato in Cina, praticamente non era stato da nessuna parte, era evidente, non aveva mai lasciato l'Europa, non aveva mai lasciato la Germania, solo una volta giunse in prossimità del confine danese, e un'altra volta, considerando la cosa con benevolenza, vicino a quello olandese.

"E perché adesso proprio la Cina?" gli chiesi il giorno dopo al telefono. Dalle otto mi stava chiamando quasi senza sosta: avrei dovuto prolungare la validità del passaporto, avevo bisogno di scarpe belle rigide, mi chiese se avevo fatto il vaccino contro la malaria. "Mio Dio, ma se tu non sei stato neppure una volta in Austria", gridai, mio nonno non rispose, rimase a lungo in silenzio, finchè non chiesi: „Ci sei ancora?"

"Sì, disse, "Non voglio andare in Austria", disse, "Non ho più tempo per l'Austria", ed a quel punto fui io a tacere, perché, pensandoci bene, neppure io volevo andare in Austria, in ogni caso non con mio nonno, pensandoci ancor meglio, con mio nonno non volevo andare proprio da nessuna parte, su nessuna montagna, nessuna spiaggia, nessun deserto, nessun museo, nessuna stazione termale, non volevo stare con lui per un tempo inutilmente lungo a sfogliare i menù bilingue, non volevo stare con lui in silenzio presso qualche belvedere, e neppure starcene di sera sorridenti di fronte a un bicchiere di vino a considerare che si è troppo stanchi per il tanto camminare per concederci l'opportunità di stare per un po' di tempo insieme, e forse la Cina, a pensarci ancor più precisamente, era davvero l'unica proposta ragionevole, perché lì, con tutta probabilità, aiutano poco perfino i listini dei menù bilingue, perché lì, con tutta probabilità, di sera col vino di riso si è davvero esausti, perché lì non è così male non comprendersi, poiché non si capisce neppure tutto il resto e con tutta probabilità lì c'è troppo di tutto, e piuttosto manca il tempo l'uno per l'altro, e alla fine, nel migliore dei casi, non si saprebbe neppure più per quale motivo si avrebbe avuto bisogno di quel tempo, tutto il non detto tra di noi si sarebbe riempito di Cina, e di colpo mi tornò alla mente quando da bambino per un paio di giorni credetti che mio nonno fosse un cinese.

Deve aver litigato con una delle mie nonne, con la seconda o con la terza, in ogni caso ad alta voce, ad un certo punto lui gridò: "Ed io sono l'imperatore della Cina". La carica che si era dato m'impressionò allora meno del paese, e mi misi a raccontarlo ovunque, ma non tutti mi credevano. Mi veniva chiesto perché io non avessi l'aspetto di un cinese e io rispondevo; "Deve ancora arrivare", sebbene non avessi idea di come fossero i cinesi. Tutti uguali, si diceva, ed io mi immaginavo un paese dove pullulava mio nonno, nel quale in ogni auto sedeva mio nonno, nel quale di mattina da ogni abitazione cinese usciva mio nonno salutando mio nonno ed accompagnava a scuola i suoi figli, cinque miei nonni molto piccoli. Due giorni più tardi sarebbe emersa la verità: "Tu non sei un cinese", dissi a mio nonno, "Come vuoi", disse lui.

Allora mi piacque l'idea di un paese pieno di nonni, eppure al telefono mi sembrò terribile, uno solo mi bastava, uno solo era per me anche troppo, e questo era il punto, non la scelta tra Cina, Corfù o Austria.

"Sei ancora lì?, chiese lui, ed io dissi: „Sì, sono ancora qui", poi riagganciai.

Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

Non so esattamente con quanti dei miei fratellastri sono davvero imparentato. Si può tuttavia supporre che con la maggior parte di loro abbia in comune almeno un genitore. Di sicuro posso ricordarmi della nascita della mia sorella più piccola, avevo allora cinque anni e visitammo tutti insieme la mamma all'ospedale. "Siete voi", disse lei con la voce ancora debole, più avanti sarebbe stato chiaro che lei dovette riflettere molto sul nome con cui chiamare il secondogenito e si mise ad osservare esitante le mie sorelle più grandi, come se non fosse del tutto certa di averle mai viste prima.

Io posso dunque solo presumere che quella donna all'ospedale fosse la mia madre carnale e oltre a quest'elemento carnale a quel tempo non avevamo molto a che fare l'uno con l'altra. Già dalla prima infanzia vissi con mio nonno, a proposito del quale posso ugualemente solo presumere che si tratti del mio nonno carnale. C'è una certa somiglianza tra lui e mia madre, il mento, le dita corte, questo doveva bastare, qualsiasi altra domanda lui la evitava con perseveranza. Quando a casa sua trovai una foto con lui da giovane insieme a una bambina sulle spalle, gli chiesi se quella era mia madre. Prese la foto, la guardò con occhi serrati, poi me la ridiede dicendo: "Probabilmente".

Mio nonno reputava molte cose come probabili: che ci fosse ancora del latte, che sarebbero arrivate le ferie estive, che l'acqua in Australia fluisse alla rovescia; di nulla si può essere del tutto certi, questo era l'insegnamento che ci trasmetteva volentieri, e se uno di noi, saputo, lo contraddiceva dicendo: "Eccetto il fatto che si muoia". Allora mio nonno rispondeva: "Questo è davvero molto probabile".

Ma su quel tema lui sembrava fiutare una piccola chance di scorta e negli ultimi anni, da quando il suo corpo recuperò il corrispondente declino, s'appigliò a quella piccola chance di scorta con una tenacia che altrimenti in lui non si sarebbe supposta. L'ambizione di non morire divenne col tempo un'ossessione bell'e buona. Più volte nel corso di un mese lo si doveva accompagnare al cimitero, dove lui passava in rassegna a piedi una tomba dopo l'altra, dicendo trionfalmente "Più giovane", "Molto più giovane", "Quasi della stessa età" e se qualcuno si era azzardato a morire solo in età matura, lui annotava la data precisa, che poi avrebbe trascritto nella lista che si trovava sulla sua scrivania. 72 anni, 112 giorni, 79 anni, 6 giorni, 83 anni 299 giorni, ed ogni volta, quando aveva di nuovo superato uno della lista, quando poteva di nuovo cancellare un nome, ci convocava. "Auguri, nonno", dicevamo allora in coro e lui faceva un cenno: "Grazie, ma ancora non abbiamo ottenuto nulla".

Il suo desiderio tardo di sopravvivere a tutti prese col tempo forme inquietanti. La morte non era solo il suo avversario, piuttosto divenne sempre più il suo aiutante, a colazione leggeva con piacere gli annunci mortuari sul giornale, seguiva speranzoso con lo sguardo ogni ambulanza che passava, sviluppò una sospetta preferenza per i film che avevano per tema le catastrofi e solo all'ultimo momento, un pomeriggio, potemmo evitare che sotterrasse la testuggine di mia sorella più piccola, "Era clinicamente morta, davvero", affermò, sebbene quella, all'interno della fossa che non arrivava all'altezza della caviglia, dibattesse visibilmente le zampine.

Negli ultimi anni ci furono momenti nei quali ci preoccupammo sul serio per la nostra sicurezza. Se uno di noi tossiva si sentiva subito mio nonno dire: "Questa non è una buona cosa", e non era preoccupazione quella che risuonava nella sua voce. Non sono del tutto certo che tutto questo me lo sono semplicemente sognato, ma i casi aumentarono. A mio fratello più grande lui versava costantemente vino, anche se quello gli aveva più volte ripetuto di dover ancora guidare, mia sorella più grande raccontò di vistose graffiature sul filo del suo fohn e quando io, alcuni mesi prima, dopo aver fatto spesa, portai una cassa di bottiglie d'acqua in cantina, mio nonno spense la luce quando ancora mi trovavo a metà della ripida scala. "Scusa", disse, come se mi lamentassi con sollecitudine, e tuttavia non riaccese la luce.

All'incirca in quello stesso periodo mio nonno iniziò ad accusare me, insieme ai miei fratelli e ai fratellastri, di insidiare la sua vita. Qualcosa continuava evidentemente a non andare nella cura che stava seguendo, con costanza veniva messo presumibilmente del burro nel suo cibo, sebbene si dovesse fare attenzione al livello del suo colesterolo, qualcuno si mise ad aprirgli costantemente la finestra così che lui potesse decidere di togliersi la vita. "Ma non con me, miei cari", disse lui, "Non con me".

Certo mio nonno sapeva che verosimilmente lui non era immortale e che probabilmente, nonostante tutti i tentativi e le precauzioni, non sarebbe mai potuto diventarlo. Sospetto che lui sperasse assiduamente che la morte si sarebbe dimenticata di lui non appena avesse superato una certa età. Così come si spera che la società telefonica si dimentichi di noi dopo che sono stati ignorati tutti i solleciti e tuttavia si scopre che la linea c'è ancora, perché nessuno sa che l'allaccio esiste ancora.

 Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

E in effetti, è difficile immaginare che lui ora sia davvero morto, che lui abbia portato a compimento la propria vita, perché lui non portava fino in fondo mai nulla. Prima, quando c'erano ancora le nonne, alcune in età adeguata, alcune di pochi anni più grandi di noi, una dopo l'altra, usando parole quasi identiche, lo avevano continuamente esortato per i santi nomi di Dio a portare finalmente a compimento qualcosa, la dichiarazione dei redditi, il pergolato, che da anni era involontariamente di due colori, il puzzle sul tavolo del soggiorno, che a noi non veniva neppure più in mente.

Mio nonno annuiva sempre giudiziosamente, sistemava un paio di ricevute, oppure incastrava un paio di pezzi del puzzle, ma poi si cercava subito qualcos'altro da fare, la calcificata macchina del caffè, l'ingarbugliato filo del telefono, la cartoline d'auguri per compleanni ancora lontani da venire, qualsiasi cosa in cui lui potesse affermare esservi un'urgenza maggiore.

E siccome mio nonno, ovviamente, non portò a termine nessuna di quelle nuove attività e come scusa doveva cercarsene delle altre, l'intera casa, l'intera sua vita consisteva di inizi, ovunque ci s'imbatteva su libri aperti, panini iniziati, scarpe singole, si ascoltavano storie che s'interrompevano a metà di una frase, se non di una parola, sulla nostra cassetta delle lettere continuavano ad esserci i nomi di quasi tutte le nonne passate e talvolta, quando lui diceva che sarebbe andato a dormire lo si trovava mezz'ora dopo in piedi nel corridoio. "Sto andando", diceva allora lui, con fare spiccio.

Gli dissi che sarebbe stato semplicemente e pateticamente folle voler arrivare con l'auto fino in Cina, ma mio nonno non ne voleva sapere, lui non era arrivato a ottan'anni per schiantarsi con un'inutile giubbotto salvagente addosso chissà dove in Siveria. L'auto, sosteneva, è stato ormai provato essere il mezzo di trasporto più sicuro e in fin dei conti la strada da fare non era poi così tanta. "8000 chilometri", dissi, "In linea d'aria". "Vedi?", disse mio nonno e da quel momento sarebbe stato meglio non contraddirlo più.

Negli ultimi anni i suoi occhi tremolavano sempre più dal panico quando intuiva che in qualche modo non aveva ragione e sempre più rapidamente il suo sguardo assumeva qualcosa che lo rendeva freddo e irrigidito, al punto che nessuno di noi osava guardarlo dritto negli occhi. Lui non è mai diventato davvero violento, solo di rado andarono in frantumi alcuni piatti, e solo per evitare il peggio, avvolgeva subito il suo braccio sinistro attorno alla manica destra e noi abbandonavamo il prima possibile la stanza.

Per lo più i "capicci del nonno", così li chiamavamo per abbonirlo, erano seguiti da lunghi periodi di silenzio, di rigidità, di assenza di movimenti. Afflosciatosi, lui si sedeva in poltrona e rispondeva alle nostre caute domande al più con un "hm" che in relazione al livello del tono si poteva interpretare come un rifiuto, oppure come un consenso. In quei giorni, durante i pasti comuni se ne stava da parte, e ciò che poteva passare come rimorso doveva servire anzitutto a muovere la nostra compassione. "Ma tu devi mangiare qualcosa" dicevamo mostrandoci premurosi e muovendoci con cura, sebbene ciò fosse esaurientemente segno del fatto che, non appena fossimo fuori dalla sua visuale, lui iniziava a tagliare il pane o addirittura prendeva i nostri resti.

Mio nonno non cucinava mai, ma se c'erano ospiti e questi esprimvano lodi per il cibo, lui era il primo a dire "Grazie", facendo la qual cosa, così rispondeva successivamente quando gli si chiedeva perché l'avesse fatto, voleva parlare a nome di tutti. A parte questo, in presenza di altri uomini, mio nonno era come se si trasformasse: parlava sempre molto, ma con voce più bassa del solito, e questo dipendeva anche dal tema di cui si discuteva, faceva domande e attendeva le risposte, rideva schietto, anche delle barzellette di altri, non si informava in maniera ipocrita se "non mangi più questo?", per poi allungarsi con la forchetta sul tavolo fino a prendere il cibo dai nostri piatti. Si finiva per trovarlo perfino buono e tremendamente charmant, come minimo, quando come ospiti avevamo giovani donne, soprattutto se si trattava di giovani donne che avevo invitato io.

Dovetti sentir dire piuttosto spesso che mio nonno era un uomo squisito, che era divertente perfino, che era rimasto giovane, premuroso e gentleman, perfino sexy. Quando quelle ritornavano, mio nonno iniziava a profumare di acqua di colonia già dal pomeriggio, si cambiava più volte la camicia, talvolta si premurava perfino di preparare piccoli regali, presentandosi con una pietra, un libro, in particolare, se possibile, con una spilla.

Quanto più frequentemente le giovani donne venivano a farci visita, tanto minori opportunità aveva mio nonno di ridicolizzarmi di fronte a loro; aveva iniziato con innocenti storie d'infanzia, aveva proseguito con foto sconvenienti, fino ad arrivare a storie bizzarre, per esempio che di tanto in tanto continuo a farla nel letto, o che da bambino avrei messo piuttosto spesso i vestiti di mia sorella maggiore. Poteva succedere perfino che in occasione di appuntamenti romantici, al cinema o in un bar mio nonno si sedesse all'improvviso accanto a noi, la qual cosa doveva sembrare casuale, mentre in realtà era spiegabile solo col fatto che lui aveva spiato le mie telefonate, oppure mi aveva seguito di nascosto. Le mie manovre di sviamento dovettero diventare sempre più elaborate, al telefono iniziai a bisbigliare in maniera sempre più assurda, in occasione di appuntamenti romantici dovevo guardarmi attorno in forma sempre più frenetica, al punto che spesso finirono per essere incontri di commiato.

Nulla di strano dunque, che a un certo punto abbia smesso di portare a casa giovani amiche, che addirittura celassi le relazioni più intime con loro; tuttavia questo spinse mio nonno a credere che soffrissi di solitudine e a volere costantemente che tentassimo qualcosa insieme. "Oggi usciamo, tu ed io, come una volta", decise lui e dovevo designare un locale, un "un locale che facesse da scena", come specificò lui stesso, e per dispetto lo portai ogni volta alla "Pete's Metal-Eck", dove lui, visibilmente intimorito, si bevevo una mezza birra in bottiglia e ad ogni sorso osservava l'etichetta. "Sono stanco", urlavo io a un certo punto per pietà verso la musica, e lui finiva con l'annuire sollevato.

Sulla strada di casa era però molto allegro. Com'è bello, noi due insieme per una sera, diceva, "Sì, nonno", finalmente si arrivava al tema, "Dipende, nonno", avrei dovuto portare di nuovo a casa una delle mia amiche, "Ma non c'è nessuna ragazza, nonno", avrei potuto chiedergli consiglio su questioni di quel tipo, "Grazie, nonno", a proposito di donne avevamo gli stessi gusti, "Questo è davvero possibile, nonno". Allora non potevamo immaginare quanto quello fosse davvero possibile. Appena tre anni dopo Franziska divenne mia nonna e solo un anno e mezzo dopo divenne mia moglie, e non ho mai detto a mio nonno che sei settimane fa è diventata di qualcuno che deve andarsene sempre troppo presto, perché avrebbe potuto forse occultare la sua soddisfazione, ma probabilmente non la sua partecipazione.

Anche il timbro dell'ultima cartolina ricevuta da mio nonno non era leggibile. Un ufficio postale che certo non mi avrebbe detto nulla, una data, il 18 o il 19, ma anche questo non aveva più importanza, di certo in quel momento era ancora vivo, mentre ora non viveva più, e quasi altrettanto certamente non avrebbe potuto sapere, o almeno nulla lo testimoniava, che su quella cartolina veniva comunicato qualcosa di più decisivo rispetto alle tante che l'avevano preceduta. Ancora queste cartoline. Già allora, quando ancora vivevo a casa, le gettava senza affrancatura nella nostra cassetta per le lettere, fino a portarmele al tavolo della colazione con un trionfante "Posta per te, Keith". Dopo il mio trasloco nel padiglione, il loro numero crebbe, talvolta ripetutamente durante la settimana mi attendevano, spedite regolarmente per posta, sebbene ovviamente sarebbe stato più semplice portarmele direttamente, ma ci eravamo accordati tacitamente che i pochi metri in linea d'aria che ci separavano doveva essere considerata una distanza solenne.

Ma non furono solo le cartoline a fruttarmi tra fratelli e fratellastri l'ambiguo titolo di "giovane d'oro". Mi prendevano in giro come "cocco del nonno", come "erede" e "prediletto". A me stesso quel favoritismo che durava da anni era diventato per lo più sgradevole. In precedenza, da noi aveva dominato una specie di giustizia dottrinaria, la cui ottemperanza esigeva talmente tante tabelle, pagamenti di compensazione, così tanti nastri metrici, bilance e cronometri che è non tuttora chiaro se mio nonno alla fine ci chiamò a sé per rassegnazione, oppure per una di quelle "riunioni di famiglia" che allora si tenevano ancora regolarmente, durante la quale ci spiegò che la sua energia non era più sufficiente per potersi dedicare a tutti allo stesso modo, e dunque aveva deciso di occuparsi principalmente di me e in conclusione di non essere d'accordo con quella media confusionaria. "Ma questo non significa che non vi ami tutti", sottolineò e, obbligati, giurammo di credergli.

Ogni fine settimana, da quel momento, mi portava a fare una gita, allo zoo, al museo delle scienze naturali, ad ascoltare concerti di pianoforte infinitamente splendidi e a cena raccontava dettagliatamente le nostre esperienze, mentre io, rifuggendo con cura gli sguardi di fratelli e fratellastri, silenzioso guardavo fisso il mio piatto.

Vennero poi le passeggiate, "Tu sei qualcosa di molto speciale", "Tu diventerai qualcuno", "Non mi deluderai, Keith, ne sono sicuro". Quando all'età di otto anni volevo diventare un astronauta, mi regalò un telescopio, quando a dieci anni volevo diventare agente segreto, mi fece prendere lezioni di arti marziali e realizzò insieme a me, nella camera dei miei fratelli e fratellastri, un'apparecchiatura d'intercettazione accuratamente nascosta, quando a tredici anni volevo diventare una star del cinema, mi trascinò da casting a casting, in una serie televisiva da tempo in onda correvo con altri ragazzini lungo una via, quella fu l'unica mia comparsa. "Tu corri meglio di tutti, non si discute", disse mio nonno, ma in quel momento per me non era già più così importante.

A partire dal mio quattordicesimo anno non volevo diventare più nulla e mio nonno si mise a scegliere le mie passioni al mio posto. Architettura, arte pirotecnica, "qualcosa che abbia a che fare con il computer", i libri non letti continuano a riempire metri di scaffalatura, "Tu hai molti interessi", decise mio nonno, e io non lo contraddissi.

Di tutte quelle cure particolari le cartoline rimasero le più sgradevoli, soprattutto negli ultimi anni, quando mio nonno aveva buoni motivi per non spedirmene più, quando ci parlavamo ormai solo durante le passeggiate, quando sempre più di frequente sentivo riagganciare all'altro apparecchio, quando Franziska riattaccava.

Tilman Rammsted (Foto ORF/Johannes Puch)

Talvolta lo ringraziavo per le cartoline, eppure non gliene ho mai spedite, tentavo di continuo, di continuo scrivevo "Caro nonno", qualche volta "Grazie per la tua cartolina", ma poi mi bloccavo, mai che mi uscisse un frase con cui continuare, nulla sembrava valer la pena d'essere comunicato e le cartoline iniziate s'ammucchiavano nel mio cassetto, molte con l'indirizzo, alcune già con francobolli non più validi. Non so perché non imbucai le cartoline, forse perché lo ritenevo uno spreco, alla fine erano quasi inutilizzate, forse non volevo confessare a me stesso il fallimento: in tutti quegli anni non mi era riuscito neppure una volta di indirizzargli un paio di frasi, seppur di nessuna entità; mi persuadevo che lo spazio che si ha a disposizione su una cartolina semplicemente non era sufficiente per ciò che credevo di volergli dire, sebbene non sapessi esattamente che cosa fosse e di quanto spazio avrei avuto bisogno.

E quando probabilmente non sarebbe bastato tutto lo spazio di questo mondo, perché oltre al francobollo neppure l'indirizzo avrebbe avuto più alcuna validità, tirai fuori dal cassetto una delle cartoline che avevo iniziato a scrivere.

Caro nonno.

era già lì, con un carattere molto più grosso, con la speranza di poter riempire già con l'allocuzione una buona parte di quello spazio troppo stretto, e tuttavia era stato di poco aiuto, poiché erano rimasti vuoti i quattro quinti della cartolina. Di colpo non volevo più tollerare quella condizione di vuoto, di colpo mi sembrò essere più di un fallimento, perché forse lo spazio era stato sempre abbastanza, forse era stato addirittura troppo, forse non c'era davvero nulla più da dire, se non "Caro nonno", forse perfino lo stesso "Caro" sarebbe stato eccessivo, e forse avrei dovuto spedire tutte le cartoline in quel modo, così com'erano, perché così avrebbero corrisposto alle circostanze, ma in quel momento avevo a che fare con altre circostanze, con circostanze compiute, abbracciabili con lo sguardo, presi infine una penna e scrissi sotto l'allocuzione

tu sei morto

La mia grafia, negli anni, tra le due righe, non era cambiata, allora avevo usato una penna nera, in quel momento ne usai una blu, altre differenze non erano visibili. Scrissi ancora

Cari saluti

Tuo nipote

Keith

e ancora mi restava quasi la metà dello spazio a disposizione. A lungo fissai le nove nuove parole, non sarebbero aumentate. Presi un paio di forbici, tagliai la cartolina appena sotto il mio nome, infine la imbucai.


Tradotto da Vito Punzi
 

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