Clemens J. Setz, Graz (A)

Clemens J. Setz, nato nel 1982 a Graz, dove tuttora risiede e sta frequentando. Setz è stato proposto per il concorso da Daniela Strigl.

 

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Clemens J. Setz

La bilancia

La luce della tromba della scala si spense e Daniel si ritrovò in piena oscurità di fronte alla porta di un appartamento del quarto piano. La musica che incombeva dall'appartamento risuonava dura e immutabile nel corridoio nudo e senza finestre. Daniel riaccese la luce; dovette allungarsi parecchio per raggiungere l'interruttore. La targa sulla quale Daniel si era soffermato per ultimo riapparve e c'era scritto, come prima: Gerd & Elfriede Kaiser. Daniel si fermò un po' lì di fronte e sentì come la musica avesse raggiunto un ulteriore apice epilettico - infine si girò, scese le scale e tornò nell'appartamento.

Allora?

Gliel'ho detto, disse Daniel.

Si chinò e si tolse le scarpe. Sua moglie andò subito in camera da letto.

Non hanno abbassato, gridò da lì.

Come?

Daniel si tolse il vestito che s'era messo sopra il pigiama.

Rita tornò dalla camera da letto.

Neppure la minima differenza, disse lei.

Più di quello che ho detto loro non posso.

E cos'hai detto esattamente?

Che devono abbassare la musica, rispose lui. Perchè qui vive gente che vorrebbe dormire.

Allora?

Allora l'uomo che ha aperto ha annuito e ha richiuso la porta. Ma non l'ha fatto scortesemente. Quantomeno non mi è sembrato volesse mandarmi a fare in culo o ignorarmi o...forse vuole solo ascoltare quella canzone fino in fondo.

Ma è l'una e mezzo?

Sì, lo so.

Tanto più che non ascolta canzoni, disse lei, è piuttosto un'infnita merda techno.

A noi qui sotto sembra essere solo questo, disse Daniel.

Si chiese se fosse diventato rosso. Sentiva la sua faccia bollente. Cercò di non guardare verso Rita.

Sai, disse lei, a quello lassù non gliene frega niente di quello che gli hai detto!

Può essere. Ho fatto quello che potevo, disse lui e si avvicino a Rita, nel bagno.

Lui si lavò le mani e si gettò un po' d'acqua fredda sulle guance.

Più tardi tornò a pensare alla targa sulla porta e ai nomi che vi erano scritti, anche quando si ritrovò da tempo disteso sul letto, mentre cercava di dimenticare quella musica appiccicata alle pareti.

Clemens J. Setz (Foto ORF/Johannes Puch)

 

 

2

Nella cassetta postale trovò una lettera nella quale era contenuto qualcosa sul tempo - questa parola risaltava agli occhi perchè presente alcune volte nel testo in caratteri maiuscoli. Si trattava della pubblicità di una nuova assicurazione. Faceva fatica a leggere il testo perchè per le scale era buio e la sua vista negli ultimi mesi era di nuovo peggiorata. Non aveva ancora trovato il tempo per farsi un nuovo paio di occhiali. A questo si aggiungeva l'insonnia a peggiorare il tutto.

Rigirò irresoluto quella lettera pubblicitaria tra le dita, infine la mise tra i variopinti opuscoli gratuiti che dovevano finire nella spazzatura. Chiuse la cassetta, mise in tasca la chiave e se ne andò in cortile passando per la porta posteriore. Lo accolse un'abbagliante luce solare. Con una mano fece scudo ai suoi occhi.

Per prima cosa pensò che ciò che vedeva accanto ai contenitori dell'immondizia fosse un grande orologio, uno di quegli antichi esemplari che si trovano nelle aristocratiche case di campagne e nella pancia vi si può osservare pendolo e ingranaggi, malinconici, come si muovessero al tempo di una misteriosa musica da lutto. Si avvicinò. Una piccola cassetta in metallo a sinistra sulla faccia dell'orologio, sulla cassetta tre monete stilizzate con sotto i numeri 2, 1 e 50. La bilancia aveva uno scaleo in metallo sul quale si potevano vedere le impronte stilizzate di due piedi nudi.

Sembrava che qualcuno avesse voluto disfarsi di quella cosa mostruosa. D'altra parte, pensò Daniel, i rifiuti ingombranti non sono stati portati via.

Daniel mise con attenzione un piede sullo scaleo della bilancia e lo fece altalenare. Non accadde nulla. Riprovò con maggior forza e notò che il piccolo indicatore nero iniziò a tremare. Il meccanismo automatico a moneta funzionava ancora, la bilancia non era rotta. Senza pensarci su, la sua mano s'intrufolò nella tasca dei pantaloni alla ricerca di una moneta, poi scosse la testa pensando a quella stupida idea. Aveva una bilancia nel bagno, perfino elettronica. Inoltre, Daniel sapeva perfettamente quanto pesava.

Si allontanò dalla bilancia e si diresse verso l'auto. Solo quando aveva già chiuso la portiera dell'auto ed aveva fatto scorrere l'estremità rigida della cintura di sicurezza attraverso la mano, si accorse che aveva preso con sè l'intera posta, e dunque non aveva gettato via gli opuscoli e le lettere pubblicitarie. Questo fatto lo indispettì e mise quell'immondizia sul sedile accanto al suo.

Stupida bilancia, pensò guidando con molta attenzione l'auto in retormarcia, fuori dallo stretto ingresso.

Quando giunse in ufficio gettò subito nel cestino la lettera dell'assicurazione e gli altri rifiuti pubblicitari, pigiò il tutto con energia e chiamò sua moglie a casa. Lei rispose solo dopo il sesto squillo, respirando affannosamente. Lei sentì il sottofondo musicale della radio, dunque probabilmente si trovava in camera, dov'era l'impianto stereo. Ma perchè era così a corto di fiato?

Glielo avrebbe voluto chiedere, ma non lo fece. Gli disse invece ciò che aveva visto in cortile. Lei all'inizio non comprese che cosa volesse da lei e infine gli chiese perchè mai l'avesse chiamata.

Così, per sentirti, rispose Daniel.

Okay.

Lei fece un profondo respiro.

Potresti dirmi, disse lui, chi è quell'idiota che butta cose del genere nel giardino?

Che cosa? Non ne ho idea, rispose lei.

Quella roba occupa un sacco di posto. Si arriva a fatica fino alle biciclette.

Quant'è grossa? Chiese lei.

Guarda, è enorme...

Daniel a quel punto, pur restando seduto, fece un movimento natatorio contratto per indicare la misura del relitto molto particolare.

Cosa significa enorme? Grande quanto un trampolino?

No, no, non come un...Al massimo come, come...

Cercò un metro di paragone adeguato, ma quando scoprì che la moglie all'altro capo del telefono tossicchiava, disse la prima cosa che gli passò per la testa.

Come un bambino, al massimo grande quanto un bambino.

Ma allora non è così enorme, ribattè la moglie. Forse più tardi vado a vedere quella roba.

No! Non andarci.

Sua moglie tacque alcuni istanti. Notò che stava tenendo la cornetta con entrambe le mani.

Va bene, disse lei infine. Cos'è successo? Hai forse inventato la bilancia? E' forse un'altra delle tue storie di cui vengo a conoscenza in qualche modo? Se tu -

No, no, disse Daniel, ho solo pensato che si tratta di una proprietà sconosciuta.

D'accordo, disse lei. Mi sembri stressato. Fatti un po' di parole crociate.

Okay, lo farò, disse lui e attaccò.

 

3

Lena, la figlia di Daniel, si chiamava in realtà Elena, oppure anche Helena, con la H atona; nei documenti di nascita e di battesimo si trovavano entrambe le versioni. Daniel e Rita l'avevano adottata. Arrivò dal Messico, ma le sue origini in ogni caso le aveva messe da parte già da tempo. Si ricordava ancora molto bene la propria lingua madre, ma solo quando qualcuno le si rivolgeva in spagnolo, cosa che praticamente non faceva mai nessuno, al massimo qualcuno alla televisione. Il caso volle che assomigliasse un po' a Rita. Talvolta Daniel pensava ai genitori biologici di Lena. Senza che lui volesse esprimere qualcosa di preciso, lui se li immaginava in piedi sulla riva di un grande fiume.

Lui aveva conosciuto Rita sul posto di lavoro, ma poco tempo dopo l'aveva licenziata. Lei aveva studiato architettura ma a quel tempo voleva provare a diventare designerin. Dopo poco tempo aveva già ricevuto un piccolo premio per i suoi primi progetti, era arrivata seconda. La pergamena rimase appesa per una sera alla parete, rimasero seduti ad osservarla, mentre nella stanza si sentiva il ticchettio di un orologio. Il giorno dopo la pergamena era sparita.

Passò poco tempo e finalmente discussero per la prima volta del mistero dell'adozione.

Poichè solo difficilmente riusciva a concentrarsi per un'intera giornata, Daniel pensò a ciò che era accaduto, alla bilancia che si trovava nel cortile e no, certo, non era possibile che quella stesse aspettando lui; che razza di stupida idea.

Nella perizia di un progetto che mostrava il basamento misteriosamente trasparente di un ospedale, lui si accorse di un inequivocabile computo sbagliato solo dopo il terzo controllo. Ne parlò con un collega, quello gli sottrasse il progetto e lo esaminò in silenzio tratto dopo tratto, mentre a Daniel se stette lì senza far nulla, se non alzarsi sulle punte dei piedi.

Chiese se fosse inopportuno che lui quel giorno se ne andasse a casa un po' prima. La lunga barba del collega sfiorava il progetto edilizio, infine quello alzò lo sguardo e fece un cenno.

Narualmente no, disse.

Clemens J. Setz (Foto ORF/Johannes Puch)

 

4

Quando il giorno dopo Daniel stava per recarsi al lavoro, vide il proprietario della casa, il signor Greith, nel giardino. Greith indossava una t-shirt dove si potevano contemplare un'astratta superficie d'acqua e un'isola marrone a forma di collina. Sull'isola si trovava una palma solitaria in procinto di perdere l'equilibrio. Appena di lato c'era anche il signor Gruber, un affittuario del quarto piano.

Daniel! urlò Greith. Hai visto i nostri dinosauri? Ci siamo andati tutti già almeno una volta a cavallo.

Sollevò un foglietto, una sequenza di numeri. Daniel potè riconoscere solo il numero più alto, il 92. Gli brillarono gli occhi e pensò alla sua vista, che diventava sempre più debole, quando qualcuno gli resse una moneta davanti al volto lui si ritrasse con un movimento brusco. Greith si mise a ridere, aveva spaventato Daniel.

Tutto a posto, disse Greith. Tu non sei il primo, vero?

Gruber confermò ridendo e indicò le sue scarpe, come si trattasse dell'unica integrazione sensata.

So già quanto peso, disse Daniel.

Ma se sta a guardare l'intero vicinato è più divertente.

Greith gli battè sulle spalle. Indicò la fila dei balconi, dove c'era chi stava osservando con attenzione i tre uomini in giardino. In uno c'era un telescopio per bambini, il cui manico era piegato fino all'angolo estremo, come se qualcuno gli avesse rotto la cervice. Un vento leggero soffiò sui tre uomini, infine Daniel prese la moneta e la infilò. S'arrabbiò. Salì per un attimo sulla bilancia, solo con metà del suo peso, l'indicatore prese a muoversi selvaggiamente di qua e di là e prima che si mettesse in equilibrio Daniel era già disceso e stava dirigendosi verso l'auto. Il suo cuore batteva.

Hei, gli gridò Greith.

Gruber sghignazzò.

Daniel si voltò. Greith lo indicò con l'indice, poi diresse il dito verso la bilancia. Daniel fece un gesto di rifiuto e, sebbene i due uomini fossero da un pezzo oltre portata d'orecchi, battè sul suo orologio da polso e salì in auto.

Aveva difficoltà ad uscire dal passo carraio. Sebbene fosse sicuro che i due non lo stessero osservando, una prima volta passò troppo vicino al muro della casa, dovette rimettere la marcia in avanti e riprovare. Di certo era la stanchezza, pensò. Ancora una volta erano state quelle pareti, riempite per almeno metà della notte da quella musica sballata, e questa volta, sebbene Rita glielo avesse chiesto più volte, non era neppure andato di sopra.

Quando girò l'angolo arrischiò un ultimo sguardo all'indietro. I due uomini non lo stavano guardando. Greith stava leggendo con grande attenzione il biglietto.

 

5

Ancora una volta sua moglie arrivò al telefono ansimando e prima di poter parlare dovette prendere respiro.

Sì? Che c'è?

Daniel aveva dimenticato il perchè l'avesse chiamata. Alla fine disse:

Sei riuscita a dormire dopo quello che è successo?

No, e tu?

Un po'.

Sono contenta per te.

Sei arrabbiata con me perchè non sono salito di sopra, vero?

Lei tacque.

Io ce l'ho con me stesso, disse lui, solo, ero così stanco...che rivestirmi, mettermi a sciabattare e darmi delle arie...

Non avresti dovuto rivestirti, lo corresse lei. Per questioni del genere si può usare la vestaglia da giorno...

Io no, non faccio cose del genere.

Tu non fai cose del genere, l'ho notato.

No, non intendo quello che pensi tu, ribattè lui. Non infilo la vestaglia sopra il pigiama, salgo di sopra e mi metto a suonare a una porta qualsiasi.

Non ad una qualsiasi, disse sua moglie irritata.

Sei incazzata, ora? Domandò lui.

Ach, è meglio che questo tu me lo chieda più tardi.

Me l'ero immaginato, disse Daniel alzandosi dalla sua poltrona. Tu sei sempre spicciativa.

Davvero sono così?

Sì, e lo sei anche ora.

Aha.

Visto?

Senti, cambiamo argomento, disse lei.

Lui si raschiò la voce, ma il tono rognoso che la sua voce aveva avuto per l'intera mattina non se ne andò. Si accorse che la sua scarpa sinistra era slacciata. Riappoggiò la cornetta e si piegò fin sotto la sua scrivania. Dopo aver stretto il nodo del laccio si rese conto di aver riattaccato il telefono senza salutare.

Fissò quel telefono nero. Si domandò se fosse il caso di richiamare, per scusarsi, ma aveva già chiamato due volte e lei aveva reagito in maniera piuttosto irritata. Irritata e spicciativa. Ansimante, oggi come ieri.

Daniel rigirava la sua poltrona a destra e a sinistra. Non aveva raccontato alla moglie che lo avevano costretto a salire sulla bilancia. Forse non obbligato direttamente. Avrei anche potuto dire di no, si disse. Inoltre, cos'era mai successo? Il denaro non era il suo. E per quanto riguarda il peso, non ho nulla di cui vergognarmi. Era un peso normale.

Sentiva della musica provenire dalla stanza accanto e si diresse verso la porta.

Silenzio prego, disse.

Due colleghi che avevano iniziato a lavorare nella sua ditta appena due settimane prima alzarono lo sguardo stupiti. Ma invece di abbassare il volume della radio, che stava trasmettendo una musica popolare assolutamente innocua, attesero che Daniel fosse ritornato nel suo ufficio.

 

6

Quando si diresse con l'auto verso il parcheggio, Daniel dovette fermarsi ed attendere. Greith, che aveva trascorso l'intera giornata nel giardino, era lì d'impiccio e giocava con un innaffiatoio di latta.

Daniel suonò il clacson, Greith alzò lo sguardo, sorrise, si scusò silenziosamente e si fece da parte. Lasciò una macchia di bagnato sull'asfalto nel momento in cui si diresse verso la bilancia.

Greith si genuflesse con una bottiglietta di olio in mano, come volesse pregare.

Daniel scese dall'auto e subito Greith gli fece cenno di avvicinarsi a lui. Daniel fece come se in quel momento il suo cellulare stesse suonando. Lo tirò fuori con rapidità, si curò preoccupato della bilancia e sparì sulle scale.

Accanto alla cassetta della posta era attaccato un biglietto. Vi si avvicinò. Questi idioti, pensò. Si divertivano a registrare gli insensati risultati della bilancia quando lui si pesava. Il biglietto elencava in una scarna tabella „excel" i nomi di tutti i locatari, anche quelli di Gerd ed Elfriede Kaiser. Gerd pesava 90 chili, non proprio un peso leggero. Sul margine laterale c'erano un paio d'integrazioni con una grafia da zampa di gallina che a Daniel risultò impossibile da decifrare. Tuttavia riconobbe il foglietto, si trattava della lettera pubblicitaria dell'assicurazione.

Oltre a Greith e a Gruber non c'erano altri nel condominio che pesassero più di 100 chili. Daniel cercò il proprio nome e lo trovò; accanto c'erano due punti interrogativi. Questi balordi, pensò.

Sua moglie non c'era. Tirò un respiro si sollievo. Dopo aver passato la sua mano sulla fronte sudata gli sembrò assolutamente naturale. Era da folli preoccuparsene.

Tuttavia lisciò ben bene il foglietto arrotolato, grato e un poco tremolante, cercò altri nomi che lo interessavano. Erano davvero tanti gli inquilini in quell'edificio di quattro piani, molti di loro erano arrivati da appena un paio di mesi, così alcuni nomi non gli dicevano assolutamente nulla. C'erano solo alcune costanti nel palazzo, e lui era una di queste. Greith, naturalmente, ma anche Gruber. C'era poi un vecchio giamaicano, che tutti chiamavano Eric, il cui peso, cercato da Daniel con il dito sul foglietto, era di 75 chili. Aveva immaginato pesasse di più.

Resterà ancora a lungo incompleto.

Daniel barcollò di lato.

Non tutti vogliono montare sul nostro dinosauro, disse allegro Greith, strisciando le sua dita sporche d'olio sulla sua t-shirt.

Montare sul dinosauro, Daniel sentì l'eco in testa mentre con un sorriso sostenuto a stento stava salendo le scale.

Greith si fermò e lo seguì con lo sguardo. Non lo fece con antipatia.

Burkhard Spinnen, Clemens J. Setz (Foto ORF/Johannes Puch)

 

7

Era mattina presto. L'uovo della colazione nel rosso contenitore in legno sembrava stesse riflettendo intensamente su qualcosa. Un oggetto in forma ricurva e silenzioso. Daniel battè sulla capocchia bianca con il rovescio di un cucchiaino e tolse il guscio con la sua unghia, non senza provarne piacere. Lo stuzzicante contrasto tra il duro guscio d'uovo ed il suo molle interno stimolò il suo appetito. Mentre lo stava svuotando a cucchiaiate, guardò fuori della finestra. Quella mattina aveva risolto tre cruciverba uno dietro l'altro. Le parole risolutrici erano state naufragio, karate e Sri Lanka. Un elicottero della polizia sorvolò per tutto il tempo quella zona. Quando ficcò i suoi incisivi nella tazza del caffè si accorse di aver paura. Quella sensazione gli impedì di muoversi, come se fosse immerso in acqua gelida fino alle spalle. Quando sorseggiò, dovette pensare al fatto che stava sorseggiando.

Si fermò davanti allo specchio dell'anticamera e controllò la sua postura. Si raddrizzò, si girò a destra e a sinistra e la sua immagine allo specchio faceva sempre lo stesso effetto. Infne perse la pazienza e si allontanò.

Rita uscì dal bagno.

Te ne vai di già? domandò.

Daniel annuì incerto. Sì, se ne stava andando, ma si accorse che lo stava facendo senza salutare Lena, dunque tornò nella camera dei bambini e disse:

Ciao, a dopo.

Lei lo guardò per un attimo.

Lungo il tragitto che lo portava al lavoro cercò di pensare solo a lei. Una volta lo aveva battuto a schacchi senza che glielo avesse concesso lui. Allora lei aveva appena sei anni.

 

8

La sera seguente Lena fece pressione perchè lui scendesse con lei in giardino, dove sarebbe stata fatta la griglia. Daniel disse di no, perchè loro non erano stati invitati, ma Lena insistette. Il signor Greith si era rivolto a lei dal giardino con un cenno d'invito. Sarebbe dovuta scendere più tardi e lui le avrebbe riservato anche un bel pezzo di braciola.

Si era già fatto buio e Lena, cui la carne era risultata pesante, era risalita già da un pezzo. Daniel era fuori casa con gli altri uomini. Chiacchieravano alla luce delle piccole lampade che si accendevano grazie ad un sensore di movimenti. Il signor Greith le aveva fatte installare nel cortile da un paio d'anni, così che di notte non si rischiasse d'inciampare. Tuttavia ogni due minuti dovevano agitare le braccia e saltellare stupidamente su e giù per farsi individuare dal sensore. Probabilmente la luce non si sarebbe spenta continuamente se si fossero mossi appena, ma erano tutti troppo stanchi per farlo. La maggior parte di loro aveva mangiato molta carne e si raccontavano barzellette adeguatamente oscene.

Il signor Grieth parlò di una festa utile per conoscersi e presentò talmente tante volte i nuovi locatari, finchè poterono finalmente colloquiare conoscendosi a memoria. Tra i nuovi arrivati c'erano anche Gerd e Elfriede Kaiser.

Daniel evitò di parlare con loro.

Ogni qual volta diventava buio, Greith agitava le braccia, saltellava e i presenti si mettevano a ridere. Il rilevatore di movimenti registrò con ritardo la presenza del suo signore. La bilancia riebbe la sua lunga ombra, che subito piegò verso il muro.

Un brindisi alla tua pinguedine, disse Gruber.

Evviva, disse Greith.

Pin-gue-di-ne, ripetè Gruber ridacchiando.

Gerd Kaiser per il riso versò la sua birra e si leccò il polso. Elfriede Kaiser era l'unica donna rimasta. Gli allungò un fazzoletto, ma lui lo rifiutò.

Dopo poco la luce si spense di nuovo. Greith tirò una bestemmia ed iniziò a sbracciarsi. Ma siccome la luce, nonostante i suoi tentativi di rianimazione, non reagiva più, fece alla fine due goffi pupazzi. Gruber applaudì in maniera sfrenata.

Dannata elettronica, disse Greith. Mi sembra che diventi sempre più refrattaria.

Ti conosce già, disse Gerd Kaiser in tono sorprendentemente familiare. Greith mostrò a tutti il dito medio. Ridacchiarono.

Daniel raggelò. Mise le mani nelle tasche dei pantaloni e le strinse a pugno.

 

9

Gli uomini rimasero insieme ancora fino a notte inoltrata e discussero. Daniel non si sentì più così perduto e si avventurò in un colloquio con Greith.

Dimmi, quanti anni ha davvero tua figlia?

Deici, disse Daniel.

La vedo passare sempre qui sotto, disse Greith in segno di plauso. Deici. Ne dimostra almeno dodici.

Sì, a quell'età crescono rapidamente, disse Kaiser. E' anche merito dell'alimentazione.

Può essere, disse Daniel.

In particolare della carne, aggiunse Kaiser.

Non sai, per caso, quanto pesa tua figlia? domandò Greith.

Sì, lei e tutto quello che porta addosso, aggiunse Daniel.

E quando vivono così a lungo all'aperto, disse Kaiser, schizzano verso l'alto come fossero giovani alberi. Mio figlio, che mi supera di due centimetri pieni, ha solo, o meglio, compirà il mese prossimo solo tredici anni.

Già, i figli, disse Greith parlando tra sè. Pesare un figlio naturale, è diventato ormai un piacere raro.

Sì, crescono davvero molto velocemente, disse Daniel con una voce un poco più seriosa.

Perchè fanno i preziosi, disse Greith rivolto verso il dito indice sollevato che stava fluttuando davati ai suoi occhi. Quando si tratta del loro peso sono sensibili come puntaspilli.

La luce si spense di nuovo.

Io non mi muovo più, disse Greith. Voi fate quello che volete.

Quattordici, disse Kaiser a voce alta. Prima ho detto forse tredici? Il mese prossimo ne avrà quattordici.

Per conto mio potremmo continuare a discutere anche al buio, disse Gruber.

Come volete, fece Greith.

Vieni, liberaci, disse Gruber e spinse delicatamente Daniel.

Daniel mosse entrambe le braccia, come fosse un controllore di volo che voglia impedire l'atterraggio ad un aereo che gli sta arrivando addosso. Durò poco, infine la luce ebbe nuovamente compassione di loro. Gli uomini applaudirono. Greith inspirò l'aria notturna con il naso facendo un certo rumore, la trattenne per un po' e infine l'espirò provandone piacere.

Sublime, disse. E' passato anche a voi per la testa che quando si accende la luce in giardino scompare il cielo stellato?

E succede in maniera così silenziosa, aggiunse Gruber indicando i balconi vuoti e le finestre per la maggior parte buie. Dormivano tutti.

Notte estiva, disse Greith e accarezzò la palma sulla sua camicia.

Credo che ora andrò a dormire, disse Daniel.

Una volta nell'appartamento, Daniel spense la luce nelle camere che davano sul cortile, così che gli uomini là sotto non potessero vedere quando sarebbe andato a letto. Evitò di fare rumore e rimase a lungo seduto al buio, finchè non s'addormentò.

In sogno si vide messo a confronto con un campanile alto chilometri che suonava roche e aride melodie, delle quali le punte delle sue dita si colorarono di nero.

Clemens J. Setz (Foto ORF/Johannes Puch)

 

10

La mattina dopo Daniel credette che il giardino si fosse svuotato, ma Greith, arruffato come un cane dopo la pioggia, era sempre lì e stava mettendo tutto a soqquadro. I resti della festa del giorno prima, piatti di carta, bottiglie di birra, ne aveva fatto un unico cumulo sul quale poi aveva fatto pressione con forza. Daniel lo salutò ccon circospezione. Greith gli raccontò subito che, dopo che lui era andato a dormire, gli altri uomini lo avevano preso in giro in maniera oscena per il fatto che lui continuasse a vivere da solo, senza moglie.

E allora? disse Daniel.

Sono un uomo anch'io, disse Greith caparbio.

Certo.

Questo può meravigliare qualcuno, disse ancora Greith, ma può offendere anche me.

No, loro non volevano certo...

Soprattutto quel cinghialetto, quel Gerd, disse Greith deluso. Si atteggia come se sapesse...

Di certo erano tutti un po' -

...quanto pesano il bambini, borbottò Greith, e posò quasi il suo mento sul petto.

Aveva messo la sua mano ancora una volta sulla sua t-shirt. La lasciò lì per un po' e le dita si muovevano titubanti su e giù, poi all'improvviso fece scattare la mano in avanti e prese blandamente Daniel alle spalle.

I dinosauri devono essere imboccati, disse. Come me. Anch'io sono un dinosauro, un uomo dell'antichità, della antichissima epoca dei buongustai. Allora, vediamo un po'...Ho ragione o no? C'è un limite alle battute.

Mentre Daniel stava salendo sulla bilancia l'altro canticchiò una stralunata melodia.

Di certo quel Gerd Kaiser è un fallito più di me, continuò, in un certo senso non lo contesto.

Daniel non si mosse. Era stato tirato da Greith sulla superficie in metallo della bilancia, ma in sostanza aveva fatto da solo l'ultimo passo, seguendo il proprio impulso - solo per non inciampare, si disse. In quel momento Greith lo stava tenendo fermo lì sopra, certo lui aumentava il peso, premendo pur leggermente con la sua mano pesante verso il basso. Falsa il risultato, pensò Daniel ma corresse immediatamente questo pensiero perchè era stupido e puerile. Che gliene interessava del suo peso - voleva solo scendere dalla bilancia. Fece dunque un tentativo ed alzò una volta le spalle con circospezione.

Oh, disse Greith e lo lasciò andare. Mi scusi.

L'indicatore, alleggerito, s'abbassò e indicò 68 chili, il suo peso normale. Daniel fu infinitamente felice di vedere il consueto numero. Quasi s'era aspettato un risultato assolutamente impossibile, un mostro a tre cifre cui lui non sarebbe stato all'altezza. Si voltò e voleva scendere dalla bilancia - la necessità impellente, farsi la doccia -, ma Greith gli sbarrò la strada. Non intenzionalmente, come pensò Daniel, perchè Greith non si stava prendendo cura di lui. Greith rovistò nelle tasche dei suoi pantaloni, trovò infine ciò che stava cercando e lo sollevò: una penna. Cercò di scrivere, ma senza un appoggio non ci riuscì. La carta era troppo molle.

Saresti così gentile, disse allegramente impaziente, e la sua mano descrisse un semicerchio.

Daniel aveva capito. Si scusò sommessamente, scese dalla bilancia e si voltò, così che Greith potesse usare la sua schiena come appoggio per scrivere. Percepì la breve corsa centrifuga della punta della penna sulla sua pelle. Quando il numero era infine trascritto, Daniel corse attraverso le scale fin nel suo appartamento, senza accendere la luce.

Sua figlia era lì, pronta per vestirsi ed andare a scuola. Le accarezzò il capo mormorando qualcosa di incoraggiante.

Quando infine si ritrovò disteso nella vasca ricoperto da una montagna di crepitante schiuma da bagno ebbe la sensazione d'essersela cavata ancora una volta. Più tardi chiamò in ufficio e si scusò più volte, finchè non venne assicurato del fatto che non c'era un bisogno urgente di lui.

 

11

Daniel aprì gli occhi. Aveva sognato di aver visto la sua ombra aggirarsi a mo' di fantasma sulle cime di abeti. Sedeva in una seggiovia e si dirigeva verso la cima di una montagna su cui s'ergeva un'imponente centro per i visitatori. Mentre si lambiccava sulla strana immagine onirica, si vestì senza pensare che era domenica. Solo quando la sua mano sinistra s'infilò nella fredda manica della giacca e il suo orologio da polso rimase impigliato per un attimo alla fodera interna, lo colpì agli occhi il sonnolento bagliore di luce proveniente dalla camera dei bambini. Le tende erano ancora tirate. Sua figlia dormiva ancora - si diede un colpo col palmo della mano sulla fronte, si sfilò la giacca con una risata di giustificazione e la riappese all'attaccapanni.

Daniel andò in cucina. Sedie, un pesante tavolo da cucina, una macchina per affettare il pane, una tazza di caffè solitaria - tutto sembrava addormentato. Solo lui era sveglio.

Perchè si era alzato così presto? Di domenica era sempre l'ultimo e si arrabbiava se qualcosa gli impediva di restare più a lungo a letto. Il suo cuore batteva in un modo insensato.

Fuori pioveva.

Si rivestì e scese in giardino.

Riparatosi sotto la porta del cortile, osservava la pioggerella, infine uscì senza aprire l'ombrello, lasciandosi bagnare. La bilancia se ne stava sotto la pioggia che scrosciava sul suo capo circolare e ammolliva le terra sotto di lei, tanto da poter sperare che sarebbe presto sprofondata.

Notò che qualcosa era cambiato e serrò entrambi gli occhi. Ma non riuscì a mettere meglio a fuoco l'immagine, dunque dovette avvicinarsi. C'era qualcosa di diverso ma non riconobbe immediatamente cosa. La bilancia se ne stava lì come sempre, il largo quadrante guardava minaccioso il nulla e il corpo massiccio, pesante tonnellate e inamovibile, faceva l'effetto di un pendolo che fosse lì fermo da decenni.

Era forse diventata più grande durante la notte? No, non era quello.

Per prima cosa pensò fosse una sua impressione, ma poi lo vide davvero: alla bilancia mancava qualcosa. Si trattava di un orecchio, quello sinistro - al quadrante dotato al centro del dispotico e palpitante indicatore mancava sul serio l'orecchio sinistro.

Si accaldò. Non c'è più nessuna barriera, pensò confuso.

Si passò la mano sulla fronte e notò di aver iniziato a sudare. Si avvicinò alla bilancia per vedere meglio che cosa fosse successo. Dov'era stato fissato l'automatismo per le monete, quello attraverso il quale la bilancia poteva essere riportata in vita, si trovavano allora tre buchi neri per altrettante viti che probabilmente erano state gettate da tempo nella spazzatura. Il suo piede destro osò, si fece avanti per fare una prova. L'indicatore, particolarmente lesto e svincolato, al primo contatto fece un salto festante, come tirato da un filo invisibile.

Daniel!

Sua moglie lo stava guardando dalla finestra, il suo volto era innocente meraviglia e sorpresa, un sereno volto domenicale. Lui non poteva più sopportarlo, dunque disse:

Chiudi la finestra!

Perchè? Che cos'è successo?

Aveva di nuovo il fiatone, notò lui. Per un motivo imprecisato non sopportava quella vista e urlò:

Chiudi! Chiudi!

Lui dimenava entrambe le braccia per farla sparire. Ma lei rimase lì dov'era, cambiarono solo l'espressione del suo viso e la posizione del suo corpo. Daniel percepì come gli sguardi di tutti i vicini si fossero raccolti sulla sua guancia sinistra, come su di uno specchio concavo. La sua pelle bruciava. Con una mano poggiata sul lato sinistro della sua faccia, si voltò raccogliendo una pietra che si era tenuto a portata di mano accanto alle sue luride pantofole. La finestra con il volto di sua moglie si chiuse appena in tempo, ma la pietra non colpì il vetro, piuttosto rimbalzò sul muro con un cricchio. Daniel, nascosto dietro i contenitori dell'immondizia ordinati secondo i colori, un po' strisciando e un po' in ginocchio, si mise allora alla ricerca di una pietra molto più grossa.


Tradotto da Vito Punzi

 

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