Linda Stift, Vienna (A)

Nata nel 1969 a Wagna (Stiria) /vive a Vienna Studi di germanistica. Attività libero professionale come lettrice  per case editrici di belletristica e periodici.

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Il mondo delle belle cose

 

Un sottile parallelepipedo di banconote all’ora del crepuscolo cambiò proprietario e potemmo salire su di un camion il cui piano di caricamento venne sbattuto e serrato dietro di noi. Per prima cosa avevamo ricevuto con concise parole inglesi le indicazioni circa il dover spegnere da quel momento i cellulari ed il comportamento che avremmo dovuto tenere in questo o in quell’altro caso, poi, nella nostra lingua, l’uomo ci augurò buona fortuna. Lo disse così piano che lo si poté capire a malapena. Suonò come se stesse parlando con se stesso. E lui stesso sembrò averlo capito, visto che fece seguire un „Good Luck“ , e questa volta forte e chiaro.

Sedevamo su tavolacci di legno che erano stati collocati lateralmente. C’era puzza di cesso lurido. Tirammo le ginocchia fino al petto e aspettammo. Uomini, donne. Quanti? Non sapevamo quanti, l’uomo non aveva fatto l’appello. Così il nostro numero rimase imprecisato. Non filtrava verso di noi neppure un raggio di luce. Iniziò un rovistare ed un frusciare. Uno dopo l’altro tirammo fuori le nostre pile tascabili dagli zaini, quelli nuovi, fatti con colorato materiale sintetico, che avevamo portato in più per il viaggio. Per giorni eravamo stati alla ricerca del bagaglio col quale saremmo entrati nel nuovo Paese. Non volevamo dare in nessun modo l’impressione che il bagaglio dovesse essere pratico e carino, che dovesse essere della misura giusta, non lo volevamo, perché sarebbe sembrato come se l’avessero già usato i nostri nonni.

Tenemmo le pile dirette verso il pavimento, aspettammo. Nessuno fiatò. Si sentiva un saltuario leccare o un raschio. Qualcuno sospirò, un altro se ne uscì con un grugnito, cui seguì un silenzio impacciato, perché ognuno reprimeva ogni rumore corporale. Venne sbattuta una portiera. Il camion partì. Da quel momento in noi ci fu movimento. Sebbene si potesse stare certo in piedi, ci chinammo per bilanciare il rollio e l’ondeggiare del camion e ci mettemmo a parlare tra noi. Illuminammo gli angoli, dov’erano sacchi e scatole vuote, carta schiacciata e resti di cibo ricoperti di muffa. Un pezzo di pneumatico era fissato sul lato dell’autista, trovammo anche due tinozze in metallo che all’interno erano in parte incrostate e arrugginite. Ecco il motivo del fetore fecale. Spostammo l’immondizia e le tinozze sotto i tavolacci. Rovesciammo le tinozze, sperando così che la puzza di muffa si sarebbe volatilizzata. Lo facemmo alla buona, come meglio venne. Il cibo venne aperto e messo sui giornali, tra le ginocchia, quelli che avevamo comprato in tutta fretta e non avevamo più letto. Al più avevamo buttato un occhio sull’oroscopo e subito ce n’eravamo dimenticati. Avevamo con noi analoghi pacchi di rifornimento, scambiammo nondimeno il salame con prosciutto affumicato e latte caprino con latte di pecora, si diffuse una prudente e dimessa atmosfera da picknick. Da bere c’erano acqua e grappa, ma non la birra, che altrimenti ci avrebbe costretti a pisciare troppo spesso. Volevamo ritardare il più possibile l’uso inevitabile delle tinozze. C’era un caldo soffocante. Successivamente iniziò ad esserci baldoria, la grappa sciolse l’ansia, ma il clima da osteria non durò a lungo. Non fumammo. Non parlammo del passato, ma solo del futuro che avremmo trovato, di quanti soldi avremmo potuto guadagnare, in quali enormi appartamenti avremmo potuto abitare, oppure in quale piccola stanza, nel caso avessimo voluto risparmiare. Quale tipo di apprendistato avremmo potuto fare o quale tipo di mestiere. E perché non studiare? Medicina, si può diventare medico ovunque. Solo, bisognava imparare subito la lingua. Chi parla la lingua del Paese ha già vinto. I bei sogni volteggiavano come bolle di sapone uscite dalle nostre bocche. Successivamente, una volta guadagnato abbastanza, saremmo ritornati, con le nostre auto, avremmo aperto un ambulatorio, oppure avremmo costruito una casa, magari sulla costa, e perché no, un hotel. La fame di sole del nuovo Paese era grande, perché non c’era uno sbocco sul mare, solo montagne. E la gente voleva andare a tutti i costi al mare. Perfino in inverno facevano lunghi viaggi per raggiungere le lontanissime spiagge dell’oceano, per distendersi sulla sabbia bollente o sui ciottoli arrotondati. Si lasciavano cuocere dal sole, come non ci fosse alcun mattino. Anche dopo pranzo non si concedevano pause, subito si ridistendevano con lo stomaco gonfio e corrosi come carne ai ferri sulle sdraio a strisce, spostando ogni mezz’ora il proprio lettino secondo la direzione del sole. Una piccola pensione per camera e colazione che poi si sarebbe potuto ingrandire. Cosa serviva all’inizio? Tovaglioli bianchi ed un sacco di bottigliette di docciaschima. Caffè nero e brioches dolci. Era tutto così facile, si aveva solo un po’ di denaro da parte. Il capitale d’avvio, questa era la parola magica, e crediti veloci. Le nostre banche, che loro già si erano accaparrati, avrebbero investito su di noi con entusiasmo. Giocarellammo con queste e simili parole e ci vedevamo già come albergatori vestiti di tutto punto o in divisa a raccogliere di sera il nostro oro nella cassetta di sicurezza. Non pensammo neppure per un istante alla crisi economica. Al fatto che di noi forse non ci sarebbe stato neppure bisogno. Per noi ci sarebbe stato lavoro per sempre. Per noi non ci sarebbe stato alcun danno, professionalmente siamo ben preparati, vendiamo la nostra forza lavoro a buon prezzo, per questo saremo preferiti ai residenti.

Pian piano tacemmo l’uno dopo l’altro. Vennero tirate fuori le tinozze, avevamo le lacrime agli occhi per la vergogna. Odiammo il sonoro crepitio dei nostri getti d’urina, soli gli uomini ne restano indifferenti. Potevamo sforzarci quanto volevamo e stringere i denti, solo per non produrre quel crepitio, ma era inutile. Tanto più che contemporaneamente dovevamo bilanciare i movimenti ondulatori del camion con i piedi e del femore, per evitare che il liquido si dirigesse altrove. Senza tener conto poi della posizione del corpo che dovevamo tenere davanti agli occhi di uomini estranei.

Noi al contrario siamo abituati ad urinare in luoghi semipubblici e tra i nostri simili. Non vi troviamo nulla di strano. Al contrario. Ci divertiamo a farlo, organizziamo piccole gare. Prendiamo il toro per le corna per salvare la faccia. Dicevamo alla donna che non dovevano aspettare che i suoi capelli ingrigissero. La natura ha le proprie esigenze e garantimmo che non ne avremmo approfittato. Inoltre, non avremmo neppure guardato. Quando lei si sarebbe calmata, avremmo messo le mani davanti agli occhi. Anche noi lo facemmo, mentre qualcuno sbirciava tra le dita. Il rumore dello scroscio continuammo a sentirlo senza filtri, non potevamo tapparci le orecchie.

Pattuimmo di dormire a turno. Non potevamo distenderci tutti contemporaneamente, non c’era posto a sufficienza. Gonfiammo materassini di gomma e distendemmo i sacchi a pelo sul pavimento, due o tre si adagiarono piegati sul tavolaccio, noi ce ne restammo semplicemente a sedere. C’accasciammo oppure ci sedemmo con la schiena ritta contro la parete, il corpo disteso come su di un grande letto. Come se fossimo stati appesi ad un chiodo. Poi spegnemmo le pile tascabili, solo un sussurrare e un bisbigliare, un frettoloso inghiottire, infine un rumoroso respirare, un ronfare ed un rantolare. Dorminno inquieti, ci spostavamo di qua e di là, oppure venivamo sballottati qua e là dalle frenate o dalle accelerazioni dell’autista, sbattevamo contro gli altrettanto irrequieti corpi distesi vicino a noi. Allungavamo con circospezione una mano per toccare un viso, i capelli, lisci, ricci, folti o radi che fossero. Appoggiammo la testa su di una spalla. Qualcuno premeva il proprio corpo sulla nostra schiena, s’avvinghiò a noi con entrambe le braccia e posò un piede sui nostri fianchi. Restammo distesi e tranquilli. Ci disponemmo per l’abbraccio. Ci voltammo. Ci piegammo di lato. Scivolammo via, spingemmo braccia e gambe all’indietro, non volevano nessuno vicino. Eravamo come inchiodati al sacco a pelo, le braccia che facevano pressione sui lati, per non urtare nessuno. Gli occhi insonni saldati all’oscurità, trattenemmo il respiro e ci assottigliammo il più possibile.

Le grappe avevano essiccato le ugole. Come se ci si fosse incollata della carta assorbente in gola, la bocca semi aperta, sedevamo ed eravamo distesi lì, la mucosa nasale tumida, e pensavamo a quelli che avevamo lasciato, a come ci avrebbero dato il benvenuto al nostro ritorno, con le tasche piene di soldi e di conoscenze utili. Alle occhiate d’ammirazione che ci avrebbero rivolto e a come, schivi, ci avrebbero domandato il nostro parere. A come all’improvviso ci avrebbero rispettato. A come la combriccola delle famiglie avrebbe fatto attenzione a noi, perchè finalmente avevamo qualcosa da dire. Talvolta tuttavia coloro che tornavano venivano accolti male, alle figlie, dai padri, venne vietata la casa, perchè pesantemente sospettate di essersi prostituite nel Paese straniero. Perchè i padri non erano in grado di figurarsi altro. I maschi si beccavano schiaffoni dalle madri a destra e sinistra, per i dispiaceri che aavevano loro arrecato, perchè i figli le avevano quasi portate alla tomba. Meglio gli schiaffoni però del ripudio. A noi non sarebbe successo, le nostre famiglie erano  aperte. Perchè le lasciavamo? Perchè eravamo state perseguitate, mutilate e uccise, per soldi e potere, per la nostra religione, perchè eravamo state sacrificate ad un’idea superiore o ad una tradizione. Perchè se ne erano andati tanti e tanti prima di noi. Perchè non saremmo stati gli ultimi. Perchè volevamo una vita migliore. Forse, semplicemente perchè volevamo un’altra vita. Una vita con opportunità. Eravamo stati avvicinati da persone che raccontavano esserci un paradiso ad attenderci e sarebbe stato da folli non entrarvi. Promettevano l’azzurro del cielo, e chi non voleva vedere almeno per una volta con i propri occhi l’azzurro del cielo, visto che da noi c’era solo il grigio, del cielo, e di quello ne avevamo abbastanza. Offrirono un pacchetto completo con la garanzia del 100% di riuscita, senza doversi preoccupare di nulla, bastava pagare un tanto e loro l’avrebbero realizzato nel Paese desiderato. Era tutto facile. Come in una agenzia di viaggi. Oppure noi stessi avevamo cercato il contatto cone quei mediatori, perchè già sapevamo che anche altrove il cielo prima o poi avrebbe potuto essere grigio. Ciascuno doveva preoccuparsi del proprio paradiso.

Forse porteremo qualcuno con noi, a casa, da sposare. Ci si potrebbe sposare anche nel nuovo Paese, c’erano sedicenti persone che si mettevano a disposizione, in cambio di denaro, ovvio, si veniva riconosciuti immediatamente e si ricevevano i documenti necessari per poter rimanere. Ma noi non lo volevamo. Volevamo sposarci per amore. Volevamo sposare qualcuno che ci aveva scelto. Non i nostri genitori o un qualsiasi tagliatore di teste dei mediatori di matrimoni. Sognavamo cerimonie di matrimonio che durassero settimane, mesi, anni, nei quali saremmo state ricoperte di riso e petali di rose, dove gli ospiti potevano dormire sotto i tavoli mentre noi, moglie e marito, potevamo essere già da tempo per monti e per mari. Dove venivano serviti maiali arrosto, pesce fritto e pollame ripieno, e wurst, e frittelle di pasta, dolci e salate, e dolci, torte e confetti, finchè tutti non fossero strapieni e si dovesse distribuire del caffè nero pece. Dove la torta di matrimonio era a piani e la glassa cricchiava sotto i denti. Dove le madri si arruffavano i capelli e i padri cantavano canzoni malinconiche. Dove i giovani ballavano e i vecchi ridacchiavano. Ed uno particolarmente furbo cavalcava un maiale. Sebbene lasciassimo proprio quel Paese nel quale si amava organizzare simili matrimoni - nessuno di noi era stato ad una festa simile -, non aspiravamo ad altro che ad un ritorno come quello.

Quando ci svegliammo, accendemmo rapidamente le pile tascabili, guardammo con occhi gonfi gli orologi. Era primo pomeriggio, era tempo d’alzarsi. E tempo per coricarsi. Non volevamo alzarci subito, solo un minuto ancora, ci sgranchimmo, rimuginando, mentre c’era già chi scalpicciava impaziente con i piedi. I colpi vennero distribuiti, in maniera più o meno giocosa, ci arrampicammo sul tavolaccio e pressammo i pugni sugli occhi. Si stiracchiammo sui sacchi a pelo sudati. Ma non dormimmo, gemevamo forte e ci grattavamo teatralmente le membra torpide. Vennero tirati fuori dagli zaini thermos con caffè e thè, e vennero riprese le tinozze. Ancora impacciati, in ogni caso senza lacrime, lasciammo crepitare. L’altro lo trattenemmo. Impensabile. Meglio rimediare una costipazione.

Il defecare era per noi più difficile dell’urinare. Chi poteva, si tratteneva, ma questo non riusciva a tutti. Inoltre, dovevamo versare anzitutto il contenuto di entrambe le tinozze in una vuota, nessuno la sera prima aveva pensato che bisognava tenere una tinozza per il piscio e una per la merda. Quella per l’urina era già quasi piena ed il liquido ad ogni frenata debordava. Vi avvolgemmo tutt’intorno un vecchio brandello di stoffa che avevamo trovato lì, come si trattasse di una sciarpa. Svuotammo gli zaini. Ma non avrebbe resistito a lungo. Si dovettero svuotare subito le tinozze. Picchiammo con i pugni sul lato dove stava l’autista, sebbene ci fosse stato detto di non picchiare, mai, per nessun motivo. All’autista quel problema poteva non essere sconosciuto. Picchiammo per alcuni minuti, infine l’autista rispose picchiando anche lui. Le tinozze, le tinozze, gridammo continuando a picchiare. L’autista rispose, ma noi non capimmo. E neppure fermò il camion. Rassegnati, tornammo ai nostri posti. Prima o poi avrebbe dovuto fermarsi, di certo nel sedile accanto non aveva una tinozza dove pisciare.

Nel nuovo Paese avevamo parenti. Su di loro poggiava la nostra speranza. Che cosa non avevano scritto per lettera, i parenti. Giorno dopo giorno avevamo aspettato il postino per prendere in consegna quelle lettere nella busta cricchiante. Timbrate settimane prima, con  francobolli colorati e autoadesivi della posta aerea. Avevano fatto crescere ristoranti, negozi d’alimentari, ditte produttrici di computer e sartorie, i parenti, lavoravano giorno e notte, la casa con giardino e piscina, nella quale vivevano, era così grande che vi si poteva pattinare. Avevano assunto servitori originari dei lontani stati isolani. Saremmo stati i benvenuti in qualsiasi momento, ovviamente la loro casa era aperta, per noi. L’ospitalità era la cosa che valeva più di qualsiasi altra. Il sangue è più denso dell’acqua. Questo e molto altro era scritto nelle lettere e noi prendemmo tutto per oro colato. Oro che tintinnava d’America, di Stati Uniti, e non d’Europa, ma volevamo operare anche con questa valuta per capire se la si poteva ottenere in Europa.

Successivamente, quando avremmo costruito qualcosa e forse non saremmo più voluti tornare indietro, perchè abituati al nuovo Paese, le tradizioni diventate dubbie e la lingua fragile, e i genitori ed i nonni, con le loro teste così acconciate di fresco, apparirebbero solo come larve senza età, allora scriveremmo noi quelle lettere, i nostri fratelli e le nostre sorelle più piccole aspetterebbero nostre notizie. Non scriveremmo neppure più lettere, ma e-mails. Loro poi non dovrebbero più aspettare il postino, che forse in ogni caso era stato una spia. Non sapevamo se allora tutte le lettere erano arrivate. Se lui le aveva lette dall’inizio alla fine, con le dita tremanti, oppure, al contrario, impassibile e disinteressato, prima di consegnarcele. Se lui non aveva copiato e archiviato le lettere. Oppure se le aveva imparate a memoria e poi, a casa, le aveva registrate su nastro. Non ne faremo più esperienza. Non guarderemo più indietro, ma avanti. Non c’era più un indietro. Scriveremmo alle sorelle e ai fratelli più piccoli che dovrebbero raggiungerci, che qui ce ne sarebbe abbastanza per tutti, che potrebbero abitare da noi. Fino al quel momento spediremmo loro cioccolata con le nocciole, giornali, libri, DVD, vestiti alla moda, denaro. Ma non per posta normale, per tirare un bello scherzo al postino, che pure, forse, era stato del tutto innocente.

 

Ad un certo punto il camion si fermò, con uno strappo che fece sbattere i denti e ci strappò dalle belle immagini, percepimmo un cupo mugghiare, probabilmente eravamo al margine di un’autostrada o di una superstrada. Venne sbattuta la portiera, l’autista era sceso, la nostra rampa non venne aperta. Balzammo in piedi ed iniziammo a battere. Una voce dall’oscurità disse che in quel momento erano le quattro del mattino e non sapevamo quando saremmo dovuti arrivare, perché nessuno ce l’aveva comunicato. Questo non lo si potrebbe dire con precisione, si era detto. Smettemmo di battere, non aveva senso. L’autista doveva essersi allontanato da un pezzo dal camion. Non accendemmo le pile tascabili per risparmiare le batterie. Attendemmo con i muscoli tirati e le orecchie tese. Nessuno utilizzò l’interruzione per cercare una delle tinozze, sebbene l’uso ora sarebbe stato più facile di quanto non lo fosse durante il viaggio. Ogni momento era buono perché venisse aperto il portellone, speravamo. E non volevamo farci trovare con il pantaloni tirati giù. Senza l’autista ci sentivamo miserevoli: che cosa sarebbe successo se lui non fosse tornato? Si era sentito già spesso di tir abbandonati, nei quali erano accatastati cadaveri putrescenti. Morti per soffocamento o per un colpo di calore. Vecchi, giovani, madri con i loro bambini al seno. Affamati, assetati, con ematomi alle braccia e alle gambe. Dunque, ci potremo liberare o no? Non doveva essere così difficile sfondare il portellone dall’interno. Eravamo giovani e forti. E non avevamo visto un scalpello tra l’assortimento di pneumatici? Palpammo i nostri coltellini multiuso e le forcelle.

L’autista tornò. Dopo una lunga, angosciante mezz’ora durante la quale c’eravamo dedicati ad organizzare mentalmente le nostre sepolture in patria, sbatté la portiera e fece ripartire il camion. Sebbene non ci avesse permesso di scendere, tirammo un sospiro di sollievo, fummo felici come bambini che avevano visto scomparire la mamma dal loro campo visivo per vederla riapparire, inaspettatamente, altrove. Dimenticammo i pensieri tristi, le membra rattrappite, il fetore divenuto nel frattempo bestiale, e ci lasciammo dondolare dal movimento del camion di nuovo nel mondo della cose belle.

 

Quando il portellone venne aperto, entrò rapidamente una massa d’aria fresca che subito venne aspirata avidamente dai nostri polmoni e causò vertigini. Un uomo agitava la mano, fuori, fuori. Arraffammo tutto, i nuovi zaini segnati con strisce nere e strisciammo intontiti fuori dal camion. Potevamo stare in piedi a mala pena. Nell’oscurità era ritagliato un sottile novilunio. L’autista se ne stava in piedi accanto alla sua portiera, fumava una sigaretta e nicchiava riconoscente. Il nicchiare non era per noi, ma per se stesso. Il suo lavoro era terminato, ci aveva portato senza intoppi al luogo desiderato, era contento di se stesso. Era soddisfatto del pagamento. Si accese nuovamente la sigaretta, tirandola fino al filtro. L’autista gettò in aria il filtro, fece un cenno e salì sul camion. Accese il motore e si allontanò da lì. Lo seguimmo con gli sguardi stanchi. Non avevamo scambiato con lui neppure una parola, aveva incassato da noi un sacco di soldi, ci aveva trattato come bestiame, tuttavia non nutrivamo alcun rancore nei suoi confronti. Al contrario, gli eravamo grati.

Ora eravamo in piedi da soli al margine di un bosco con l’uomo che ugualmente non aveva scambiato con noi ancora neppure una parola. Distribuiva fogli fotocopiati sui quali era indicata la via che avremmo dovuto percorrere a piedi. Nel punto in cui ci trovavamo campeggiava una grande croce, un cerchio invece in quello che avremmo dovuto raggiungere, la distanza tra i due punti era indicata con frecce tratteggiate. Partimmo spediti a gruppi di due o tre, a distanza di dieci minuti l’uno dall’altro, apprendemmo che all’altro punto, quello cerchiato, ci aspettava un nostro connazionale. Avremmo avuto bisogno di un’ora circa – e mentre parlava agitava il suo polso, lasciando che la manica della giacca in pelle salisse lungo il braccio fino a far emergere un Rolex con pezzi in metallo dorato -, non avremmo dovuto accendere alcuna pila tascabile, perché la strada era facile, bisognava andare sempre diritto, non avremmo dovuto parlare a voce troppo alta, e sarebbe stato meglio tacere. Distese il braccio con il Rolex come si trattasse di un cartello stradale. Poi lo abbassò, l’orologio scomparve con un rumore simile ad un forte gocciolamento sotto la manica, ci augurò “Good Luck” e se ne andò in direzione contraria.

Lo seguimmo con lo sguardo finché venne inghiottito dal nero della boscaglia, gettammo un’occhiata sul biglietto, poi guardammo nella direzione della strada che avremmo dovuto prendere. Passo dopo passo c’incamminammo perplessi. Quindici minuti prima eravamo ancora seduti nel camion, ravvolti nei sacchi a pelo, avevamo bevuto grappa e eravamo appoggiati l’uno all’altro, ora ci trovavamo in chissà quale tratto di bosco. Potevamo ancora tornare indietro. Saremmo tornati un’altra volta, con più soldi, con più muscoli, con più lentiggini. Per quale vero motivo ce n’eravamo andati? A mala pena ricordavamo le ragioni che ci avevano mosso.

Non riuscivamo a metterci d’accordo su quali di noi dovessero partire per primi. Nessuno voleva fare da apripista. Si formarono solo due gruppi, comprendenti il primo gli stessi che all’inizio avevamo dormito sul pavimento e il secondo quelli che erano rimasti a sedere sul tavolaccio. Iniziò una lunga manfrina, discutemmo sempre più ad alta voce, finché non ci rimbombarono le orecchi ed infine tacemmo esausti. Qualcuno guardò l’orologio. Dovevamo muoverci. A fatica i primi quattro si staccarono dal gruppo di quelli che erano stati seduti sul tavolaccio e presero la direzione indicata prima dall’uomo. Ci voltammo più volte, facemmo il segno della vittoria, sebbene le ginocchia ci tremassero. Poi il secondo, il terzo gruppo, ad intervalli inferiori ai dieci minuti l’uno dall’altro. Ci sembrava troppo tutto quel tempo, non volevamo essere così lontani gli uni dagli altri. Sotto i piedi si sentiva crocchiare e frusciare, sui nostri visi sbattevano rami sottili, animali invisibili emettevano strani mormorii. E sempre la paura, ci avrebbe osservato e subito sarebbe scattata la trappola. Passo dopo passo c’inoltravamo nell’oscurità, combattendo contro la natura che ci divide da voi. Eravamo degli intrusi e la natura ce lo mostrava. S’irrigidì e si oppose. All’inizio avevamo ancora indugiato, avanzando i piedi con circospezione, così, ora incuranti, penetravamo rumorosamente con le nostre massicce scarpe da ginnastica nella boscaglia, per punizione incespicavamo su radici e ceppi d’albero. Con le caviglie slogate arrancavamo in avanti. Quando ci imbattemmo in qualcuno che ci precedeva, lo superammo oppure restammo ad una certa distanza, poi proseguivamo, senza aspettare neppure cinque minuti. Eravamo come un lungo nastro spiegato. Una bucherellata e indisciplinata fila di persone, come alla cassa di un supermercato.

Era passata già più di un’ora e stavamo sprofondando nel bosco, non sapevamo se la direzione fosse ancora quella giusta. Camminavamo più lentamente rispetto all’inizio. Avanti, avanti, ci sibilavamo l’un l’altro quando ci preparavamo a fermarci. Del nostro connazionale che doveva attenderci, nessuna traccia.      

Da lontano risuonò un abbaiare di cane. Seppur lieve, si avvicinò. Accelerammo di nuovo, l’umido freddo notturno penetrava attraverso i nostri vestiti. Le nostre gambe s’impigliavano tra arbusti e boscaglia. Consultammo la distanza e perdemmo di vista quelli che ci avevano preceduto. I cani ora erano molto vicini, li si sentiva respirare a bocca spalancata, si sentirono i moschettoni dei loro guinzagli battere contro i collari. I cani dovevano averci già annusato. Si sentivano anche i passi dei cinofili, era un casino di legno crocchiante e di rami che si rompevano. Ora si percepivano anche delle voci. Voci che davano ordini in una lingua straniera. Voci che urlavano, voci piagnucolanti, voci compassate. Abbaiare di cani. Io mi misi disteso sull’ammuffito terreno boschivo, poggiai la testa sulle mie braccia conserte e chiusi gli occhi. Qualcosa di oblungo con le ciglia strisciò sulla mia mano. Rimasi in attesa, ed ogni momento era buono, di sentire sulla nuca l’umido muso di un cane o una fredda canna d’arma.

Quando aprii gli occhi potevo ancora sentire qualcuno dire “Good Luck”, poi venne sbattuto un piano di caricamento. Poco dopo iniziò a rollare e a dondolare. Sedevo accanto ad altre persone  su di un tavolaccio di legno. Non ci raggiungeva neppure un raggio di luce. C’era puzzo di squallido cesso. Si accesero pile tascabili, il cibo venne tirato fuori ed appoggiato tra le ginocchia. Sui giornali, quelli che avevamo comprato ma che non erano più stati letti. Qualcuno mi mostrò il mio oroscopo, ma ancora una volta me lo scordai subito.

 

(Traduzione: Vito Punzi)

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