Peter Wawerzinek

Nato nel 1954 a Rostock, vive a Berlino. Nel 1978 si trasferisce a Berlino Est per gli studi artistici (interrotti), quindi fa lavori diversi (tra gli altri, becchino e falegname).

 

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Videoritratto

 

TDDl 2010TDDl 2010

 

Peter Wawerzinek

Ti trovo/Amore snaturato

 

Traduzione: Vito Punzi


Ho pensato, quando scrivendo mi faccio un regalo, fuggo dal circolo diabolico del ricordo. Scrivendo ho penetrato in profondità il ricordare più di quanto mi faccia piacere.

 

La neve è la prima cosa di cui mi ricordo. Innevato è l’intero mondo, non ho nulla che mi allieti, l’albero è abbandonato nel campo, ha disseminato da tempo le sue foglie, il vento soffia solo nella notte silente e scuote l’albero, smuove piano la sua cima e parla come in sogno. La nevicata è leggera sul quel luogo. Poi s’intensifica. È così spesso inverno nella mia testa. Nevica così di frequente che durante i miei anni di collegio ci sono stati solo neve, inverno e freddo glaciale. Mi vedo mummificato. Un composto di ghiaccio e moccio s’incolla al naso. Io sono l’eterno bambino invernale tra bambini invernali alle prese con il quotidiano realizzare pupazzi di neve. È novembre. Siedo in un’auto spaziosa, in una limousine nera. Ho quattro anni e sono dentro l’enorme automobile. Il paesaggio presente nei miei ricordi è color bianco neve. L’autista è una silouette scura. Un giorno corredato di una nevicata è il giorno che io ricordo come il primo giorno della mia vita. Un giorno grigio scuro che la mattina cresce rossastro e sembra farsi bello. Un giorno più scuro, ricoperto di nubi, un giorno che si nasconde dietro una copertura di nubi, un giorno che per l’intera giornata non ama mostrarsi come tale, che lascia il terreno alla neve, che da quel cielo grigio turbina tutt’intorno come polvere battuta da una vecchia coperta da cavallo. Quando la lepre nella sua corsa per i campi non può scappare ai porcospini la neve grida a me: sono già qui. Ah inverno amaro, come sei freddo, hai sfrondato il bosco verde, hai appassito i fiorellini, i graziosi fiorellini sono diventati smorti, ci è sfuggito l’usignolo, sfuggito, lui canterà di nuovo.

La settimana scorsa è morta a Schwerin Lea-Sophie, che aveva cinque anni, i suoi genitori l’hanno lasciata morire di fame. Una settimana prima della sua morte l’operatore sociale competente non era stato ligio nel guardare la bambina. Contro l’ufficio della gioventù girano denuncie per omissione di soccorso.

 

Sto andando verso un collegio. Non ho idea di che cosa sarà di me, non so che cosa mi attenda alla fine del viaggio. Siedo dentro una limousine. Domina il principio del giorno. C’è nebbia nel paesaggio. Nella nebbia la quiescente pietra di campo è trasparente. Nella nebbia ogni cosa appare nella natura come immersa in una coppa di cristallo. Nella nebbia la leggerezza diventa più pesante di un pianeta gettato sul piatto della bilancia mondiale. Ciò che non è appariscente va sperimentato interiormente anzitutto in tutta la sua fumosità. La pietra di campo, ignorata in un giorno qualsiasi, grande, stupida, inappariscente e dormiente sul bordo della strada, volge lo sguardo con più precisione, sale più sveglia dalla nebbia, guadagna in dignità. Nella nebbia giace ancora il mondo, sognano ancora il bosco e i prati: quando cade il velo vedi subito lo schietto cielo azzurro e il vivacemente autunnale mondo ovattato fluire nell’ora freddo. Vivere è nebbia e nebbia è vivere. Lette alla rovescia come nel verso giusto le due parole viverenebbia e nebbiavivere desiderano starsene incastonate nell’ora sulla mia tomba. So esserci nebbia intorno a me che con me pensa di far bene.

 

Il campo è a disposizione come una camicia da notte. È come se sentissi chiamare una cornacchia. Da allora adoro le cornacchie. Mi difendo a partire da quel primo, a coscientemente futuro giorno, ossequio indivisibile per le cornacchie e per vapore nebbioso. Parlo di nebbia e cornacchie, quando sono in questione leggerezza e gravità della terra, lo scomparire delle cose nella nebbia. Il mirabile nella nebbia è contemporaneamente liberato dal suo mistero interiore, non c’è più alcuna quotidianità. Il momento più bello è per me nella nebbia, quando gracchiano le cornacchie, senza che le si veda e senza che nella nebbia si sappia a chi si rivolgono. Vidi cornacchie di nebbia. Cornacchie di nebbia devono rimanere i miei uccelli del destino fino alla fine della mia vita. Cornacchie di nebbia mi accompagnano nella vita. Vengo fecondato nella nebbia, generato nella nebbia. Le nubi di nebbia sono il succo amniotico nel quale io sono diventato. Nella nebbia so che si nasconde il padre, di cui nessuno sa. Nella nebbia so che è depositata la madre, che ha dimenticato chi sono io. Io sono un cittadino del mondo strisciato fuori dalla nebbia, non pressato fuori dal tubo uterino della madre.    

 

Nel marzo di quest’anno divenne nota nella Bromskirche, nell’Assia, la morte per stenti di Jaqueline, dell’età di quattordici mesi. La ragazza, con i suoi sei chili, pesava solo la metà degli altri bambini della sua età. Da mesi la bambina non vedeva un medico

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È tardo autunno. Settembre. Ottobre. Novembre. Può essere gennaio, febbraio, giugno, luglio agosto. Solo nel ricordo sembra così maternamente morbido. Scriviamo l’anno 1954. Sono nato. La guerra è finita da nove anni. La guerra non è mai finita, dice la ragione. Le macerie sono state per lo più rimosse e messe in disparte. Dietro il paese, dietro la città, dietro le metropoli, lì dove potevano essere scavate delle buche, le macerie riportate si trasformano in montagne che fanno parte ormai del paesaggio.  Come in tutte le guerre che vengono combattute nel mondo, ininterrottamente, da quando sono in questo mondo. Il patto di Varsavia. Esercito popolare nazionale. Dal ventre consistente in unità di madre, io accasermato in esso. Aspirazione professionale: poliziotto del popolo. Nel ventre dell’Unione Sovietica, che concede a mia madre ampi diritti di sovranità. Abbandonato dalla madre in direzione ovest, rimasto in un asilo infantile, al ventesimo congresso del partito comunista sovietico.

L’auto si chiama tschaika, come gabbiano. A quattro o cinque porte. Non sono più in grado di dirlo. Nasconde una potenza di duecento cavalli, si vanta orgogliosa del suo volante. Velocità massima centosessanta chilometri l’ora, sperimentata in un aeroporto. Una sensazione può dire lui, dice il conducente sbaciucchiandosi nell’immagine specchiata, al punto che produce un rumoroso biascicamento. Mi scorrazzerebbe molto volentieri in giro per tutto il paese, prelevandomi, facendomi salire, disturbando la quiete delle cime degli alberi, mostrandomi le cornacchie suonando loro la marcia dell’aviatore: dritto come un fuso salgo al cielo, volo verso il sole direttamente, sotto di me il brulichio, fischio con rispetto. Hipp, hipp hurra.

Domanda: è vero che il lavoratore stacanovista Iwan Iwanowitsch Iwanow alla mostra dell’Unione di Mosca ha vinto una auto della classe di lusso Seemöwe? Risposta: in linea di massima sì ma non si trattava del lavoratore stacanovista Iwn Iwanowitsch Iwanow ma dell’alcolizzato Pjiotr Pjotorwitsch Petruschkin e non ha vinto alcuna auto della classe di lusso Seemöwe, ma ha rubato una bicicletta.

A causa delle nevicata la neve crepita contro i vetri. Neve novembrina, neve novembrina, gioisce il bambino che al quarto anno della sua vita non parla ad ogni costo, sembra essere rivolto tutto verso se stesso e capisce tutto, recepisce ogni parola ed uno sa anche che, appunto, la neve curiosa ha ascoltato, d’ora in poi il bambino chiuso nel suo silenzio, vuole vedere gli orfani di madre e di padre e salutarli cordialmente.

Nevica nell’abitacolo della limousine della mia infanzia. La neve cade all’interno come all’esterno. La mia vita non conosce altra stagione che non sia l’inverno. Durante l’intero anno dominavano l’inverno anticipato, l’inverno e la coda dell’inverno. Gli anni se ne stanno come pupazzi di neve in fila vestiti di null’altro che pentole bucherellate sulle loro teste e rape sui visi, lì dove dovrebbero esserci i nasi. E la nebbia mi circonda eternamente. Anni di nebbia neve. Giorni di neve nebbia mi danno la statura. Mi sollevo fino ad allucinazioni. A me non è mai stata aperta da uno chauffeur la portiera di una limousine. Molte porte rimasero chiuse al venuto, vietate al bambino. Mi vedo preso per mano, nel cantuccio posteriore; in spazi senza fulgore. Vita quotidiana e ritmo. Raccogliere e afferrare le mani. Avvicinarsi, allontanarsi, fermarsi, fare moto da fermo, a sinistra, a destra, tre passi avanti, due di lato, sciogliere le mani l’una dall’altra, dietro la sedia afferrare la spalliera con entrambe le mani, smettere di parlare, non sghignazzare, andare tranquilli alla sedia, non correre, sedersi al proprio posto, guardare in avanti, nel proprio piatto, usare anzitutto il cucchiaio ed iniziare a mangiare, quando questo viene indicato. Mangiare da bravi tutto quello che c’è nel piatto. Rimanere seduti fin quando anche l’ultimo avrà finito. Dire le formule di ringraziamento. Mettersi in fila, rompere le righe, andare in camera, essere pronti con il letto fatto, addormentarsi al comando, dopo la sveglia andare alla toilette. Non starsene tutti contemporaneamente davanti allo stesso lavandino. Tornare e pettinare i capelli. In tre minuti essere nel corridoio.

Per sapere che cosa mi accadeva passo attraverso barriere ermetiche in strutture sicure, per essere sicuro dei miei ricordi, per ottenere prova, quando non è dimostrabile la traccia d’oro nei locali vietati e manca l’affezione, non c’è affezione e neppure uno spazio personale per decenni, fino al tempo attuale. Tu rimani davanti ai cancelli del ricordo, davanti a porte chiuse, davanti a portoni di impossibilità, perché la quotidianità era tran tran e prescrizione. Tu hai funzionato, hai assolto i lavoro di bricolage in gruppo negli annunciati tempi liberi, fino a quando il tuo domicilio è stato una busta munita di una liscia ceralacca. Fino a quando non era passata la detenzione.

Pensa di ricordarsi del tempo, finito su lastre di marciapiede disposte con discrezione, superare gli anni dell’isolamento, spalancare finalmente, scrivendo, i non superati portoni, cancelli, barriere e porte ed entrare nella vera identità. Entra nel duomo, attraverso lo splendido portale, entra, ogni pazzo giorno, entra, con le tue scarpe impolverate, entra, per calmarti un paio di minuti, entra nel duomo, piccolo uomo, entra, lì ti avvolge il silenzio, ogni pupilla si dilata, ogni pupilla diviene enorme e rifulge nei colori delle finestre. Si dilata ogni petto, lì si respira la grandezza, la grandezza viene lì respirata. E canta un coro: la dimora l’hanno costruita uomini, a, a, per insegnare ai passi il procedere, per onorare la grandezza dell’uomo.   

 

Celestine sopporta solo con fatica i mercati degli artigiani. Quando la dodicenne berlinese era un paio di mesi fa in un magazzino Bauhaus vide appoggiato sulle lunghe scaffalature un nastro adesivo di color argento, e dovette abbandonare subito l’edificio. Il nastro adesivo le ricordò il suo martirio, quello cui a mala pena un tempo è sopravvissuta. Poiché lei era molto chiassosa i suoi genitori, per settimane o forse ancor più a lungo, le avevano tappato la bocca con un nastro analogo. C’era solo un piccolo foro che le permetteva di respirare.

 

La ragione maledice come presunzione l’immagine da me ricordata di essere stato portato in una grande auto di lusso. Tredici anni dopo la fine della guerra non c’è alcun cliente di quattro anni che possa essere condotto con dignità lussuriosa da un asilo infantile alla successiva scuola materna. Tuttavia io non voglio togliermi dalla testa questa fantasia. Non voglio, come l’orfanella silenziosa, essere stato portato a scuola su di una piccola moto scoppiettante, stretto dietro quell’uomo dal cappotto in pelle. Non sono stato scarrozzato su nessuna motocicletta. Io viaggio in limousine. Sono un orfano. La moto è sostituita dalla limousine. Il ricordo ritocca. Cocciuto contraddico la ragione. Cocciuto insisto sulla limousine cabrio dotata di sei o tredici porte sotto, per causa mia, un tettuccio automatico che si apre e si chiude a piacimento, sebbene nulla si sappia di un tettuccio apribile in relazione con la Seemöwe costruita in Unione Sovietica. Ogni volta che ne provo piacere siedo nel sedile posteriore. Ogni volta che voglio apro e chiudo il tettuccio, così che la cara neve mi trova e fiocca e può impazzare con me sul sedile posteriore. Io avanzo con i miei ricordi contro qualsiasi ragione interiore. Il pio desiderio mi permette, contro ogni ragionevolezza, come piccolo di quattro anni, all’inizio del viaggio nel ricordo, nella pretenziosa limousine. Non amo essere scarrozzato fino all’asilo con un mezzo di trasporto collettivo, con un’ambulanza o con un carro bestiame, e non amo neppure esserci trasportato con un banale torpedone.

 

Se ringrazio per qualcosa la cara mamma è per il sentimento che provo per la neve, che io amo chiamare la mia sensibilità nevosa. Si trattava di una mamma che aveva quattro figli, la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno, la primavera porta fiori, l’estate il trifoglio, l’autunno l’uva, l’inverno la neve. Siedo alla finestra e guardo il giardino del mio primo asilo, dove da giorni cade neve da ogni nuvola, dove neve si posa su altra neve e si vedono piccoli uccelli non trovare cibo, raccogliersi tutt’intorno al nido, cibarsi di semi di girasole in una pentola di strutto che io ho lasciato lì fuori sotto gli occhi vigili della cuoca di nome signora Blume e che ho messo nel vaso di fiori, provvisto di semi di girasole.

Sulla scrivania, scoppiato come una bolla di sapone sul lavoro scritto, il sogno della mia limousine, come tutti i bei sogni di un’esistenza più bella dover scoppiare prorogato alla verità, attorno al nostro globo terrestre, non importa quanto spesso e quanto fermamente sognato dagli uomini nella disperazione.

Arrivo a destinazione. Consegnato come una merce, sarò portato davanti all’asilo che io sperimento come un palcoscenico. Non importa da quale parte mi catapulto nei miei primi anni, cade la neve e i mattoni in laterizio della casa sono rossi come il sangue.

 

Il sipario si apre sul piccolo palcoscenico sul quale inizia a nevicare. Color rosso sangue è il palcoscenico avvolto da una splendida stoffa. Quando guardai nello squarciato ventre della madre, la cavità della madre. L’uomo col cappotto in pelle va avanti. Sento il suono del suo veicolo da dietro il palcoscenico. Il rumore nel corso dei decenni s’è trasformato a poco a poco da quello di una moto a quello di una limousine. Una scala in pietra con tre scalini, sulla quale si trovano tre donne in bianco viene spostata da tre forzuti lavoratori del teatro davanti alla facciata della casa. L’imponente uomo dal cappotto in pelle, ricoperto fino ai polpacci da una pesante pelle, entra e si tira dietro quel piccolo bambino di quattro anni che sono io. Vengo portato dall’uomo col cappotto in pelle davanti all’asilo, di fronte al quale mi trovo di nuovo, solo dopo trentatre anni, curioso ed esterrefatto, appena pochi mesi dopo la caduta del Muro a Berlino. Cammino tenendo per mano l’uomo col cappotto in pelle, che è come una montagna la cui sommità, per quanto mi sforzi di contorcere il mio collo, non vedo. Mi trascina, mi traina come fossi legato ad una corda, senza usare mai un campanello. Gli viene aperta la porta prima che arriviamo sulla scala.

L’uomo col cappotto in pelle augura alle donne una buona giornata. Non voglio dover vedere. Mi comprimo dietro l’uomo con il cappotto in pelle, il quale brandisce un astuccio dove si trovano tabacco e carta, e con quelli si fa con cura una sigaretta. D’un colore bianco neve questa se ne sta nella mano dell’uomo con il cappotto in pelle. D’un colore bianco neve arde tra le sua dita mentre lui gesticola con il braccio. Tutto questo lo vedo e non lo vedo, sebbene io di tutto non veda quasi nulla. Marzo, il mese di Giuseppe, dice l’uomo, espellendo fumo insieme alle sua parole. Fumo che in forma di flusso turbolento sale fino sopra l’uomo senza testa con un movimento increspato, diventa instabile sulla gobba delle spalle e scompare nella foschia del giorno. Il giorno di Gregorio la rondine arriva attraverso il porto di mare. Il giorno di Benedetto lei cerca un proprio luogo nella casa. Il giorno di Bartolomeo è ripartita. Antiche regole contadine, dice l’uomo che fuma, dice che il diciannove del mese si deve uscire ad osservare il cielo. Se è limpido rimarrà così per tutto anno.

La donna corpulenta annuisce: se lo dice Lei. Non si è ancora mai sbagliata. L’uomo manda sbuffate di fumo e parla e manda sbuffate di fumo. La sigaretta non smette di emettere fumo. Le educatrici ridono compiaciute. Vogliono prendere in consegna il bambino del giorno. Quel moccioso me lo prendo io. Dice l’uomo con il cappotto in pelle. Si agita dietro di sé, ma nel vuoto, perché mi sottraggo al suo tentativo di afferrarmi schivando la sua mano sgraziata. Non posso dissolvermi nell’aria. Non mi riesce di arrampicarmi sul cappotto, che sembra essere fatto con materiale ruvido riottoso. Non riesco ad afferrare neppure uno spacco. Non posso rintanarmi da nessuna parte.

Smetti di nasconderti. Eccoti qua, che razza di fustacchietto. Con la sicurezza di presa dell’uomo che acciuffa per le branchie un merluzzo che si dibatte, l’uomo con il cappotto mi afferra a tradimento al secondo tentativo, mi spinge in avanti, presenta il frutto della pesca alle educatrici che sbalordite battono le loro mani sulle guance e con un’unica voce esclamano: non questo, per carità, non lui. Congedano l’uomo che fuma nella maniera più rapida possibile. Il bambino viene condotto nel suo nuovo regno. Un asilo profumato. Questo il bambino lo sente immediatamente. Sono esile. Incredibilmente ritardato, mi rimprovera la direttrice dell’asilo. Sono ritardato, pensa il bambino, e quello sono io.

La notizia secondo la quale è stato portato all’asilo un ritardato richiama personale per vedere il nuovo arrivato, che si pone al centro del malcelato interesse: trovo che la testa non sia proporzionata al resto del corpo. Dio, guardate i piedi. Che braccine sottili. Le sue orecchie le trovo belle. Guarda! Le costole. Le educatrici mi sono davanti con le teste piegate di sbieco. Dalle loro teste piegate mi guardano dall’alto in basso e dal basso all’alto. Mi sollevano. Com’è leggero. Come una piuma; sul suo braccio si sente appena qualcosa.

La testa sul mio collo è evidentemente troppo grossa. Il corpo rispetto alla testa è striminzito e segaligno. Mi chiamano ragno. A causa delle braccia e delle gambe così sottili mi chiamano mantide religiosa. Vengo infilato nella vasca e sfregato con una ruvida spazzola. Mi viene soffiato dentro le orecchie. Mi vengono tagliati i capelli e le unghie. Arriva il dottore. I capelli li tagliano a zero. Vogliono farmi prendere paura per il dottore, il quale veste un camice d’innocenza bianco come la neve. Altri bambini gridano affinché il dottore si tolga il camice. In me il camice bianco non provoca alcuna paura: sei abituato al camice?

Mi afferrano il braccio destro all’altezza del polso. Pronunciano la parola madre. Mi sentono il polso. Non accelera, resta costante quando loro pronunciano la parola madre. La parola madre rappresenta un concetto che non eccita la mia persona. Quella parola attraversa la mia testa volando, come una freccia che percorra un vuoto padiglione. Con le parole prato, spiaggia, palla, casa so fare più connessioni. Prato significa gioco e ronzio d’api, pranzo all’aperto.

La lista di ciò che è assolutamente esigibile è lunga. Sono nudo davanti al dottore. Il dottore mi chiede di respirare energicamente a pieni polmoni, di conservare l’aria nei miei polmoni. Il dottore tasta le mie vertebre cervicali una dopo l’altra, scende lungo la colonna vertebrale fino ai glutei, con dita aguzze lungo il femore interno. Sente i miei polpacci, le caviglie, preme sullo stomaco, cerca di arrivare con i polpastrelli dietro alle mie costole, fa pressione con i palmi delle sue mani su entrambe le cavità delle mie clavicole. Devo divaricare le dita dei piedi. Piego la testa, allungo il collo, sto in posizione retta, poi ricurva, sento le mie articolazioni crocchiare, sono abituato a simili procedure, non mi lamento, faccio come mi suggeriscono, osservo il dottore, guardo le donne dall’alto in basso, le loro camicie, i fermagli, le dita, le mani, le gonne, le cinte, le rughe, le anche, i busti, le punte dei capelli o delle scarpe. Qui fa male? Scuoto la testa. Fa male qui? Scuoto la testa. E qui fa male? Ad ogni domanda scuoto la testa. Vedo il dottore guardare dubbioso, allontanarsi subitaneamente. Parla con tono basso. Le educatrici mi squadrano, osservano il dottore prima di fare in contemporanea un cenno di consenso. Un’educatrice si soffia il naso nel suo fazzoletto e se ne va. Il dottore comunica il proprio referto e suggerisce le tattiche. Significa che durerà tre anni. Il tempo passa rapidamente. Dal ritardato dev’essere formato un non ritardato, prima che possa andare alle elementari. Si avvicina la direttrice dell’asilo: Non ti piace parlare? Va bene. Con nessuno? Io sono Bani. Puoi chiamarmi Bani. Preferisci tacere? Qualche volta è meglio tacere. Il pesce nell’acquario, senti, neppure lui parla molto.

 

Come organi d’articolazione o strumenti per parlare vengono indicate parti del corpo che sono chiamate in causa per la produzione della lingua parlata. Il naso. Il palato. La lingua. La faringe. L’epiglottide. La laringe con le pieghe delle corde vocali o corde vocali. La trachea. I polmoni con il diaframma. La loro disposizione nel corpo umano è significativa. Se la laringe di un cane fosse nella stessa posizione in cui si trova nell’uomo l’animale potrebbe produrre suoni simili. I suoni sono onde sonore. Per produrre onde sonore i polmoni mettono un circolazione una corrente d’aria. I suoni vengono prodotti mentre l’aria viene spinta dal polmone attraverso la laringe nello strato superiore dell’articolazione (bocca, naso, faringe). Questa corrente d’aria viene chiamata egressiva. La corrente d’aria egressiva viene scaricata in vibrazioni. Le vibrazioni hanno origine nella laringe. La cartilagine orienta le vibrazioni delle corde vocali. Lo spazio libero tra le corde vocali viene chiamato glottide. Corde vocali e glottide diventano fonazione, altezza della sonorità e tono della voce. Suoni fonici, vocali e consonanti come [m], [b], [d] si producono quando la glottide è ridotta ad una fessura e le corde vocali vibrano. Ad eccezione della [n], della [m] e della [ŋ] in tedesco tutte le consonanti e le vocali sono suoni orali. Il palato molle viene abbassato. L’aria viene fatta uscire attraverso la bocca e il naso. Vengono prodotte vocali nasali. Il palato molle viene abbassato. La bocca è chiusa. L’aria filtra attraverso il naso. Si formano le consonanti nasali [n] e [m]. Le labbra si sovrappongono, [m] e [n] possono essere manipolate. Quando le labbra si aprono [u] e [o] producono le parole Uhr (orologio) e Ort (luogo). La mandibola dirige le labbra. La lingua è un’articolazione mobile. Si può spingere la lingua in avanti o verso l’alto, per la [i] la lingua viene compressa all’indietro, per la [u] viene sollevata leggermente, se l’uomo spinge la lingua all’indietro e in basso vuol dire [a]. Un sintomo caratteristico dello star bene di un lattante è il suo balbettare. Il lattante balbetta per un gioco fine a se stesso. La ripetizione infinita di singole sillabe, le cui modulazioni libere producono meravigliosi monologhi che si ripercuotono sugli organi d’articolazione, sono un allenamento, affilano. Il bambino è l’educatore linguistico di se stesso.