Anne Richter, D
Nata nel 1973 a Jena, vive a Heidelberg. Studi di romanistica e anglistica a Jena, Oxford e Bologna.
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Geschwister
© 2011 Anne Richter
Traduzione: Vito Punzi
Fratelli
“Occupati di nostro padre”, sussurrò Ruth, “io abito troppo lontano e non posso farlo”.
Lei batté alcune volte con le punte dei piedi per terra, come se volesse levare qualcosa della terra. Indecisa se dovesse restare accanto a suo fratello, osservò il suo volto di profilo, sembrava quello di uno straniero di bell’aspetto sul quale, se lui avesse sorriso, a lei forse sarebbe saltato agli occhi qualcosa di familiare. Fred fece un cenno guardando in un’altra direzione. Sembrava che gli anni passati l’avessero invecchiato.
Era una giornata molto limpida, con un cielo quasi estivo, in lontananza si delineavano scure conifere, boschi che in inverno avevano qualcosa di fiabesco, ora, in primavera, Ruth vedeva le cime strette l’una accanto all’altra, piccole frecce rivolte contro il cielo. Sotto, dietro la recinzione del cimitero, crescevano prati e fiori selvatici, gialli, viola, rosa chiaro.
Gli ospiti nel frattempo avevano lasciato il salone funebre e si stavano raccogliendo in piccoli gruppi sui due lati del sentiero non lastricato, quello che portava dall’ingresso del salone al cancello del cimitero. Davanti al cancello uno dei dipendenti dell’istituto di inumazione aprì la portiera posteriore dell’auto, era tozzo e pallido, e con la manica della giacca si strofinò la fronte e la gola. L’altro posò l’urna nell’auto, poi andò a sedersi sul sedile del passeggero, il primo chiuse la porta, nessuno degli ospiti voltò la testa.
Da quando Ruth, anni prima, se n’era andata dalla Turingia aveva visto Fred solo di tanto in tanto e alla cena della vigilia di Natale aveva scambiato con lui poche e stranamente confuse parole.
Da ultimo si erano incontrati nello stesso luogo di oggi, sei mesi fa, per la sepoltura della loro nonna. E proprio come oggi, dopo il rito funebre, l’auto dell’impresa d’inumazione, che era stata fatta partire da davanti il cancello, aveva proceduto in direzione dell’altro cimitero, quello posizionato al termine della cittadina, dove l’urna doveva essere sepolta.
Passando accanto a Fred, suo padre e alla moglie di suo zio Ruth arrivò al cancello e da lì seguì lentamente la vettura. Nei balconetti dei blocchi abitativi c’erano fiorenti gerani rossi e gialle viole del pensiero, che rifulgevano vivaci davanti alla facciata. A destra lei notò un piccolo distributore di benzina che in novembre, quand’era caduta la neve, lei non aveva notato, sebbene avesse percorso la stessa strada, l’unica di certe dimensioni in quella località, una strada che non solo conduceva al paese successivo, piuttosto univa tra loro tutte le località di questo territorio di medie montagne. Questo era l’ambiente di sua nonna, di suo padre, di suo zio, il padre era andato via, il fratello più giovane Uwe era rimasto. All’inizio continuò a vivere nel paese, poi cercò lavoro nella cittadina che era possibile raggiungere con meno di una mezzora di bus, sposandosi presto; sua moglie ebbe un figlio, Steffen, e subito dopo abbandonò Uwe per trasferirsi nella Germania occidentale.
In seguito lui sposò Luise, originaria di un altro paese della zona. All’incirca nello stesso periodo sua madre si separò dal padre.
Negli anni in cui Uwe visse da solo con suo figlio visitò occasionalmente suo fratello e durante quelle visite venne ospitato nella camera dei bambini, dormiva nel letto di Fred o di Ruth, fatto questo che a Ruth, con il senno di poi, sembrava una mostruosità. La sua camicia da notte – ancora da bambini, slavata, non stirata –, le sue esalazioni d’alcool, la sua nausea e la sua convinzione che fosse impossibile gattonare nell’oscurità accanto al suo letto fino alla finestra ed aprirla, la sua paura ed il suo russare, che lei spesso stava ad ascoltare per minuti, attendendo un momento sufficientemente lungo d’interruzione per rimettersi a dormire – mentre stava camminando in direzione dell’altro cimitero le venne in mente tutto questo.
Giunta all’ingresso, lei attraversò il cancello e si avvicinò con passo sostenuto alla tomba di sua nonna, sulla cui lapide era già stato inciso il nome di suo zio.
*
La sera di novembre doveva essere accaduta circa venti anni fa. Prima di andarsene a dormire Ruth aveva gettato uno sguardo sui due uomini seduti a tavolo del soggiorno. Davanti a suo padre, che raramente beveva birra, c’erano due bottiglie vuote, dalla parte di Uwe ce n’erano cinque. Suo padre sedeva piegato in avanti e rideva, di Uwe Ruth riconobbe solo l’occipite, singoli capelli grigi, sudore sulla nuca carnosa, ciocche che sembravano incollate. Il padre toccò un avambraccio di Uwe e raccontò qualcosa relativo a una tavoletta di cioccolata rubata che lui aveva condiviso con lui, su di un pendio erboso in primavera, chiedendogli se se ne ricordava. Uwe si mise a ridere: la situazione per lui si era messa male quando vide la madre nel campo che gli andava incontro, impaurito aveva guardato le sue dita, la pelle secca e ruvida. Una madre del genere, un vero inferno. Il padre ritirò la mano e ribatté brusco: “Una cosa del genere non si dice.”
Ruth aveva già dormito quando sentì un ruggito, il vagito a lei noto della rabbia paterna, mischiato con brevi, veementi frasi a lei sconosciute. Il letto di Fred era vuoto, ma lei sapeva che lui quella notte avrebbe dormito nella camera dei genitori. Lei si mise in ascolto della voci e cercò di capire le parole. Echeggiavano rumori più chiari, tintinnanti, un grido, un secondo. Scese dal letto e s’appoggiò allo stipite della porta. Vide della schiuma sulla tovaglia, macchie che si stavano dilatando, un collo di bottiglia a margini acuti, cocci marroni, una lunga ferita in forma di taglio sulla guancia di suo zio, che con un portamento tranquillo e assente se ne stava in piedi al centro della stanza e sotto il lato sinistro del mento teneva premuto un fazzoletto, che s’inzuppava sempre più, finché il sangue non iniziò a gocciolare sul tappeto. Uwe si sforzava di raccogliere il sangue con la superficie della mano. Quando se la passò meccanicamente sulla guancia s’imbrattò la pelle e solo allora Ruth si chiese perché non si sbrigasse, perché non andasse in bagno, perché se ne stesse in silenzio invece di chiamare un dottore. L’odore di birra riempiva la stanza, il padre se ne stava seduto immobile al tavolo.
Poi qualcuno l’afferrò ad un braccio, volendo trascinarla via. La mamma, pensò lei, ma in realtà si trattava di Fred. Appoggiò le mani davanti agli occhi di lei, come fosse una cieca, e la trascinò lentamente all’indietro, fuori della porta. Quando tolse le mani il padre premeva il suo viso sui cocci.
*
Il piazzato impiegato dell’istituto d’inumazione s’accasciò e depose l’urna nella piccola cavità quadrata. Le sue mani pallide avevano avuto in inverno una tonalità tra il rosso e il blu. Alzatosi, incrociò gli avambracci dietro la schiena, tenendo comunque lo sguardo fisso sulle due urne.
I convitati alla cerimonia funebre, raccolti in ampio semicerchio attorno alla tomba, iniziarono a disporsi in fila. Ruth s’aggregò collocandosi in coda alla fila. Stette a guardare come gli altri passavano a mano a mano davanti alla tomba, fermandosi per alcuni secondi lì davanti. Tra lei e suo padre c’erano due persone e quando lui fu vicino alla tomba e vi guardò all’interno, cominciarono a tremare prima le sue mani, poi tutto il suo corpo. Le ferite che si stavano rimarginando lentamente, successivamente le cicatrici sul suo viso. Un disperato scoppio di riso al telefono settimane dopo il litigio, quando lui disse a suo fratello, ho perso la faccia, e tu? E mesi dopo, mesi nei quali il suo risentimento era costantemente cresciuto, la visita impensata di Uwe, al cui ultimo giorno il padre aveva posato di nuovo velleitariamente la mano sull’avambraccio, l’osservazione che allora aveva irritato Ruth.
Sebbene non pregasse mai, Ruth piegò le mani, premette i polpacci tra loro seguendo contemporaneamente i movimenti di suo padre. Lei temeva che lui potesse perdere il controllo di sé, ma dopo che se n’era stato per alcuni istanti in piedi in silenzio, come se non sapesse bene cosa fare, afferrò il badile di latta, lo tenne un poco sospeso in aria, lo infilò nel vaso con la terra, prese un po’ di quella e infine la lasciò cadere sulla tomba.
Sebbene Ruth, come prima da Fred, vedesse solo il suo viso di profilo, nei suoi tratti era così chiara un’espressione d’inutilità che lei si chiese come avrebbe potuto essere il viso di suo padre dopo la rappacificazione, certo apparve quanto sarebbero stati inutili gesti postumi.
Sorretto da uno scuro supporto in metallo, un secondo contenitore era appeso accanto al vaso con la terra. Il padre si piegò in avanti, immergendo la mano nella ciotola, piena di freschi, profumati petali di rose e ne cosparse una manciata sulla tomba. Mentre si stava dirigendo a capo chino verso la fine della fila Fred si staccò dal resto delle persone, si avvicinò a lui e l’abbracciò, senza stringerlo a sé. Ruth pensò tutt’a un tratto che i due una volta, per un certo periodo, avevano avuto lo stesso colore dei capelli.
Molto tempo prima, al tempo delle visite di suo zio, Fred era biondo e lei aveva i capelli corti, per l’età che aveva era alta e tuttavia era stata sempre molto più bassa di lui. Lui l’aveva battuta nello sci di fondo, negli scacchi e nel tennis da tavolo, cui loro giocavano occasionalmente in colonia e un tempo anche a casa, quando i suoi genitori avevano risistemato il piccolo appartamento di quattro camere ed avevano sistemato la tavola da pranzo al centro della stanza dei bambini, perché il soggiorno doveva essere ripitturato. Vecchi giornali e teloni di plastica ricoprivano il pavimento, contenitori di colori e pennelli per dipingere formavano il nuovo e singolare inventario della stanza, la cui porta di vetro restava quasi ininterrottamente aperta, permettendo così all’odore dei colori di invadere l’intero appartamento.
In un primo momento il tavolo nella stanza dei bambini risultò inutile, un giorno tuttavia Fred prese due racchette per il tennis da tavolo dalla cassa che conteneva i giocattoli, tirò una riga al centro con del gesso bianco e, con la mano tesa in orizzontale nell’aria, stabilì con voce autorevole un’altezza al di sotto della quale la palla non sarebbe potuta andare. Gettò a Ruth una delle due racchette. Cominciarono a giocare ed era Fred a decidere quando la balla fosse andata in rete, mentre Ruth faceva ogni sforzo per colpi decisi e mirati. Lei sentì il suo braccio rattrappito, la bocca asciutta e tuttavia una rara energia, un piacere nel combattere.
Dopo la terza partita Fred le sorrise trionfante, si gettò sul tavolo appoggiandosi su entrambe le mani e si sedette. Gettò in aria la racchetta in aria e la riafferrò; Ruth restò ferma al suo fianco e batté più volte il bordo della racchetta contro ripiano in legno. I suoi colpi presero ritmo, divennero sempre più forti.
“Lascia, è la mia racchetta!”, disse Fred.
Ruth lo guardò, ora era lei a trionfare. Cantare una canzone, apparentemente felice, una marcia tra armadi, letti e giocattoli sparsi in giro, i modellini d’auto di Fred, i suoi puzzle e i suoi animali di stoffa, i loro comuni pezzi di scacchi, sparsi disordinatamente sul pavimento, neri e bianchi mischiati tra loro, alcuni sotto il tavolo, altri tra loro in mezzo ai loro fogli da disegno spiegazzati. Lei cambiò il tono, superficie piatta, lato stretto, superficie piatta, voltò la racchetta e dondolò il manico contro il legno. Lui venne fulmineamente strappato da lei, la musica nella sua testa s’interruppe e Fred batté con la superficie piatta sulle sue costole. Lei sussultò, si contorse, il dolore le fece afferrare la racchetta, per un momento se la contesero, tirando ciascuno nella direzione opposta a quella dell’altro, ma come d’abitudine Fred era più forte e corse con entrambe le racchette lungo il corridoio fino al soggiorno, chiuse svelto la porta di vetro dietro di sé e contro quella premette il proprio corpo dall’interno. Ruth si spinse dal corridoio contro la porta, premendo il pomello verso il basso. “Apri la porta!”, gridò, mentre nel corridoio echeggiava la risata di Fred. Lui si era voltato e fregava il suo sedere sulla lastra di vetro, senza smettere di ridere, al punto che Ruth inviperita sollevò un piede nudo e con quello colpì il vetro. Fred ebbe un sussulto temporaneo all’indietro e lanciò un grido smorzato, poi spalancò la porta e si piegò davanti a Ruth, che era caduta a terra ed avvinghiava il suo piede con le dita. Fred la sollevò energicamente, “In bagno, veloce!”, e “Prendo un cantuccio di pane, devi mangiare, così si riforma il sangue!”
Quando Ruth si diresse saltellando verso il bagno, il sangue lasciò una traccia sottile ben visibile; arrivata in bagno si sedette sul bordo della vasca. Sotto il suo piede si formò una pozza.
Ruth rimase seduta in silenzio, poi entrò Fred e le rimboccò i pantaloncini d’allenamento fin sopra le ginocchia. Lei aveva appoggiato il suo piede in modo che il suo calcagno premesse contro la base della vasca e le dita del piede fossero rivolte verso il soffitto.
Un rigagnolo trapelò in direzione del foro di scolo, Ruth contrasse le mani attorno al bordo della vasca e pensò ai suoi genitori. Lei si accorse di quanto dolcemente Fred allentò la presa della sua mano dal bordo, ficcandovi dentro qualcosa e portando la mano fino alla bocca; poi lei senti di nuovo: “…in questo modo il sangue si riforma!” e morse il pezzo di pane, che era secco e duro e che quanto più lo masticava tanto più sapeva di dolce. Lei mordeva e mordeva, mentre Fred le lavava il piede con la doccia, lo accarezzava con acqua calda, le gocce che volevano cadere dal suo piede si trasformavano in un rosso flusso acquoso, temporaneamente, finché lei non avesse finito di mangiare il tozzo di pane.
*
Quando Ruth fu in piedi davanti alla tomba le risultò piuttosto facile gettarvi sopra della terra. Al tatto I petali delle rose erano morbidi. Lei restò per un istante in piedi al suo posto, come prima avevano fatto gli altri, e guardò la pietra, i nomi della nonna e dello zio, prima di allontanarsi con passi rapidi, posizionandosi di lato rispetto alle persone, con le spalle davanti alla tomba di uno che non conosceva. Gli ormai inutili fumaioli della fabbrica di porcellana, che superavano perfino gli alberi più alti e che si vedevano in lontananza sembravano accordarsi bene con il silenzio del cimitero.
Pochi anni prima che la nonna si trasferisse dal paese nell’ospizio della piccola città, in una delle sue visite Ruth aveva incontrato nella casa della nonna anche Uwe e suo figlio e li aveva sentiti litigare proprio su quei fumaioli, cioè se fosse una fortuna o una sfortuna il fatto che da quelli non uscisse più fumo. La nonna, mentre quelli litigavano, in silenzio aveva lavato le stoviglie e Ruth poté vedere non solo che i suoi movimenti circolari con gli stracci erano più lenti del solito, ma anche che poggiava i piatti, le tazze e i sottotazza con una tale cautela che sembrava si trattasse di piccoli animali la cui vita non voleva mettere in pericolo.
Dopo la sepoltura della nonna per la prima volta Ruth parlò di nuovo, dopo anni, con Uwe. I parenti stretti si ritrovarono davanti ad uno dei giallognoli nuovi blocchi edilizi disposti a schiera e da poco costruiti, restarono per un po’ nella zona dell’ingresso che era stata liberata dalla neve ed infine salirono gli scalini fino al quarto piano. Ruth osservò il piccolo ed ordinato appartamento di tre stanze dove vivevano Luise ed Uwe, le figure di porcellana dietro le ante di vetro dell’armadio a parete, altre che si trovavano sul televisore e che certo rendevano faticosa la rimozione della polvere, per contro c’erano un liscio divano in pelle, un tavolo in legno non particolarmente lavorato ed una cucina senza porta confinante direttamente con il soggiorno. Ruth non vide neppure una foto della nonna.
Gli ospiti del rito funebre si sistemarono tra il sofà ed il tavolo, Luise servì dei dolci, versò del caffé e mentre Ruth mangiava e bevevo guardava fuori, giù verso la valle, i rami degli alberi carichi di neve ed una costruzione allungata a forma di parallelepipedo con annesse delle ciminiere: si trattava della fabbrica di porcellana. Le fitte sequenze di finestre della fabbrica sembrava fossero intatte, solo l’intonaco chiaro mostrava tracce di graffiti, e Ruth si chiese chi, in una piccola città come quella, dove i giovani erano quasi del tutto assenti, avesse potuto spruzzare su quelle pareti.
Uwe e Luise avevano lavorato in quella fabbrica, per quanto solo lei padroneggiasse le tecniche lì in uso – la tornitura, il fondere, il pressare, il cuocere e lo smaltare -, perché Uwe in realtà era stato impiegato nell’amministrazione.
Qualcuno sbatté contro la sua tazza del caffé, se ne produsse un suono tintinnante di materiale frangibile, un segno di vita in un luogo di morte. Ruth percorse con l’indice il delicato disegno che ornava il suo piatto, fiori blu, pallidi, semplici e simili tra loro. Sulla tazza c’era lo stesso disegno.
Lei sentì Uwe dire di essere in mutua e che Luise avrebbe dovuto assumere il suo posto nella nuova ditta. Lui sedeva con le spalle alla cucina nella quale c’era Luise che sfaccendava, i suoi capelli erano d’un color grigio chiaro, la pelle della mani era crepata e il suo viso aveva un’espressione battagliera.
La nonna era stata sempre ragionevole, anche quando le era stato proposto di trasferirsi in ospizio. Ragionevole e forte – e comunque lui era contento che nessuno le avesse raccontato del suo tumore all’intestino.
Lui parlò con un tono che non era né vergognoso, né gravido di significato, piuttosto come un uomo che aveva imparato a parlare dei propri problemi con tono appropriato. Ruth lo ascoltò e gli fece un cenno, e d’improvviso le sembrò facile, con sguardo indirizzato sulle energiche spalle di Luise, chiedere circa i dettagli della terapia intentata. Nove chemioterapie, con un intervallo di due settimane l’una dall’altra. Suonò del tutto naturale, come se lui stesse parlando delle pietanze che sarebbero state servite il giorno dopo per pranzo, oppure di un progetto di vacanza.
“Chiedo a Steffen se mi aiuterà la sera”, disse Luise.
“Che ditta è?”, chiese Ruth.
“Componenti per computer”, rispose Luise. Dopo poco aggiunse: “Quelli ricevono poi gli americani. L’edificio si trova nella località vicina. Parti minuscole ci arrivano dall’altra, le assembliamo e le spediamo oltre oceano. Ed ogni sei mesi riceviamo un’offerta speciale per una nuova apparecchiatura.”
“E dove vive tuo figlio?”, chiese Ruth a suo zio.
“Accanto alla ditta”, ribatté Luise. “ma è senza lavoro.”
Uwe disse: “I pezzi avrebbe potuto assemblarli anche la mamma, sebbene fosse cieca.”
Ruth si alzò per aiutare Luise a togliere di mezzo il vasellame e nel mentre le cadde lo sguardo su suo padre, il quale nel frattempo stava squadrando suo fratello.
*
La cerimonia era terminata, gli impiegati dell’istituto d’inumazione cominciarono a riempire di terra la tomba con le pale. Esitante, Ruth tornò verso il gruppo e s’infilò tra Fred e suo padre. Ciascuno per proprio conto, gli ospiti si diressero verso il cancello; poiché non ci fu una conclusione formale, alcuni di loro si guardarono attorno con irritazione e perplessi. Luise era in piedi vicino alla fossa e guardava fissa verso il basso, dove la terra spalata stava pian piano ricoprendo i petali.
Senza essersi accordati, Ruth, Fred e il loro padre si misero in movimento. A Ruth sembrò come se il paesaggio che aveva attorno la proteggesse e senza consolazione, e notò come gli alberi continuassero a crescere fitti e che i colori dei loro tronchi, in confronto a com’erano prima, quando lei era ancora una bambina, visti da lontano sembravano non essere per nulla diversi.
Arrivati al cancello del cimitero il padre disse che nelle ultime settimane si era sentito spesso al telefono con Luise.
La chemioterapia l’aveva iniziata poco tempo dopo la sepoltura della nonna, proseguì con voce ovattata.
Di regola era Luise a portare Uwe nella clinica della città più vicina, la prima che si trovava al di là del confine di allora. Ogni volta lui tornava a casa più sfinito della volta precedente. Non appena lui si era un po’ ripreso, ripartivano nuovamente per andare a prendere la sua dose. Dopo il quarto soggiorno di tre giorni gli venne all’improvviso la febbre, gli vennero le vertigini, dovette riposarsi sul sedile posteriore e quando furono quasi arrivati a casa disse a sua moglie: “Portami di nuovo là, devo parlare con la dottoressa.” Luise svoltò subito, Uwe non riusciva a dormire perché aveva la febbre troppo alta; la sua testa era rossa, c’era del pallore solo attorno alla sua bocca.
Giunti davanti alla clinica scese dall’auto barcollando. Pochi minuti prima della fine del tempo a disposizione per i colloqui Luise lo condusse fino alla stanza dell’oncologa e bussò alla porta. “Chi è?”, chiese la dottoressa a voce alta. Luise spinse suo marito dentro la stanza, la dottoressa li guardò per un attimo e con tono invariato chiese: “Avete dimenticato qualcosa?” Se Luise non l’avesse sorretto, Uwe sarebbe caduto sul pavimento come un sacco vuoto. Senza dire una parola lo trascinò fino al lettino dei pazienti e lo aiutò a distendersi lì sopra con la gambe tirate sollevate.
Contemporaneamente con la dottoressa avrebbe verificato se le scarpe di Uwe fossero pulite, disse il padre. Poi lei notò che la dottoressa aveva sollevato lo sguardo in direzione dell’orologio e fare un cenno di disapprovazione. Uwe respirava a singhiozzo. A malapena riuscì a dire che stava molto male, che non gli arrivava aria, forse lo vedeva lei stessa. E mentre Luise squadrava per l’ennesima volta gli innumerevoli attestati appesi alle pareti e appoggiati sull’armadio, la dottoressa disse che uno stato del genere, dopo una chemioterapia, era del tutto normale. “Lei deve guardare oltre, non si lasci condizionare, Lei deve sviluppare un atteggiamento più positivo.”
Se Uwe in quel momento avesse potuto ridere, pensò il padre, di certo l’avrebbe fatto, poiché un simile modo di esprimersi, dopo tanti anni vissuti nella DDR, doveva risultargli ben noto.
La dottoressa passò a Luise un foglio di trasferimento da usare per un medico pneumologo, e poiché la febbre non diminuì neppure il giorno dopo, andarono dallo specialista il cui ambulatorio non era lontano dalla loro casa. Quello analizzò a fondo la condizione dei polmoni e ne concluse che non c’era alcuna metastasi. “Sia felice”, disse con un sorriso impercettibile “ed aspetti un paio di giorni.”
Era iniziato maggio e quando tornarono, verso l’ora di pranzo, l’aria tremolava sull’erba. Sebbene tremasse acutamente, Uwe fece scivolare il suo sguardo sugli ampi prati colorati e sui muretti che li delimitavano, poi, di sorpresa, disse: “Quando il fantasma se ne sarà andato faremo un viaggio, non è vero?” Luise ribatté: “In Italia, in Marocco, o sulle Alpi, se avrai voglia di camminare.”
Dicendo questo lei si ricordò di un giorno nel quale, insieme ad Uwe, aveva fatto visita alla nonna, nel suo paese, per presentarle un computer portatile comprato con un’offerta speciale. Dopo essersi salutati Uwe l’aveva appoggiato sul tavolo della cucina, l’aveva avviato subito ed aveva cominciato a cliccare con rapidità ed abilità, finché erano apparse immagini su immagini, e finalmente un’offerta di viaggi, con varie cime di montagna, un lago luminoso e chiaro, rocce ricoperte di neve, poi torri arrossate, sabbia bianca.
Con ciocchi di legna sotto il braccio, diretta verso la soffitta, la nonna scuotendo la testa aveva detto: “Che cosa vorresti fare lì, ragazzo?”
E come se d’un tratto comprendesse sua madre, Uwe indicò con la testa in direzione dei boschi e disse: “Anzitutto riprenderemo a fare passeggiate.”
La voce del padre suonò fragile. Uwe non è più tornato dalla oncologa e così Luise alla fine l’aveva portato direttamente all’ospedale della piccola città, dove gli hanno diagnosticato un’infiammazione polmonare.
I medici gli diedero un antibiotico. Un secondo. Un terzo. Un quarto. Lui rantolava e stava in silenzio. Prese ad aprire sempre più raramente gli occhi. Il suo sangue fluiva nel cannello e lì dove c’erano i fori delle punture si formavano macchie violette. I medici cercavano il patogeno. Nel frattempo gli somministrarono il quinto antibiotico.
Fuori era caldo e l’aria era pulita, nella stanza d’ospedale c’era un calore asfissiante. Luise talvolta era di cattivo umore, quando entrava, e quando a Uwe venne concessa una camera singola, lei si sentì sollevata, perché così attorno a lei poteva sentire solo l’odore di lui. I luminosi prati di maggio, gli alti alberi, i distributori di benzina, i blocchi residenziali, con le loro lisce facciate, i sentieri terrosi e le strade lastricate della cittadina s’atrofizzavano, mentre lei si sistemava accanto a lui e nella stanza l’odore, insieme acido e dolce, del suo corpo sembrò affievolirsi gradualmente.
Uwe non ha più bisogno di essere trasferito in terapia intensiva, ha detto lei pochi giorni dopo al telefono con voce bassa ed aspra. Allora lui, disse il padre, saltato dal suo sgabello sul tavolo del telefono, per domare la paresi che voleva impossessarsi di lui. Messosi immediatamente in viaggio, era arrivato alla clinica mezz’ora prima della morte di Uwe.
Furono gli ultimi a passare il cancello del cimitero, i becchini passarono loro accanto, davanti c’era quello più possente, con passi irregolari e sgraziati, seguito dall’altro, un uomo giovane e magro, il quale sollevò per un attimo la testa e fece loro un cenno senza aprire bocca. Loro risposero al segno di congedo non appena il padre ebbe terminato il suo racconto.
Ruth avrebbe detto volentieri qualcosa a Fred. Lei sentiva il corpo di lui vicino al suo e pensò ad uno dei viaggi che aveva fatto insieme, ai giorni inquieti trascorsi a Marsiglia. Carichi si stanchezza, avevano attraversato viuzze odoranti di pesce, avevano mangiato couscous con ratatouille, si erano mischiati tra la gente, sempre a caccia di nuove impressioni, come se pensassero di avere ancora poco da vivere. Di notte se n’erano andati al mare, s’erano tuffati tra le onde e poi avevano lasciato cadere sulla sabbia i loro corpi bagnati. L’ultima sera, dopo aver bevuto un lungo sorso dalla bottiglia di vino ed essersi distesa supina, Ruth aveva detto: “Se me ne sto un po’ di tempo a guardare il cielo ho la sensazione che le stelle si muovano.” E dopo un breve momento di silenzio, durante il quale si potevano sentire solo le auto in lontananza e il rumore delle onde, crescente ad intervalli regolari ed interrotto improvvisamente, Fred aveva ribattuto con voce ferma: “E in effetti si muovono.”
“E’ ora di ripartire”, disse Ruth.
“Ti accompagno alla stazione”, intervenne prontamente il padre.
Lasciarono il cimitero e raggiunsero la via che passando davanti al distributore di benzina portava alla stazione. Poiché non c’era alcun marciapiede, Fred e Ruth camminarono l’uno vicino all’altra lungo il margine, dietro di loro si sentivano i passi rapidi del loro padre.
“Lì dove abito è del tutto diverso da Marsiglia”, disse Ruth d’un tratto, cercando un riscontro negli occhi di Fred. Senza ridere, i due fratelli si guardarono.
“Non ho mai capito perché sei andata lì”, disse Fred contraendo un poco la bocca, “All’ovest.” Dicendo l’ultima parola alzò la voce, per riabbassarla quando pronunciò la seconda sillaba. Ruth si voltò verso Fred e irresoluta gli porse con braccio piegato la propria mano floscia.
“Non voglio certo morire”, disse lei.
Fred rimase immobile, afferrò con entrambe le mani i suoi avambracci e li strinse al punto che Ruth sentì un dolore simile a quello provato in precedenza, quando durante un litigio aveva premuto e tenuto immobili le sue braccia dietro la schiena, senza che avesse potuto difendersi.
Lui la osservò a lungo. Lei rispose al suo sguardo. Le mani di lui scivolarono verso quelle calde e ruvide di lei, non le lasciavano, le racchiudevano, ma senza fare pressione; già allora Fred si era rosicchiato spesso le unghie. Ruth cominciò ad accarezzargli le mani, infine ad avvinghiarle, lei sentì le sue nocche, fece pressione con i suoi polpastrelli nei punti morbidi dei palmi di lui, poi distrasse il suo sguardo.
Il padre aveva proseguito, non si voltò, la sua figura si fece sempre più piccola, in fondo alla strada.
“Mi occuperò di lui”, disse Fred.