Julya Rabinowich, A

Nata nel 1970 a San Pietroburgo, vive a Vienna. Nel 1977 si è trasferita a Vienna. Dal 1993 al 1996 studi presso la Dolmetschuniversität di Vienna.

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Erdfresserin

© 2011 Julya Rabinowich

Traduzione: Vito Punzi

 

La terrivora

 

Nell’appartamento di Leon è molto caldo, non un caldo estivo, piuttosto un caldo desertico. Leo ed io ce ne stiamo accoccolati avvolti alla beduina in lenzuoli di lino nell’immobile calura che tutto rende appiccicaticcio. L’acqua che si trova nel bicchiere di Leo è calda come l’umidità che ricopre i nostri visi. Il lenzuolo di lino che getta pieghe sul mio busto e sulle mie cosce corre in forma di colline verso il fondo del letto. Nella semioscurità della prima mattina fanno l’effetto di un paesaggio desertico, una duna bianca, poi un’altra, con un sequenza irregolare.

La luna cala dietro la curvatura della terra, il cielo non si distingue ancora dall’orizzonte, un blu ancor più chiaro con la promessa di una calura ancora più opprimente. Chissà dove, l’ululato di un animale, strascicato e afono.

Quest’ululato l’ho sentito spesso in Grecia, dove nelle spiagge vicino alle quali passavo la notte vivevano veri e propri branchi di cani randagi, affamati, e stranieri come me, ed altrettanto scaltri. Abbandonati ed impauriti, costituiscono rapidamente un grande insieme a più fauci, con molti occhi, orecchie e zampe razzolanti, grandi, piccoli, singoli corpi succhianti ed assassini. Talvolta davano la caccia ad altri animali e sicuramente è successo anche che attaccassero delle persone.

Allora dormivo spesso sulla spiaggia e di loro non avevo paura; sentivo di essere parte del loro branco più di quanto lo fossero alcuni cani. Una volta alcuni di loro si avvicinarono al luogo dove dormivo come fossero in avanscoperta, circospetti, con lo sguardo sveglio e le orecchie dritte, non si presentarono con intenti ostili. Apparvero sulla collina senza far rumore, profili scuri contro il cielo notturno, lì dove non c’erano loro si vedevano dei punti bianchi intensamente luminosi. Stelle.

Sulle spiagge greche la sabbia scotta sotto le piante dei piedi già di primo mattino, verso mezzogiorno è così intensamente incandescente che temevo per i miei sandali di plastica, temevo di doverli sbucciare dalla mia pelle, come se fossero una seconda, puzzolente pelle colorata. Voglio tirare via da me la pelle fumante di Leo, prima che mi si appiccichi, che mi otturi i pori, prima che il mio odore diventi così rivoltante come il suo, che è sempre presente, nel suo sudore, nel suo respiro, nel suo tatto, col quale lui vuole ricoprire, vuole attaccarsi a me, diventare sano tramite me e al posto mio. Nella calura tropicale mi discosto da lui, si gira verso di me bisbigliando, fa dei versi che ricordano un animale, un cucciolo. Leo allunga una mano come fosse un tentacolo che io riesco appena a schivare, quella cade nel vuoto ricoperto dal lenzuolo di lino che è tra di noi e distrugge il paesaggio desertico sotto il quale mi muovo flessibile, piego le gambe, lentamente, e appoggio i piedi con attenzione sul linoleum verde, dieci punti rossi su verde striato alla luce della rotonda lampada di Leo.

Sgattaiolo in bagno, sospingo il mio viso di lato sulla superficie dello specchio, non voglio vedermi, non voglio vedere né Leo né me stessa. Mi getto dell’acqua fredda sulla cervice, prendo una pasticca per il mal di testa dalla busta con i trucchi che ha già soppiantato la lozione da barba di Leo che lui non usa più. Chiudo il cofanetto. Ciondolo l’intera testa nel lavandino e apro il rubinetto. I miei capelli con l’umidità cominciano ad arricciarsi, il mio viso appare infame nella semioscurità come quello della Gorgone sullo scudo di Perseo, mi acquatto abilmente sotto il mio sguardo e sono al sicuro. Nel balcone che dà sul cortile interno c’è caldo e silenzio, gli uccelli cominciano a muoversi. Il portacenere di Leo sul bordo del reticolato, pieno di cenere, lo prendo e lo svuoto sul cortile, si alza un vento leggero e spinge la cenere di lato, verso il balcone vicino. Guardo verso l’alto, c’è caligine, è impossibile riconoscere le stelle, sotto di me non c’è sabbia, nessun animale. Me ne sto in piedi nel silenzio, aspetto e mi accorgo che sto in ascolto del respiro di Leo e quando non riesco a sentire alcunché vengo afferrata da un’inquietudine indescrivibile e getto intenzionalmente il portacenere sul pavimento, così quello tintinna e fa rumore, continuo a non sentire nulla, aspetto un po’, torno a sgattaiolare nell’aria asfissiante, appoggio il mio orecchio sul suo petto bagnato, ne percepisco il movimento e infine mi rilasso.

La mia schiena è distesa sull’umido dorso d’erba della terra, entrambi sono ricoperti da un sottile strato di bagnato. C’è afa, anche noi sudiamo, la nostra umidità si tocca e ci amalgama, me e la terra. Schiena contro schiena, come due duellanti. Sulla sua ci sono tronchi d’albero disposti come setole diffidenti, sulla mia solo la chiara peluria, perché io tremo nonostante il tiepido calore del tè. Dobbiamo fare dieci passi prima di voltarci l’uno verso l’altro, prima che parta il primo colpo. Vengo imbrogliata. Vengo imbrogliata come sempre, non mi è ancora mai riuscito di rinunciare alla menzogna, all’inganno, sono troppo debole per giocare a carte scoperte, sono troppo forte per agonizzare, non è ancora ora. La casa aspetta ancora. La sorella. La madre. Mio figlio.

Premo con maggior forza le mie scapole contro la mia avversaria, sento come esse formino due buche sulla sua superficie, percepisco piccoli bozzoli del suo corpo sulla mia nuca, avulso dal suo insieme infinitamente pesante, così tanto più pesante di me, così più grosso, distaccato, spietato e tuttavia l’unico posto dove mi sento a casa. Chiudo gli occhi.

Resto immobile. Mi ritiro. Ma immacolata mi ritiro, mi ritaglio per intero, mi nascondo accanto a te, mi annullo, mi trasformo, finché non divento un’altra, una mucca forse, o una pianta.

Le mie dita cercano la propria via tra l’erba, impaziente trivello nel terreno che mi è accanto, strappo brutalmente fili d’erba, l’unghia del mio anulare si rompe, il dolore è breve, ma intenso, sollevo la mano fino alla mia bocca. Piccole briciole di terra nera restano sulle mie labbra.

Apro gli occhi. Pane nero della mia nazione, penso, mi viene in mente il pane nero di mia madre, quello che lei stessa coceva la domenica, avvolto in un panno trapunto, di stoffa pesante con ricami rossi, tutto in lei è pesante, rosso, nero, familiare, il pane fumante sul grezzo tavolo di legno della cucina, la fumante soglia di pietra, le mani fumanti sui cumuli di neve, gli oscuri occhi mezzo velati, scuri quasi come il suo pane nero, che lei tiene premuto sul suo petto piatto, ogni pezzo di pane perfettamente rotondo, il ventre di una fertile, il cui frutto è fruibile, non solo fruibile, è perfino buono, non distorto e guasto come la mia vita, come mio figlio, cui lei ora presta attenzione al posto mio, perché qualcuno deve pur portare i soldi a casa, e perché io non sopporto nessuno dei due. Il lunghi, lisci capelli raccolti con un nodo stretto, sulle tempi e traspare già da tempo la pelle, rossi orecchini nelle piccole orecchie altrettanto evidenti.

Ho fame, una fame improvvisa e prevaricante, questa fame mi strappa dalla terra, dall’erba, in piedi, divento cattiva per la fame, sopra di me il sole, il prato si gira, un caleidoscopio verde e giallo, al margine del prato la linea scura dei castagni, gira a ritmo sostenuto.

"Vuoi un cafè, Leo?", dico con voce flautata dalla cucina, mentre le mia dita tramestano nel cassetto, le mani tremano, e mi devo concentrare per bene così che i miei movimenti non diventino sfasati, altrimenti lui mi sente tintinnare.

"Dove sei?", urla Leo da qualche parte nell’appartamento, nella semioscurità, invisibile. La sua voce è slavata, non posso localizzarla.

"Subito", grido, nel cassetto c’è solo un’infinità di scatole delle sue medicine, fogli con le istruzioni debordanti per metà e infilati nelle scatole sbagliate, vuoti involti di capsule, preservativi in confezioni colorate, un pacchetto di sigarette.

Chiudo con premura il cassetto ed afferro il suo impermeabile, appoggiato su di una sedia accanto al tavolo della cucina. Appoggiato con cura sullo schienale della sedia, non gettato a caso come la mia giacca, pieghe nere di stoffa morbida leggera, sotto la quale fa capolino una scarpa marrone, il tacco a spillo ha ceduto. Dovevo andare dal calzolaio. Dovevo andare dal dottore. Da giorni mi tormentano dolori brucianti nel bassoventre, che voglio respingere di nuovo in me con una morbida pressione delle mie mani, nel mio interno e poi del tutto fuori.

"Vengo subito", mento. La mia mano curata scompare nella grande tasca del suo cappotto, scivolo dentro il suo mistero, il mistero che io desidero aerare, e frugo in lui, come lui frugherebbe in me, se ancora potesse farlo. Afferro un accendino, un fazzoletto di carta, monete. L’altra tasca è vuota, bevo un sorso di caffé dalla sua ciotola, che è ancora appoggiata sulla cucina componibile, un piccolo resto di una pozza scura lasciata sul pavimento. Se sono fortunata lui s’è già addormentato. Le molle del letto cigolano, lui si volta da una parte all’altra. Se lui ha nascosto le sue chiavi nella tasca dei pantaloni devo aspettare il sopraggiungere della notte, devo attendere lo scatto col quale apre il bottone superiore, il frusciare del tessuto dei jeans lungo i suoi polpacci ben piazzati, il suo calore sudato sul mio ventre, sulla mia schiena, il soffio sibilante che fuoriesce dalla sua ugola quando finalmente s’è addormentato. Percuoto le giacche, la vecchia uniforme, guardo sotto le montagne di vecchi giornali umidi che ricoprono il pavimento. Nell’angolo c’è una vuota gabbietta per gatti, il gatto è già scappato, l’ha portato dai suoi genitori, sebbene nelle notti insonni quell’animale gli suscitasse relax. Io sono un animale meno costoso che può accudirsi da solo. È un sentimento indefinito quello che mi fa stare in piedi tirata e inutilmente nell’anticamera nella semioscurità, quasi come se ne stava mia madre nella nostra casa, quando ancora una volta uscivo, con guardo fisso, che non cerca alcun oggetto e non ha bisogno di nulla, dunque devo pensare di nuovo a mia madre e poi inevitabilmente a mio figlio.

(Mi chiedo se lui, altrettanto abbondantemente sudato, sia in ginocchio accanto al letto di mia madre, implorando, poi esigendo con voce roca di essere accolto. Nell’oscurità potrebbe essere vero tutto ciò di cui le immagini presenti nella sua testa vogliono convincerlo. Se lei si sveglia dal suo sonno sempre leggero con la speranza che il respiro che sente sulla sua guancia possa essere finalmente quello di suo marito, e quanto a lungo dura, finché la delusione la risveglia del tutto ed i sogni s’allontanano definitivamente dalla tenebra reale attorno al suo letto, nel quale ci sono mio figlio e lei, e nessun altro. Si guardano, si guardano fisso, li vedo che si guardano fisso, nel buio, c’è ancora tempo prima dell’aurora, con paura furente, con la coscienza di ricevere qualcosa di sbagliato, qualcosa di deludente, qualcosa che loro non hanno cercato, ma senza questo loro non possono andare avanti, lui preso dalla sua nostalgia, lei dalla sua speranza, unita grazie alla marmaglia che impongo loro con la mia sempre ricorrente assenza. Fuori abbaia un cane, probabilmente si tratta di quello del vicino, quello che è stato svegliato dallo sbattere della porta della stanza dei bambini, dal rumore dei passi, perché non trova l’interruttore, a causa della sua inquietudine non riesce a orientarsi e sbatte contro i nostri vecchi armadi di campagna. Mi vedo in piedi accanto a lui, lì nel corridoio buio tra il dipinto mobilio di campagna, la rigida corsia del tappeto con rossi galli intessuti sotto le mie nude piante dei piedi, quando appoggio la mia stanca testa sulla sua spalla. Lui odora di familiare come null’altro al mondo, non posso sentire l’odore del latte materno vomitato presente ancora nell’angolo della sua bocca, appoggio la mia testa con il tutto il suo peso sulla sua spalla e dico: "Quando morirai, finalmente?"

L’appartamento di Leo ha due grandi finestre, proprio dirimpetto al muro della casa sull’altro lato della piccola via. I tram fermano esattamente di fronte all’ingresso, lo stridore dei loro freni ogni notte strappa Leo da quel sonno che lui cerca, ricerca e che trova solo raramente quando può averne bisogno, la mattina presto è stordito dal sonno, che in quei momenti lo tiene tanto più in pugno, lo dileggia, lui gli ha dato la caccia per mezza nottata e tuttavia è rimasto solo un collezionista, un cacciatore di minuti, un contatore delle ore, un raccoglitore di piselli, un cavillatore.

"Il mio sonno", dice lui, come se l’avesse ereditato, acquisito, appaltato per contratto, e come se da quello ora fosse stato tradito, un tradimento che si rinnova ogni giorno, fatto che lo indigna visibilmente, così come accade a chiunque altro venga truffato dei propri averi attraverso impenetrabili birbonerie. Lui si esercita per il suo grande sonno, che probabilmente si prospetta prossimo, e come ogni persona che indulge con estro al proprio hobby non vuole essere disturbato. Per ore se ne sta disteso di schiena, con le mani talvolta giunte in preghiera, talvolta statutariamente poggiate sul petto, oltre lo svettante promontorio del ventre, petto sul quale si arricciano i capelli biondo grigi come piccole ed umide serpi.

Talvolta guarda per ore il soffitto, le ragnatele agli angoli le ha tolte, così che non tutto ciò che vede gli ricordi il declino, sono rimasti solo i contorni illuminati dal sole del lampadario che la sua ex moglie ha portato via con sé. Osserva il filo usurato che da un falso carbonchio di stucco si dissoda sul soffitto, il vuoto cerchio bianco della sospensione, i piccoli cenci che escono dall’intreccio di fili. Accende la lampada da tavolo che ho messo sul suo comodino. Poi fissa i suoi piedi paffuti che si vedono sotto la coperta. Larghe unghie rigate. Leo passa molto tempo disteso. La sua vita scorre tra le brevi spinte della mia attenzione e le dilatate isole temporali. I suoi genitori telefonano spesso e lui mette giù, o non risponde neppure. Loro vorrebbero portarlo via, vorrebbero portarlo in ospedale, vorrebbero mettere al sicuro i suoi libretti di risparmio, vogliono spiazzarmi, spiazzarmi come io succhio l’ultimo resto da suo figlio, ma io sono circospetta come lo è ogni vampiro e Leo è aggressivo di fronte a loro e loro stanno spesso davanti alle porte chiuse e suonano a lungo, disperatamente e inutilmente.

Le finestre dell’appartamento di Leo danno su di una viuzza, scura e stretta, protetta dalle chiare tele di ragno dei teloni esterni. Ammiro la tranquillità che mi concedono gli austriaci davanti ai loro interessi, osservo più volentieri le stelle rosse di Natale nel vaso bianco con margine dorato piuttosto che guardare le cattiverie che loro causano a se stessi e agli altri. A maggior ragione mi rende furibondo l’ostentazione aggressiva di ciò che è presumibilmente intimo, come fanno volentieri i vicino di Leo nell’appartamento diagonalmente di fronte. Questo mettersi in mostra è a buon prezzo, poiché accade senza necessità e motivo, è così deprecabile che la bile mi sale in gola e la corrode trasformandola in giallo da boletus satanas. Da lontano riconosco già la loro finestra, i verdi teli di tessuto tirati di lato, i loro nudi corpi in movimento, so che loro aspettano solo di svergognare Leo con la loro provocante funzionalità, e so che potrei uccidere prontamente, sbranare come un mostro, gettare dall’altra parte uova marce, e dopo queste, come una stella del mattino, lanciare anche l’usato scopino del cesso di Leo. Potrei far finta di niente. Guardare oltre è la specialità della mamma, non la mia. La coppietta che copula sogghigna. Probabilmente i due mi considerano la moglie di un borghesoccio già un po’ sfatta, con un contratto di risparmio immobiliare ed una cosmetista dietro l’angolo che mi toglie i peli del viso. Incastonata nella cornice della finestra di Leo, dalla vita di Leo divento inoffensiva, docile, borghese. Le mie brevi pause di respiro, un’area di sosta temporanea, completamente diversa dalle altre aree di sosta del mio percorso, disseminate nelle autostrade e nei sobborghi di piccole città industriali. Se esco di casa la sera per ricevere tutto insieme il denaro che s’aspettano tre uomini non mi metto mai in vista senza un motivo.

"Leo", chiedo dunque sorniona, "vuoi giocare con me alle freccette?"

Leo fa leva sul gomito per sollevarsi dai suoi tanti cuscini, il suo vassoio con il vasellame vuoto sbanda, lui riesce ad afferrare solo la tazza, il piatto dal quale ha sorseggiato anche Bortsch cade tintinnando sul pavimento e da quello si distribuiscono i resti di rape rosse, accurati parallelepipedi color rosso scuro. Cadono come piccoli dadi su di un enorme tabellone di legno, ed io sono d’umore giocoso, molto più di prima.

"Qui?" Leo mi guarda esterrefatto. "Sono due anni che non gioco più", dice, "come fai a sapere che giocavo? Non te l’ho mai raccontato".

Maledico la rabbia che spinge a compiere azioni incontrollate. Ovviamente lui non mi ha raccontato nulla di questo, così come non menziona nulla di ciò che ha a che fare con la sua ex moglie, questo capitolo della sua vita non è ancora chiuso, ma certo lo tiene ben serrato. Come il cassetto del suo comò, quello che tempo fa, durante le mie scorrerie nell’appartamento, ho scoperto insieme alla chiave che lui nasconde nella sua vecchia scrivania, diventata nel frattempo un luogo dove appoggiare cose. Tutti i giorni mi ripete che si recherà lì per mettere ordine su quel tavolo, così da poter continuare a tenere la corrispondenza di lavoro, che ritornerà nel suo ufficio, che riprenderà la sua auto di servizio. Nel suo mondo, che è molto lontano dal mio.

Lui non mi ha mai presentato neppure uno dei suoi conoscenti, ho sentito io stessa come abbia spiegato al suo vicino di piano che io sono una domestica a buon prezzo e so anche che ha ipotizzato il fatto che io non lo capisca, poiché lui parla con voce flebile e in un dialetto stretto.

Ma io ho l’udito fino. I tentativi di comprendere, catalogare e inquadrare tutti i suoi contatti con il mondo esterno, tutto ciò che lui potrebbe ricevere come aiuto da fuori  mi rende più inutile mi mette più a rischio. Mi sorprendo ad essere gelosa di questi tentativi di fuga, che sono del tutto inoffensivi: i suoi vicini ricordano bene che prima che arrivassi io si sono lamentati presso l’amministrazione del condominio degli odori che provenivano dal suo appartamento, senz’aiutarlo in alcun modo o quantomeno informarlo dei loro intenti. Me lo suggerisco sempre e di continuo, tuttavia di tanto in tanto mi assale una leggera inquietudine che mi fa andare alla deriva nel suo appartamento e mi fa evitare le sue telefonate, la sua posta. Talvolta arrivano cartoline con gli auguri per una pronta guarigione, all’inizio erano parecchie, successivamente sempre meno, cartoline che io apro, leggo e getto. Alcune le richiudo con cura, le rincollo e le consegno, se ne ho voglia. Il fatto che la sua ex moglie non dia più notizie di sé da così tanto tempo lo meraviglia, non può credere che i suoi colleghi l’abbiano dimenticato. Su questo rispondo, come sempre in situazioni del genere, paziente e materna, più mite di quanto avrebbe potuto essere mia madre, la quale avrebbe raffreddato la mia fronte con movimenti sostanzialmente più ruvidi di quelli che lei faceva quando lavava l’uscio di casa, ed il ruvido rinfrescare la fronte era ancora un gesto tenero rispetto alle botte che dava a qualcuno a tradimento, inattese e dunque tanto più mortificanti. Sento all’improvviso i movimenti delle sue mani di nuovo sul mio corpo, sospese come la bacchetta di un dirigente, colpi sferrati con precisione, e già risuona la loro musica, un giro, poi il successivo, e ad un certo punto il gioco mi diverte, e faccio cose delle quali so che attraggono le botte, perché io voglio dimostrarle che non me ne importa nulle e che io alla fine ho vinto.

Le mani dei bambini ed anche le mie, calde, lisce, unite, io, tirata via dalla pulizia della casa dei miei genitori, unita con tutti i pastori di capre e i proprietari di oche del paese. Urliamo, ridiamo, ci urtiamo l’un l’altro e ci rivoltiamo nel fango, ci impaniamo di sabbia, sprizza acqua calda da sotto i nostri polpastrelli e tutti i visi, senza eccezioni, sono punteggiati di lentiggini e finalmente tutti noi formiamo un’anima estiva, spensierata e chiassosa, dieci volte più grande degli adulti e venti volte più rumorosa. Strizzo gli occhi, la pelle della ragazza confinante, che io conosco solo da lontano, perché non posso uscire dalla nostra casa, accarezza la mia ed è vellutata.

Tanto più inatteso mi raggiunge il colpo, mirato e forte, sulla nuca. Le voci si confondono senza preavviso e diventano brusio che con gusto salato corre nella mia bocca. Alcuni minuti dopo siedo al tavolo dalla nostra cucina, mentre lei silente mi lava con acqua troppo calda e con movimenti rapidi ed io sputo resti di sapone in un fazzoletto insanguinato. Non piango. Raccolgo il liquido dal sapore disgustoso nella mia bocca, lo agito da destra verso sinistra e viceversa e lo faccio gocciolare sulla carta rosata, mentre il tovagliolo grezzamente ricamato lascia superfici fiammanti sul mio petto, superfici che baluginano tra i movimenti di mia madre, come se lei volesse dipingermi. Il rosso icona.

"Gioca con me, Leo", esigo ancora una volta. Ho trovato il pannello, ma neppure una freccia, né nel cassetto chiuso a chiave, né negli altri, ed io non voglio spendere un soldo per cose che non mi daranno altro se non un piacere una tantum.

Leo ride incerto, lui mi conosce come una persona delirante e che si fa tante premure, ma non come una giocosa.

"Non so", mormora, gettando la coperta di lato.

Da sotto la coperta viene fuori un’ondata di calore, l’odore lo colgo ormai come familiare, dunque non mi dà fastidio. Sono convinta che quell’odore mi aiuta nelle lunghe notti irrequiete ad addormentarmi, tramite il braccio di Leo, che lui ha appoggiato attorno a me, tramite i cuscini e i materassi con il riporto in gomma, lo scheletro in cemento armato della casa e la strada asfaltata, fin nella profonda e molle terra che alla fine mi raccoglie.

"Dimmi dove sono le frecce", lo rincuoro io accarezzando dolcemente la sua pelle.

Leo appoggia il suo braccio sulle mie spalle, caricando tutto il peso del suo corpo sulla mia spina dorsale. Io lo trascino oltre, finché lui si ritrova per metà fuori dal letto, come un budello da una ferita aperta.

"Io non esco", prorompe lui. E’ come se stesse per mettersi a piangere e tuttavia cercasse con tutte le forze di sopprimere le lacrime. Sono spietata, continuo a tirarlo.

"Vieni Leo. È tutto a posto".

Non voglio credere che lui resterà disteso in questo letto con me fino alla fine dei suoi giorni, non voglio essere prigioniera insieme a lui sotto la sua coperta puzzolente, senza la prospettiva di abbandonare di nuovo questa stanza.

Lo rivolto con fatica sui cuscini e vado a cercare.               

"Nello studio, nella piccola cassa. Nell’astuccio delle penne", mi suggerisce lui a voce alta.

La cassetta è la prima cosa che posso aprire dopo aver rimosso cataste di giornali e oggetti di lavoro, si sventagliano davanti a me come carte dei tarocchi, ne tiro fuori una a caso, e vi è scritto: "Gentile signor Brandstegl, ci siamo già preoccupati di rappresentarLa…"

Il nome è illeggibile, Leo vi ha appoggiato sopra una tazza di caffé, più volte, sicuro, e intenzionalmente. Giro il foglio, ora la firma è nella parte superiore, il nome Leo è in basso, rovesciato. Leo è l’impiccato, la lettera è la carta, e tutto è diverso. "Ce l’hai?", grida Leo dalla sua stanza d’ammalato con la forza del suo corpo, ed io non rispondo, faccio cadere il tarocco con il leone sull’accumulo di ciò che resta della sua storia, infilo la mano nella cassetta e trovo l’astuccio. Uno skateboard adorna il lato che si rivolta tirando la cerniera. Tiro fuori la freccia e mi affretto, la messinscena mi è costata parecchio tempo. Butto l’astuccio sul pavimento, chiudo la porta dietro di me e mi dirigo verso l’anticamera.

"L‘hai presa?", ripete Leo, mentre passo davanti alla sua porta, nel corridoio, diretta verso la finestra, sulla quale la ragazza è appollaiata mezza nuda e poltrisce al sole, e quando lei fa scivolare il suo sguardo su di me, prendo la mira, lancio e per poco non colpisco quel verde occhio insolente. Lei inizia a gridare e si afferra le spalle, dalle quali spunta il masticato pomello di plastica di Leo, la freccia arrugginita nella sua pelle, che già si mostra bagnata da una goccia color rosso cremesi, ed io sfrutto il momento, mi acquatto sotto la finestra e torno indietro gattonando silenziosa lungo il corridoio.        

 

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