Antonia Baum, D

Nata nel 1984 a Borken, vive a Berlino. Studi di letteratura e storia. Ha pubblicato diversi racconti brevi sul settimanale Der Freitag e su Zeitonline.

 

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Vollkommen leblos, bestenfalls tot

© 2011 Antonia Baum

Traduzione: Vito Punzi

 

Del tutto senza vita, nel migliore dei casi morto

 

La città ha molte città in sé, ma di notte è un’altra, si penetra nel suo ventre.

Una volta ho visto uno che sedeva al centro di una folla illuminata di rosso affondando il suo intero avambraccio tra le gambe di una donna.

Con la mano libera prendeva appunti in un taccuino ingiallito, perché lui era uno scrittore.

Il suo sguardo saltava rapido dall’avambraccio al taccuino, che si trovava sul ventre squassato dalla donna, la quale sembrava tuttavia rallegrarsi molto del pugno dell’uomo.

”Che cosa scrivi?”, chiesi.

L’uomo sudava ed aveva i capelli arruffati. Sovrapponendosi alla musica urlò che mi avrebbe informato più tardi inviandomi un messaggio di testo e che tuttavia, se fosse stato davvero così urgente, avrei potuto anche dare un occhiata su internet.

Volevo farmi largo rapidamente tra quelle persone per continuare a bere, quando lo scrittore afferrò il mio orecchio e disse grondando: “Nessuna storia, solo assenza di significato. Ma io non posso farci nulla. Se fossi povero, se fossi un Ali, qualcuno mi getterebbe una bomba addosso, quantomeno mi discriminerebbe o lederebbe i miei diritti, credimi, sarebbe completamente diverso”.

 

1

Il miei genitori non avrebbero mai dovuto conoscersi.

I miei genitori si chiamavano Carmen e Götz, e queste due persone non avrebbero dovuto incontrarsi. Davvero, penso, e getto la mia sigaretta sul tetto del garage, dovrei indicarli correttamente come genitori, per così dire come pezzi sciolti, poiché non posso ficcarli con buona coscienza in un’unica parola, nella parola genitori, questa per loro è un’esigenza e per me una menzogna, è semplicemente inappropriato, e quanto più ci rifletto tanto più lo trovo inappropriato, penso, mi siedo nuovamente alla scrivania e cerco di imparare.

Il rumore è troppo alto. Non si può essere più separati dei pezzi sciolti dei miei genitori, per anni si sono tormentati reciprocamente davanti al giudice con atrocità da far rizzare i capelli, finché non ci fu più alcun appiglio che consentisse loro di accusarsi, poi attorno al loro matrimonio disfatto fu solo silenzio e ciò che è rimasto è un residuo familiare, un asociale, come devo pensare ancora una volta anche in questo momento, un residuo familiare asociale con soldi che con le sue grida mi terrorizza fin sotto il tetto.

Le famiglie sono prepotenti, sono infettive, penso. Sotto c’è Astrid che schiamazza. Astrid che senza pensarci su ha sposato mio padre, grida contro di lui, lui che è appena tornato da chissà dove e in qualche modo non ascolta chi pensa seriamente, Götz ascolta, in testa dev’essere completamente ostruito, penso seduto davanti al patto Hitler-Stalin. Urlano alzando ancor più la voce, dovrei scendere e pregarli di fare silenzio, ma cerco di continuare a leggere, perché lo voglio. Basta, domani l’ultima prova d’esame scritta per la maturità, poi sarà finita.

Sotto sbatte una porta, mi alzo di scatto e me ne sto in piedi davanti alla porta della mia camera, poi però mi volto e mi dirigo verso la finestra, mi siedo sul davanzale, fumo, respiro e penso che il fumare sul davanzale della finestra ti ha salvato la vita già un migliaio di volte, proprio così, penso, senza quel guardare verso il cielo e senza il fumare sul davanzale della finestra già da tempo saresti di sotto, penso e soffio il fumo in direzione del cielo che avanza dietro le montagne.

Gli schiamazzi di Astrid mi trapanano le orecchie. Per questo si resta di ghiaccio, come ci si ghiaccia qui, prima o poi si finisce col diventare sempre di ghiaccio, penso. Probabilmente litigano a proposito della nuova collega, quella che è stata in viaggio di lavoro con Götz, che da quel viaggio è appena tornato, e che rende Astrid gelosa.

Gli ultimi due giorni lei se n’è andata in giro per casa come un capriolo ferito e mi ha fatto male. Astrid mi fa male, Götz mi fa male, Carmen mi fa male. Voglio starmene da sola.

Questo è accaduto ieri verso mezzogiorno. Astrid si è rattristata ed ha iniziato presto a bere, con lei non si sa mai ed io mi sono seduta davanti a lei.

Le ho accarezzato una mano e le ho fatto un cenno pieno di comprensione, sebbene solitamente tra noi ci comportiamo in maniera piuttosto riservata. Lei mi ha restituito la carezza, ha fatto roteare i suoi orecchini di perla che le aveva comprato Götz come segno d’amore, poi sopraggiunse uno sfogo. Iniziò a piangere, nascondendo il proprio viso rigato dalle lacrime dietro sempre nuovi fazzoletti che lei, una volta usati, avvoltolava e metteva da parte, finendo col realizzare dei piccoli mucchi sui quali posare il suo sguardo tremante. Tutto questo mentre mi raccontava del Götz senza riguardo, l’uomo che si trova comprensibilmente senza riguardo, come direbbe Carmen, perché tuo padre non se n’è fatto mai scappare una ha detto lei spesso, quando era ancora qui ed anche successivamente, al telefono dalla Toscana, Carmen l’ha detto continuamente e probabilmente, penso alla finestra, lo ha anche sempre saputo.

Lei lo ha sempre saputo e non mi entra in testa come si possa rendere così la sua vita, come ci si possa sfigurare, con piena coscienza e con occhi ben aperti, fino alla catastrofe e come si possa piombare in essa. A proposito della catastrofe delle mogli, penso a Carmen e ad Astrid, della catastrofe del gran lavoratore e di simili, penso a Götz e relativamente a tutti e tre, penso: alla catastrofe della vita, alla carambola degli uomini, al danno totale della persone.

Quando Astrid ebbe finito di piangere attorno a lei c’era un semicerchio di piccoli mucchi di fazzoletti. Le accarezzai nuovamente la mano.

Le si alzò, si schiarì la voce mostrando un po’ di vergogna e infine fece, secondo il solito registro di voce di Astrid, un’affermazione tipica di Astrid riferita ad una consueta attività di Astrid, una di quelle che lei esplicava sollecitamente: lei pulì la casa, lo specchio del bagno, le tende, il giardino, ed io me ne andai nella mia camera, che abbandonerò il prima possibile, penso ora. Lascerò questa casa il prima possibile, questa casa che per me è morta, la casa che Astrid ha reso morta, che ha ucciso con la sua follia/ossessione del catalogo d’arredamento.

Cuscini, piantane, disposizioni di copertine di libri su tavolini d’appoggio, ogni cosa intonata con il colore intonato a quello delle altre e ovunque cornici, nelle quali Astrid ha ingabbiato foto di persone presunibilmente felici, cioè di sé, di Götz e mie. Le foto incorniciate erano state da lei distribuite in tutta la casa per un unico motivo, vale a dire per ingannare se stessa e gli ospiti, facendo credere che lì abitavano persone felici, il che è ovviamente una menzogna, perché in questa casa nessuno è mai stato felice, penso, neppure quando se ne sta alla finestra. Astrid ha riempito sistematicamente la casa con copertine di libri-tavolini d’appoggio-cornici per fotografie-vetrine d’arredo, con il denso sciroppo d’arredamento, il quale è responsabile del fatto che qui si può camminare solo al rallentatore, perché si resta appiccicati allo sciroppo d’arredamento e dunque si fa una grande fatica a muoversi. In questa nostra casa, nella quale il movimento viene reso impossibile, non è solo l’arredamento ad essere appiccicoso, anche l’aria lo è, l’aria della casa, quella nella quale quotidianamente c’intratteniamo, è una grigia colla attraverso la quale ogni parola cade pesante ed eterna, una colla nella quale il pronunciare qualsiasi parola produce dolore, poiché si sente da anni cadere e si sente picchiare gli altri, una colla attraverso la quale ci si deve creare un varco con aggressività, altrimenti non se ne esce fuori. Per questo motivo qui si combatte tutti. Si procede e ci si picchia a vicenda perché per ognuno non c’è altro da fare, lo si può dire tranquillamente, si procede picchiando ininterrottamente attraverso la colla d’intrattenimento sullo sciroppo d’arredamento distribuito e spalmato nel frattempo ovunque da Astrid, quello nel quale alla fine è soffocata la casa, questa è la vita in questa casa, questi sono i dati di fatto.

La casa, detto sinceramente, stava agonizzando già quando vi abitavamo solo Götz ed io, penso, effettivamente anche quando c’era Carmen, poiché il processo di disgregazione era da tempo in una fase avanzata. Il disfacimento è iniziato con esattezza al momento della costituzione della famiglia, lo si deve dire con lealtà, ma quando è arrivata Astrid la casa è morta per asfissia e con essa sono morti asfissiati Astrid, io e mio padre, il quale tuttavia in qualche modo era già morto, penso standomene alla finestra. Lui è morto, per me è tale, come la stessa Carmen, i miei genitori sono morti per me. Lo sono come genitori, in quanto Götz e Carmen ovviamente esistono ancora, ma come genitori sono morti, come tali loro non sono mai nati, oppure si sono uccisi, non so.

C’è troppo chiasso, ora scendo, devo farlo, penso, e mi piazzo davanti alla porta della camera, dalla quale però subito mi allontano. Non voglio vedere, penso, non voglio immischiarmi nella loro pessima situazione relazionale.

Respiro, resto in piedi, poi torno alla scrivania e al patto Hitler-Stalin, di fronte al quale mi siedo per proseguire. Leggo, prendo nota, mi viene il mal di testa, non riesco più a pensare. Solo che se stasera e domani non riuscirò più a riflettere allora sarà esclusa per sempre la stupida pretesa di imparare a memoria i patti, penso. E soprattutto sarà la fine per tutto il resto, e questo sarebbe anche peggio, penso guardando fisso il patto Hitler-Stalin. Sarà la fine con l’istituto della paura, con l’istituto del terrore, con la scuola, i cui corridoi del terrore erano stati saturati dalla paura del futuro, paura di cui sono stato pervasa anch’io, quanto più ho dovuto percorrere quei corridoi del terrore privi di finestre, tanto più mi sono impaurito, ma la paura più grande è stata quella che venne diffusa nelle aule, le centrali della paura, alle quali conducevano proprio quei corridoi del terrore. Nelle aule ci hanno terrorizzato per anni con le loro parole intimidatorie riferite al futuro ed al lavoro, ossia senza futuro e con poco tempo, cioè hanno ripetuto in continuazione che noi non abbiamo tempo e che dobbiamo sbrigarci con gli studi, quegli studi che portano ad un diploma veloce, ad un diploma in dodici anni, per il quale dobbiamo ricevere buoni voti ed un bon profilo e poi iniziare subito la laurea, poi il master, ossia dobbiamo aver già finito, senza perdere tempo, come loro ci hanno sempre ripetuto durante la lezione sul futuro e dalla terza classe hanno distribuito quasi quotidianamente brochure sul futuro e la lezione sul futuro l’hanno impartita nel mercato del lavoro, estero, disciplina, flessibilità, praticantato, crisi economica e questa ossessione del futuro, penso ora, seduto davanti al patto Hitler-Stalin, l’intero corpo docente devo averlo letto sui giornali, oppure tutto questo è stato messo loro in testa da un qualche ministero, certo, penso, l’intero corpo docente dev’essersi messo nell’orecchio una pulce del futuro, in ogni caso ho detto spesso alla mia amica Lisa che non si prende una così nervosa malattia del futuro, come quella che ha il corpo docente, solo a causa di questo paese, dove nulla rappresenta un futuro, piuttosto tutto è uguale e lento, poi ho detto ancora a Lisa, la quale ha fatto spallucce, la quale ha fatto sempre e solo spallucce, ora mia ricordo, davanti al patto Hitler-Stalin.

Il signor Wolf era quello il cui corpo docente risultava essere il più colpito dalla malattia del futuro e che ha fatto il maggior sforzo per trasmettercela. Lui ha sempre confessato e detto che dobbiamo sbrigarci, che dobbiamo metterci in gioco, e l’ora dopo, reso del tutto demente dalla sua malattia, ha sostenuto l’esatto contrario. Dobbiamo trovare il nostro campo di specializzazione, ci ha comunicato in classe, ed una volta il mio amico Julian ha letto nel Törless o chissà dove, ha fatto questo per protesta contro il corpo docente malato, in contrapposizione con gli altri, i quali si sono lasciati contagiare senza fare opposizione, ma alla vista di Julian che legge al corpo docente di Wolf è scappata la pazienza, il lettore Julian venne afferrato sull’istante dal corpo docente di Wolf, il quale corpo docente, dopo averlo preso, chiese a Julian che aspetto avesse il suo piano per il futuro, e Julian se ne restò a lungo, molto a lungo, senza aprire bocca, infine disse di voler studiare scienze del teatro o sociologia e allora il corpo docente di Wols chiocciò e si mise a ridere: E che cosa vorresti iniziare a fare? Guidare un taxi forse? Ha, ha, così ha riso il regime del futuro che trascura l’uomo, lì presente nella forma del signor Wolf, il quale non si è vergognato di corrispondere in quel modo perfettamente al cliché dello stupido corpo docente d’intimidazione, ricordo ora, seduta alla mia scrivania. No, il regime del futuro, quello che si era impossessato di quell’uomo, rise in forma del tutto malcelata di lui, penso, e rise anche di me, perché  non volevo lasciare Julian da solo e ho detto: Signor Wolf, anch’io voglio questo, altrimenti vado a scuola di recitazione, ho detto, e lui si mise a ridere, senza dire nulla, semplicemente continuò la sua miserabile lezione sul futuro, poiché già da tempo a me non diceva più nulla, no, lui credeva che io non avessi bisogno di alcuna lezione sul futuro, perché secondo la sua opinione io non ho alcun futuro, perché io, come lui ha sempre diffuso, o meglio                     disseminato, nell’intero corpo insegnante, non sono indicato per il ginnasio. Ora è Astrid ad urlare, in forma sempre più acuta, tra poco comincerà ad insultare Götz, sento che sta piangendo. Ho la rabbia in bocca. Così serrata tra i denti che assaporo il rosso, e dovrei restarmene a sedere sulla mia sedia.

Alla finestra, testa all’aria, un’altra sigaretta. Sopra è appeso il cielo intaccato dalle montagne, sotto c’è la strada, silenziosa alla luce del lampione. Un piccolo braccio, questa strada, e su di esso è incollata la pensilina della fermata del bus di paese e ora e ogni giorno mi affligge, con il suo aspetto triste e insieme ridicolo e che io non voglio più aspettare, perché in fondo non faccio altro che aspettare e il luogo dove ho dovuto aspettare più spesso è la triste e insieme ridicola pensilina della fermata del bus di paese.  In città, via da qui, penso.

 

2

La città ha molte città in sé, ma di notte è un’altra, si penetra il suo ventre. Si deve sapere come vi si accede ed è stato Patrick ad aiutarmi ad entrare. Patrick, presso il cui appartamento ora abito, e di fronte al quale sono di nuovo in fuga, correndo lungo lo stomaco corsi via davanti a lui, che mi vuole possedere, che nella sua testa coercitiva funzionariale si è ficcato l’idea di possedermi, mi vuole avere nel suo appartamento da funzionario e vuole collocarmi accanto ai mobili come fossi un ulteriore mobile, in grado di rendergli più bella la contemplazione, Patrick è fatto così, penso, ed oggi Patrick vuole che io trascorra in piedi accanto a lui la festa più importante dell’anno, come diceva lui stesso, è essenziale, me l’ha spiegato oggi più di una volta, il suo intero, stupido comparto è presente, anche Sue, per cui lui ha assolutamente bisogno di me come quello che gira attorno a Patrick. Col pretesto di andare a prendere qualcosa ho potuto rubacchiare qualcosa e corro, respiro le luci, bevo, si dovrebbe essere sempre ubriachi, penso e bevo, bevo e cerco Jo, attraversando di corsa il ventre della festa.

Nessuno controlla quel che accade nel ventre. Ogni cosa è ostruita da persone e poveri che hanno bisogno di qualcosa e qui e qui sotto si cerca sempre di creare uno scandalo, cui deve seguirne una ancor più grande e le persone, irremovibili, si scambiano giudizi sulla dimensione delle sensazioni.

Quel giorno si passa da una casa all’altra, lungo le strade, dopo il lavoro, e nella notte si cerca qui una sensazione. La prima notte o bevuto tutto ed ho bevuto tutto ciò che ne è seguito, finché di me quasi non è avanzato più nulla. Lì c’erano dunque persone che si affrettavano per le strade e non si fermavano mai, che tuttavia anche qui sotto non si facevano mai riconoscere e scomparivano sempre. Poi però arrivò un tipo che mi prese tra le sue braccia. Era buio, portava una sottile maschera davanti al viso, che era un palcoscenico, ci siamo girati attorno. I suoi denti erano come case, sulla sua pelle percepii un livido ed attorno a noi era un continuo tirare, gli presi con forza la mano, così da essere sicuro di non perderlo. Sul suo collo sentii un odore che ho rimosso – per una cosa del genere non esiste una definizione, era fine e compatto, ed io volevo, volevo!    

Volevo conoscere il suo nome, ma non riuscivo a capirlo bene, riuscii a capire solo Jo. In seguito lui se ne andò e la mia unica speranza è di poterlo ritrovare qui, da qualche parte nel ventre. Anche ora sto cercando Jo, e all’improvviso compare Patrick. Se ne sta in piedi in agguato, con una bibita in mano, e mi cerca tra le teste che gli passano davanti, non fa altro che ricercare come un forsennato la mia testa. Mi fa cenno di avvicinarmi a lui. Patrick, penso muovendomi controvoglia verso di lui, è pericoloso ed è potenzialmente psicopatico, con lui, con lo psicopatico, ho stretto un patto.

Patrick, che vive nel suo noioso computer, Patrick, che nel contenitore del suo computer sopporta un piccolo cuore infiammato che lo fa impazzire e che lo frega sempre, penso io standomene in piedi accanto a lui, con la voglia di andarmene per cercare Jo, tuttavia sono costretta a restare accanto a Patrick, che ora afferra la mia mano e in testa sente risuonare un solo ordine, cioè legarmi saldamente a lui.

Patrick: sulla trentina, art director, lavora molto, un certo viso con occhiali con lenti affumicate.

Fluido, diafano, castrato.

L’essermi trasferita da lui è stato il mio più grande errore, penso ora, mentre lui stringe la mia mano nella sua e mi sorride. È accanto a me, immerso in una luce blu scura, il suo corpo riceve impulsi dalla musica, in realtà dorme, ma se gli nuota davanti un contatto professionale il suo viso s’illumina per un attimo, pronuncia un paio di frasi, poi riprende a dormire. Mentre dorme tiene la mia mano avviticchiata e controlla che io non mi allontani da quel punto. Da quando la ragazza, la sua ex ragazza Sue non vive più con lui Patrick non riesce più a dormire, come potei verificare una volta, di notte, entrando nella cucina che lui in precedenza aveva messo in ordine e pulito, e io di conseguenza mi ero svegliata.

Quella volta, in cucina, volli subito assisterlo, perché se uno ha problemi di sonno non può essere del tutto morto, dunque bisogna aiutarlo, pensai, cercando di convincerlo del più dilettantistico e più presuntuoso modo da figlia di psicologo per una notte intera passata in cucina), sì, si può dire che subito la notte della cucina, come anche io, aveva un’aureola, poi ci adagiammo tutti insieme sul suo letto, dove finalmente lui, che mi era vicino e mi teneva la mano, si addormentò, fatto che allora mi commosse ed oggi invece mi fa arrabbiare, di continuo, poiché io mi corico sempre accanto a lui ed ogni volta torno ad arrabbiarmi, divento sempre più arrabbiata, presto il letto esploderà ed andrà in fiamme. Lui non riesce più a dormire, penso, e per questo motivo si è creato un surrogato, ha fatto di me la persona surrogato di Sue che riempie il suo appartamento con il proprio odore e la propria voce. Il vero motivo dei suoi problemi con il sonno non è Sue. Sue gli è indifferente, lui ha voluto anche lei solo come surrogato, no, il vero motivo della sua problematica legata al sonno è la malattia della solitudine, dalla quale lui viene regolarmente divorato, che davvero lo inghiotte da tempo, come io stessa posso constatare di continuo da quando osservo la sua vita, consistente di lavoro, prodotti ed inviti e ancora, di lavoro, prodotti ed inviti. Patrick, penso, e lo osservo da un lato, il suo naso indifferente, la bocca indifferente, il viso assolutamente indifferente, Patrick gira per il mondo guidando una automobilina radiocomandata) e mi ha scoperto in una scaffalatura. Mi ha scoperto, mi ha tirato fuori e mi ha comprato, ed io, bisogna dirlo molto chiaramente, mi sono lasciato acquistare, perché io ho bisogno di futuro e Patrick, nel suo recinto terrestre, ha bisogno di una che se ne sta senza far niente, così va il commercio. Questa che gli deve stare intorno non è mica una qualsiasi, no, deve accordarsi cromaticamente; dev’essere assolutamente una che si possa vedere dal recinto, penso, e vedo Patrick grattarsi la testa recintata, la testa nella quale lui ora ahimè ficca tutti quanti.

Una ragazza, non una donna, dunque una ragazza che si possa vedere dal recinto, penso, è l’immaginazione di Patrick di una che al di sotto delle ciglia non ha neppure un pelo. Quando Patrick vede un pelo che non sia al suo posto diventa isterico e lo taglia immediatamente, perché ha paura di essere visto con una ragazza che abbia un pelo nel posto sbagliato, penso, e vengo presentata ad uno scrittore che si è fatto avanti con me e Patrick, i due incatenati. Patrick mi bacia per fini dimostrativi. Davvero, continuo a pensare, Patrick vuole collocare una ragazza nel suo recinto, una ragazza che assomigli a quelle che sono sulla sua rivista, fatto che conduce una volta di più il suo essere telecomandato al punto e raggiunge ancora il suo incredibile culmine, perché il suo culmine, penso, Patrick vuole che sia creato da una ragazza che sia sessualmente competente, ma che non abbia ancora fatto mai sesso e a questo punto, penso, l’essere telecomandato di Patrick, nella sua del tutto illimitata stupidità raggiunge il suo culmine. Inoltre, penso, la ragazza che si può vedere dal recinto, non dovrebbe fumare, o tutt’al più dovrebbe farlo solo occasionalmente, non dovrebbe bere, o tutt’al più dovrebbe farlo solo occasionalmente, occasionalmente dovrebbe dire cose che si ascoltano maliziosamente e queste cose maliziose dovrebbe declamarle con tono misurato, dovrebbe avere in vista un qualche ottimo titolo professionale, o ancora meglio dovrebbe essere già qualcosa di grandioso, ma non troppo grandioso, dovrebbe circondarsi della stessa arte, degli stessi libri, degli stessi giornali, degli stessi film, degli stessi mobili, degli stessi temi di conversazione di cui lui si circonda, in breve: lei dovrebbe essere completamente priva di vita e nel migliore dei casi essere morta.

Patrick, penso, nel mio caso deve aver calcolato male, non è possibile spiegarsi diversamente il fatto che mi abbia collocato nel suo recinto. Probabilmente, a causa della sua insonnia, pronto a fare concessioni, cioè non aveva piena capacità di giudizio, in ogni caso ha sbagliato i calcoli ed ora cerca di sbalordirmi per bene e di ritagliarmi per i suoi fini, e questo Patrick radiocomandato davvero nemico degli uomini, questo pericoloso giardiniere, si deve dire, se ne va in giro senza essere riconosciuto, men che meno riconosciuto da se stesso, penso, e questa orripilante situazione generale dimostra in sostanza solo ciò che io ho già intuito tempo fa, cioè che l’emancipazione, per la quale Carmen ha collocato in casa un ulteriore scaffalatura per libri è del tutto fallita e non riuscita. Da sempre l’avevo intuito, ora lo so con certezza: è fallita, è pienamente morta e defunta. La mia testa è qualcosa trasportato fin qui dal passato e collocato sui miei vestiti di contemporaneo, nulla di più. Nulla è cambiato in testa, si tratta di un asfissiante salone femminile con al suo interno rumorose bugie lavorate all’uncinetto che se ne stanno sparpagliate e nascoste, è pieno zeppo di bigodini e di tende. Tende che non ho collocato io, piuttosto le ha portate il giardiniere radiocomandato, il quale deve affiggermi e inchiodarmi alla mia intera vita e quanto a questo il giardiniere radiocomandato non ha sbagliato i calcoli, piuttosto ha fatto bene i conti, penso io annuendo ed osservo Patrick e lo scrittore, i quali devono cibarsi del loro noioso dialogo, i quali per motivi economici sono costretti a mangiarlo. Lo scrittore si gira sorridendo verso di me, Patrick si avvicina a una mia guancia. Mi accarezza un orecchio e mi sussurra che ora dobbiamo andare, io continuo ad annuire. Patrick, penso, è nel suo recinto, un uomo intimamente disorientato, uno cui sono cadute dal suo I-Phone direttamente nella testa circondata da uno steccato le attuali rivendicazioni temporali e le contraddittorie contraddizioni della vita, nella testa, lì dove lui obbedisce loro, dove quelle producono un caos che lui cerca di ordinare con tutte le sue forze, con violenza, penso. Per questo devo lasciare il più rapidamente possibile il recinto, l’area, già domani., penso. Posso andare alla toilette?, interrompo lo scrittore e Patrick. Lo scrittore aggrotta la fronte e incredulo guarda Patrick, il quale risponde sollecito con un cenno. Ringrazio e mi incammino per andarmi a prendere un’altra wodka e poi per sparire. Già domani lascerai il recinto, il potare deve avere una fine. Lui ti pota, tu ti lasci potare, insieme siete il commando del potare e tu sei la caporiona. Da qualche parte, nella fanghiglia tramandata da secoli che si conserva nel tuo cervello, penso, è scritto che tu vuoi farti coltivare da un giardiniere. Anche a te, penso, devono essere cadute in testa diversi attuali avvisi. Su questa fanghiglia tramandata sono cadute le trasmissioni: cioè, non conviene assolutamente mettersi nelle mani di un giardiniere per lasciarsi poi gestire da lui. La fanghiglia non si concilia con le attuali trasmissioni, le quali suonano così: Devi essere del tutto libera, devi essere femminile, devi essere come un uomo, devi essere sessualmente libera, fai sesso nel modo il più possibile spudorato, lasciati infilare dappertutto e fallo con la massima coscienza (per questo motivo non voglio e non posso avere nulla a che fare con gli atti sessuali, davvero, non posso farli). Le trasmissioni di propaganda che mi sono cadute in testa, continuo a pensare, hanno causato insieme con la fanghiglia tramandata un’esplosione ed hanno lasciato alle spalle un testa completamente irritata, una testa distrutta, una testa di licantropo, penso. Di giorno lui è la testa della moglie che lavora all’uncinetto, quella che parla di buon grado di prodotti con Patrick e così facendo lo aiuta a dormire, la testa della moglie però ha una via d’uscita, si trasforma nell’orrenda testa di licantropo, che è posseduta da un’abietta furia distruttiva, riguardante il radiocomandato Patrick, proprio così, penso. Davanti alla toilette incontro lo scrittore, il quale deve avermi seguito, mi chiede se vado con lui a una certa festa, sì, rispondo, ed urto Patrick, che mi stava cercando, che mi afferra il braccio e che dice di volersene andare, vieni con me, subito, dice, agguanta, vuole condurmi via. Mi libero, continuo a camminare, mi faccio largo tra la gente in direzione dell’uscita, seguito da vicino da Patrick, il quale cerca di afferrarmi, fuori lo scrittore chiama un taxi e vi sale, Patrick si ferma, da solo, viaggiamo attraverso la città, che è piena di luci, il taxi già vi s’immerge in altre, dopo 88 notti passate nel ventre della festa sono distesa, tra altre persone, in compagnia dello scrittore sotto un bar, un apparecchiatura speciale mi fornisce vodka e pasticche, ciascuno rigetta qualcosa dentro, lo scrittore s’adagia sopra di me, cola del sudore dai suoi capelli da musicista, lentamente diventeranno grigi, per questo piange, si stringe a me, così che siamo una cosa sola, due corpi distesi l’uno accanto all’altro che non si appartengono, penso, guardo noi due, volto la testa di lato ed osservo se riesco a vedere Jo sopra di me tra le persone che ballano, ma vedo solo uomini tremanti, non so dire se per gioia o per paura. Gattono via alla ricerca di un’uscita, vedo gambe battere a ritmo di techno sul pavimento, mi colpisce un calcio di lato, me ne sto distesa radente e vedo i piedi scalpitanti, penso, no, stanno marciando, poiché i piedi non fanno altro che marciare con passo cadenzato e le mani, nella parte superiore del corpo, sono sollevate in posizione di attenti, in aria, dove, ben ordinate, esultano e marciano per allontanarsi dalla loro quotidianità, penso, e sento il mio naso spaccarsi. Techno, la musica da marcia che calpesta a morte il singolo creata per l’istupidimento generale, la tecnologia per diventare stupidi, ciò che di più stupido l’umanità abbia creato in musica, techno sarà il declino di noi tutti, penso nel momento in cui non mi arriva più l’ossigeno, perché qualcuno è in piedi sul mio torace ed inizia a saltare, Hitler avrebbe ascoltato volentieri la techno ed avrebbe ordinato la techno per l’intera nazione, così anche il mio corpo insegnante, tutti loro devono aver ascoltato la techno quando vennero loro in mente le disinfettate idee di standardizzazione, anche Götz, probabilmente anche lui è uno che ha ascoltato segretamente la techno. Techno, penso, mentre la musica va crescendo e le distanza tra i balordi si riducono, la musica degli intenzionalmente ebeti, di quelli cui non interessa nulla, che non cercano più nulla, se non la loro preghiera techno, penso e striscio sul pavimento, dove raccolgo i miei denti, che decido subito di vendere come pasticche, qualora la mia condizione di salute me lo permetta. Notte dopo notte il ventre fumante, sulla parete tinta di nero è appesa arte realizzata con organi strappati, cellofanati in pellicole di plastica, notte dopo notte, vedo, due s’incontrano in un bar e si piacciono.

Che cos’è?

È uno sguardo di occhi che osservano con esattezza, è forse il palpitare schivo che quelli colgono nell’altro, è un effluvio caldo che quelli ingeriscono assetati dalla camicia dell’altro dopo un incontro.

Si barricano, anche il bar viene imbracato per sicurezza con bandierine di segnalazione. Sul bancone inchiostro nero e l’accordo, perché dev’essere anzitutto chiaro: non posso lasciarti entrare, da me, qui, è stato staccato qualcosa e non è stato risistemato, non chiedermi che cosa, chiedi piuttosto ai miei genitori e volentieri e subito voglio dispiegare qui, davanti a te, in questo bar, il mio complicato carattere. In ogni caso tu non puoi volere troppo da me, ed io ti prometto che io non vorrò troppo da te.

Con poche parole i due avvolti nel nastro di sbarramento sottintendono che si è pronti a qualsiasi cosa, e tuttavia non ci si vede sostanzialmente preparati rispetto a quella specifica questione, dunque abbandonano il ventre e si distendono su di un letto che la mattina successiva si mostra d’un bianco pallido e insudiciato di sangue, perfino freddo, poiché uno di loro due, conformemente all’accordo, sta pulendo velocemente la camera piena di sangue, proprio così, così ho inteso continuamente da quello che sta urlando per il dolore, così accadrebbe anche a me se non scappassi via sempre al momento giusto per vanificare lo strappo del mio cuore, fatto che certo puntualizza l’enorme problema dell’annientamento del cuore. Il ventre nel quale tu nuoti – un ben impiantato progetto di annientamento del cuore, un’officina di maltrattamento del cuore, strappare, abbandonare, non volerne più sapere. Sfilano volti calcarei, di color violetto e bagnati, nuoto in mezzo alla calca e voglio uscire, cerco una gola, la gola di Jo, ma mon la trovo, solo Patrick che mi trascina ed io guardo nei suoi occhi, posso attraversarli, penetrando l’oscurità, non accade più nulla, nulla più accade, mi tira la mano, quella che stacco da lui, e scappo via, continuo a nuotare, ancora e per tutta la notte nel ventre, dal quale non riuscii ad uscire.               

 

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