Martin von Arndt, Stuttgart (D)

Martin von Arndt, nato a Ludwigsburg nel 1968. Vive a Stoccarda e Pécs. Arndt è stato proposto per il concorso da Alain Claude Sulzer.


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Martin von Arndt

La morte è un postino con il cappello

(estratto da un romanzo)

 

La morte è un postino con il cappello. Ogni primo mercoledì del mese mi consegna una raccomandata. Mi porge il suo terminale portatile ed una penna che sembra un chiodo da carpentiere ritorto ed io scarabocchio un grande cerchio con al centro un uncino da destra verso sinistra e dall'alto verso il basso, qualcosa che assomiglia ad un'ardita, incerta e tuttavai troppo facilmente riconoscibile firma. Poi, lui che mi da del „tu", accenna ad un sorriso e indica di sfuggita con l'indice il suo copricapo, un cappello tirolese. Gli propongo una grappa al ginepro in uno stamperl. Butta giù il distillato gettando la testa all'indietro, chiude gli occhi, digrigna i denti, fa un attacco glottale con la lingua, ride, dirige nuovamente di sfuggita l'indice verso il cappello e si volta verso la soglia. Lo seguo per un attimo con lo sguardo, il suo andare barcollante prodotto dalle gambe a tenaglia, infine rientro in casa con il bicchiere vuoto e la raccomandata. Mi siedo al tavolo, arretro di poco la sedia per poter accavallare le gambe. Aspetto. Aspetto ed osservo la bottiglia di grappa al ginepro, una volta piena, un'altra volta mezza vuota, un'altra ancora vuota, oppure il bicchiere da grappa. Conto le mosche sul soffitto. Uso la grafia Sütterlin per gli insetti. Un cellulare silenzioso. Aspetto. Un'ora, o due. Non apro la raccomandata.

Quando è il momento, può accadere improvvisamente oppure in forma calcolata, mi avvicino con la sedia al tavolo ed apro la busta. Forse è la volta buona, esulta qualcosa in me, tuttora, di fronte ad una nuova uscita dal gioco. Ma no, di nuovo solo il foglio vuoto piegato una sola volta. La carta bianca che ritorna ogni mese, una scrittura anonima su di una busta di formato standard, con timbratura automatica. Oggi come il mese scorso. Come il mese precedente. Oggi come sempre.

Martin von Arndt (Foto ORF/Johannes Puch)

La prima raccomandata la ricevetti quasi due anni fa, per il mio quarantesimo compleanno. Il postino confrontò il nome sulla busta con quello che c'è sul mio passaporto, di cui volle prendere visione. Rimase sbalordito quando vide che sono tedesco, alzò le spalle, mormorò qualcosa in tirolese, forse qualcosa per scusarsi, ebbe dunque motivo per credere che non ero un balordo e si toccò il copricapo. Poi, dopo che ebbi firmato, mi consegnò una busta senza mittente, vidi sparire il cappello per le scale e credetti fosse definitivamente scomparso in uno di quei particolari vicoli austriaci. Quelli che portano le raccomandate, qui, hanno quel cappello, che non è un berretto, non è una cuffia, ma è proprio il cappello tirolese. Qui è tutto un po' folcloristico, pensai.

Tirai fuori il foglio vuoto dalla busta mentre mi lavavo i denti. Lo esaminai da entrambe i lati e rovistai la busta finchè non fui certo che non conteneva altro. Di certo una svista, il mittente si sarà arrabbiato a dovere quando si è accorto che gli importanti documenti si trovavano ancora sulla sua scrivania e che a sue spese non aveva spedito nulla, o qualcosa prossimo al nulla. Si sarà prefisso di mettersi ancora all'opera, ma con maggiore concentrazione, per preparare una nuova busta.

Nonostante il primo impulso, non gettai via la raccomandata. Era così indubbio che il mio nome si trovasse nello spazio del destinatario e che non ve ne fosse in quello del mittente, che se lo avessi distrutto mi sarei sentito prepotente e impietoso.

Avevo quarant'anni. Esattamente un anno prima Ines aveva spruzzato acqua di rose bulgara sui mazzi di fiori sparsi un po' dappertutto nel nostro appartamento comune (perchè le rose, aveva sottolineato lei, oggi come oggi non profumano più come dovrebbero), aveva restituito le chiavi e aveva messo tre copie autenticate dei nostri documenti di separazione sul tavolo della cucina.

„Ne ho fatte un paio per te, ce n'è sempre bisogno."

Al solito, Ines non bevve per intero il suo caffè e poggiò il bicchiere nel lavandino (con quello che era rimasto del liquido, come al solito e come se nulla fosse successo, giorni dopo insudiciai il pavimento davanti alla lavastoviglie). Poi poggiò fugacemente la sua fronte sulla mia - annusai il profumo dell'acqua di rose - e disse: „Il ficus e i fiori restano a te."

Annuii. Non ho conservato solo il ficus.

Quando successivamente Ines annunciava una visita, prima del suo arrivo mi dedicavo all'ispezione dell'appartamento per nascondere tutti gli oggetti che potessero ricordare il tempo trascorso insieme a lei. Non volevo darle l'opportunità di abbassare la testa, di scuoterla soavemente di qua e di là e di mormorare con una lieve delusione nella voce: „Ah sì, il passato è passato."

Il passato è passato. Pensai al suicidio. Oppure non vi pensai. E se non vi pensai fu solo perchè non avevo alcun desiderio di emulare proprio mio padre. Lui che mi aveva cacciato in un bell'impiccio. I miei giorni trascorrevano tutti uguali e non sapevo come dare loro una personalità. Mi alzavo (troppo presto), mi facevo il caffè (che non mi piaceva), mi rimettevo a letto, sebbene sapessi che dal punto di vista morale non mi avrebbe fatto bene. Mi rialzavo (troppo tardi), me ne andavo in una tavola calda, mangiavo esageratamente, oppure solo un infinitesimo di quello che avevo ordinato; potevo proibirmi appena la via per il Trafik, volevo quantomeno fermarmi tenace di fronte a me stesso, infine mi ero disabituato al fumo; anche se l'avevo fatto solo perchè davanti ad Ines volevo presentarmi ancora una volta come un uomo nuovo.

L'occasione della sepoltura di mia madre è stata l'ultima volta che sono stato con Ines in Germania, quello è stato l'ultimo viaggio che abbiamo fatto insieme.

Già quando ci ritrovammo seduti nel treno notte diretto verso nord lei sapeva che ci saremmo separati, ma solo dopo la sepoltura e dopo avermi concesso un paio di mesi di lutto. Ines era venuta con me perchè non voleva lasciarmi da solo, non poteva lasciarmi con i miei sentimenti contraddittori in un momento nel quale la nicotina non mi avrebbe più assistito.

Il contatto con mia madre era stato piuttosto sporadico. Da un momento all'altro non ero più stato in ballo per alcuna tournée, l'industria musicale europea era ridotta in macerie, si credeva alle agenzie musicali. Tra me e mia madre non c'era nulla da dirsi al telefono, neppure i suoi rimproveri di mezz'ora, avrei sperperato la mia giovinezza, il suoi soldi spesi per la mia formazione musicale, la mia vita intera, e in quel momento non dovevo diventare come mio padre. E non potrebbe più speculare neppure più sulla giovane generazione, la mia Ines ed io, e dovremmo lasciare il mondo alla rucola e alle formiche, i bambini semplicemente non sono più di moda.

Tutto questo avveniva una volta, era ciò che permetteva un contatto, attraverso le telefonate.

Allora, dopo che c'eravamo scambiati parole di saluto e ci eravamo informati reciprocamente sulla nostra salute e sul tempo in Germania e Austria, tacemmo. Tacemmo per un quarto di euro. Poi lei disse: „Dondoli ancora con la sedia?"

„No."

„Eppure sento che cigola."

Espirai, rimisi a terra le zampe anteriori della sedia in maniera infinitamente silenziosa.

„Davvero no?"

„Ma no."

„Non dovresti dondolarti con la sedia. Ti spaccherai la testa."

Un altro quarto d'euro se andò nel silenzio. Infine dissi:

„Mamma, ora riaggancio."

„Va bene", rispose lei, „fallo."

Infine attaccò lei prima di me.

Ines non voleva lasciarmi da solo con una madre morta, con il lascito di una madre morta in testa prima che lei, Ines, lasciasse me. Avevo messo in conto seriamente di poter piangere al suo petto, di sperimentare quella dolce, silenziosa purificazione che avrebbe agito sul nostro rapporto in maniera unificatrice. Invece, nei tre giorni nei quali c'immergemmo nel lascito di mia madre ci ritrovammo più lontani che mai. Mia moglie svolgeva il lavoro principale, cercava di tenere lontano da me tutto ciò che fosse sgradevole, tutto ciò che sembrasse porre problemi. Lei ripulì l'appartamento di mia madre, che aveva occupato poco prima dell'abbandono. Smistò, ordinò, deide indicazioni ai bonificatori, corruppe i giardinieri del cimitero per la cura della tomba, parlò con il vecchio notaio, il quale aveva annunciato solo che della mia eredità non era rimasto nulla. Mia madre aveva vissuto in un lusso che pure faceva contrasto con ciò che appariva. Ines riaccostò a me tutta quell'anticaglia d'infanzia che nessun altro era riuscito a farmi sentire così vicina. E la allontanò definitivamente da me. Quella vicinanza sembrò attaccarsi a lei, a me. Ines temette questo, rifuggì il contatto con me, mi si negò. Forse perchè io continuavo ad essere una parte di quella madre i cui sudici depositi dell'incontinenza lei aveva tirato via dalla toilette otturata, e tuttavia sarebbe rimasta sempre una parte di lei, quello era ciò che sarebbe rimasto di mia madre.

 Martin von Arndt (Foto ORF/Johannes Puch)

In quel periodo dormimmo in un albergo a ore. Ines aveva insistito per evitare almeno di passare quelle notti nell'appartamento di mia madre. La sera prima della nostra partenza era stata ancor più silenziosa. Era tutto a posto. Una volta per tutte. Avremmo portato con noi solo il ficus, che a lei dispiaceva lasciare. Uscì dalla doccia, i capelli che aveva lasciato crescere fin sulle spalle ancora bagnati, si buttò sul letto e si sfregò le tempie. Sembrò come le stesse arrivando il mal di testa. Con quella sua voce scura e roca che mi aveva stregato fin dall'inizio del nostro rapporto, Ines disse gemendo:

„Per favore, vammi a prendere un bicchiere d'acqua, Jo."

La roteazione delle dita sulla sua tempia divenne più ostinata, mi affrettai a scendere le scale. Volevo portarle la migliore acqua che avesse mai bevuto. Un'acqua che lei avrebbe preso non solo per il mal di testa, no, un'acqua che avrebbe contenuto la mia stima per i suoi sofrzi degli ultimi giorni, un'acqua che le avrebbe fatto dimenticare completamente quei giorni, un'acqua che avrebbe posto il nostro rapporto su basi del tutto nuove.

Il distributore automatico delle bibite se ne stava abbandonato nella semioscura zona dell'ingresso. Infilai una moneta, un led mostrò la situazione del conto: - 01,00 €. Lì accanto un'etichetta adesiva indicava quali fossero i contenitori vuoti. Cercai il numero della mia bibita, del resto c'era rimasta solo acqua e le bottiglie si trovavano in quattro contenitori l'uno dietro l'altro: evidentemente i restanti ospiti dell'albergo si mantenevano in vita con la birra. Controllai il numero e scelsi. Non accadde nulla. Poi stancamente si mosse uno dei contenitori, ci fu un cigolio, come si stesse accertando che qualcosa stava accadendo, ma la bottiglia non scese, il comparto di prelevamento rimase vuoto. Per un attimo ci fu uno tremolio del numero che indicava il led. S'illuminò il -01,00 € , poi tornò allo 00,00. Rimasi lì, senza più monete. Ancora una volta ho sbagliato, pensai mentre me ne tornavo di sopra camminando furtivo.

„Già fatto", sembrò voler dire lo sguardo di lei. Ines s'era già arrangiata con l'acqua del rubinetto.

Durante il viaggio di ritorno verso Innsbruck sedemmo nel vagone ristorante, il treno era strapieno, avevo dimenticato di prenotare i posti. Ines osservava ogni tanto il mio volto rispecchiato nel finestrino (facevo finta di non accorgemene), oppure abbassava la testa, scuotendola di qua e di là, le sue dita indicavno il caffè versato sulla superficie del tavolo. Punto, punto, virgola, trattino, ecco fatto il volto della luna, un lungo formaggio, il burro rotondo. Ecco fatta la suocera. Sospettai che lei volesse eliminare mia madre dai tratti del mio viso, ma non le riuscì.

Mi concesse due mesi di lutto.

Chi, presi a domandarmi, s'azzarderebbe a spedirmi ogni mese una raccomandata vuota? E per quale motivo? Quelle lettere, forse non erano nient'altro che un brutto scherzo? Il foglio vuoto lo avrei attribuito a Ines, almeno finchè restammo una coppia. Sarebbe stato confacente con i rimproveri che esternava ogni mattina prima di andare al lavoro. Dal momento in cui non ricevetti più commissioni, da quando iniziai a passare il mio tempo a casa e non allo studio.

Lei non poteva stare con uno che gestiva la propria vita così, senza aspirazioni e, soprattutto, al di là della carriera, regrediva. Lei non poteva prestare attenzione ad uno che non ne chiedeva, semplicemente perchè quello non prestava attenzione neppure a se stesso. Lei non sapeva come avrebbe potuto preseguire quella storia. Io avrei dovuto tentare, almeno una volta.

Ci provai. Decisi che ci avrei provato almeno una volta, così che Ines alla fine sapesse come sarebbe potuta proseguire. Sebbene io non sapessi bene che cosa potessi tentare.

Martin von Arndt (Foto ORF/Johannes Puch)

La storia di ogni relazione è storia di conflittualità nel rapporto. Avevo seguito Ines a Innsbruck, perchè volevo esserle accanto. Un vecchio compagno di scuola che lì da giovane aveva partecipato ad un concorso per un posto in un'orchestra, faceva lo spaccone. Secondo lui Innsbruck era una perla, peccato che ancora nessuno avesse trovato l'ostrica nella quale si trovava e tantomeno l'avesse ancora aperta. Inoltre, vi si trovano per caso molti studi di logopedisti, dunque, forse, il dialetto regionale andrebbe studiato sui libretti sanitari.

Perchè no? Pensai. Avrei potuto trasferirmi a Innsbruck e fare almeno un tentativo.

Così finii in un circo musicale che mi spedì in giro per mezza Europa. Suonavo melodie naif nella semioscurità del fondale di un palco. Era come se ogni sera si percepisse da me la corretta sequenza delle lettere dell'alfabeto e fosse questo il motivo per cui venivo applaudito con entusiasmo.

Avevo un lavoro che ogni mese versava importi a quattro cifre sul conto corrente che Ines sapeva controllare con competenza. Ciò che continuavo a non avere era la soddisfazione circa la coscienza di aver fatto quel tentativo, di aver trovato quella cosa.

Eppure amavo tornare nelle prime ore del mattino, disperato e senza aver dormito, puzzolente di un soggiorno durato settimane in un Nightliner, infilarmi nel letto accanto a Ines senza aver fatto la doccia e intuire i raggi del sole impigliati sotto la lanugine bionda del suo braccio. I raggi del sole e l'odore del cacao. Ines andava matta per la cioccolata. Da ogni tour le portavo una specialità dolciaria. Lei le mangiava come altri bevono il vino, oppure no, perché il buon vino viene masticato, in ogni caso lei sminuzzava la cioccolata e faceva sciogliere il frantume in bocca. La beveva con regolarità. Mi ricordo che il liquido che le leccavo sulla pelle tra il pube e il femore, e dunque facevo mio, sapeva sempre un po' di noisette. Dopo aver fatto sesso Ines metteva una gamba su di me, mi avvolgeva, per adagiarsi, per coprirmi, per nascondermi, per difendermi dal mondo là fuori che da lì a pochi giorni mi avrebbe sottratto alla sua presenza. Non le avevo mai raccontato che da bambino me ne stavo sempre interamente disteso sotto le coperte, in modo tale che non passasse neppure un filo d'aria. Non tanto per difendermi dal freddo, piuttosto per avere la percezione della sicurezza e della protezione in tutte le direzioni. Ines sembrava sapere tutto questo, sembrava sapere molto di tutto ciò che io non le avevo mai raccontato. Questo era uno dei motivi per cui ho sposato Ines.

Ines è stata la prima donna della mia vita a non aver giudicato mio padre. Nel mio paese della bassa Sassonia lo sapevano tutti: ero figlio di un suicida. Ognuno sapeva qualcosa, ma nessuno conosceva i dettagli. Una situazione che le ragazzine sopportano con fatica.

Mio padre un giorno andò nel bosco e non tornò più indietro. Venne trovato la mattina dopo vicino alla sede del circolo dei cacciatori sportivi. Si era sparato alla testa con il suo fucile da caccia. Un colpo ben assestato, ci vollero due giorni per grattare via il sangue e i resti del cervello dalle pareti di casa e riverniciarle. Mio padre si era sparato sebbene, oppure proprio perché era un ingegnere di successo. Niente debiti, niente colpa. E mia madre pensò: neanche depressioni. Non c'era alcun motivo per uccidersi così, nel pieno della maturità e all'apice della carriera. Una bellissima morte che necessitava di una spiegazione. Nulla poteva rendere più interessante per le ragazze della sua età di un giovane sedicenne con le mani sporche del sangue raschiato, che, a causa della flaccida magrezza lasciava risaltare le ossa puntute di braccia e spalle, era di una antisportività che rasentava il mostruoso.

La passeggiate serali condussero con un bella regolarità me e le mie compagne di scuola nel bosco, dove loro, quando la casa dei cacciatori era ormai a vista, alzavano gli occhi verso di me e bisbigliavano le loro domande: "Senti, perché l'ha fatto, tuo padre?"

L'avessi saputo, l'avrei detto davvero volentieri, anche solo per chiarire quel punto dolente tra noi e per usare la bocca per qualcosa di più stimolante. Ma non lo sapevo. E le mie aspiranti fidanzatine non volevano concedere i loro baci senza contropartita.

Ines era diversa. Aveva diciassette anni, ormai pienamente sviluppata e, al contrario di quella che l'aveva preceduta, era già una donna, con un seno bello sodo e dritto. La sua pelle era color bronzo scuro, aveva un classico profilo romano, con le sopracciglia ben sporgenti, un taglio alla maschietta e i capelli colorati di nero scuro. Lei non voleva andare nel bosco, ascoltava la storia che gli raccontavo, accarezzava le mie mani, faceva spallucce e portava le sue labbra sulle mie per mordere il mio inferiore. Poi mi baciava ghignando. Come contropartita dovevo prometterle soltanto che non avrei preso in mano un fucile.

Mi rifiutai di fare il servizio militare.

Piuttosto iniziò lo studio della chitarra.

Quando avevo sette anni mio padre mi regalò una chitarra "wander". Lui era assolutamente sereno nella sua musicalità, ad ogni manifestazione delle capacità che col tempo acquisii su quello strumento guardava stupito ed ammirava come si trovasse di fronte ai rendimenti di un precoce genio matematico. Qualcosa rimase al di là della sua capacità immaginativa. Suonavo volentieri, ma non facevo progressi reali. Solo dopo la morte di mio padre presi davvero sul serio le lezioni. Quando suonavo, sosteneva mia madre, ero al cento per cento me stesso e insieme mio padre. Ma questo non era del tutto vero. Quando suonavo, se non altro non si vedevano più le mie mani graffiate sanguinare. Oppure non le si guardava neppure. Si faceva attenzione alla mia faccia, non ai miei movimenti. Ispiravo il mio piglio elegiaco a quello dei grandi chitarristi del jazz. E, irrimediabilmente, non solo il piglio.

Mia madre era commossa e avrebbe finanziato tutto ciò che mi avrebbe impedito di diventare come mio padre. Ed Ines, con la quale stavo ormai da più di tre anni vedeva prospettarsi per me una splendida carriera. Andava matta per le mie dita da musicista, le accarezzava, appena avevo finito di suonare le metteva in bocca (sapevano di metallo, la corda del "mi", quella del "la" e quella del "re" avevano infuso sulle dita il loro aroma.), e voleva che la saziassi con la mano. Sognavo le mie dita nella bocca di Ines e tra le sue cosce. Piuttosto non ho mai sognato una carriera. Carriera è stata per me come un'esplosione nella notte che nessuno aveva sentito, e spruzzi di sangue a quelli pareti che bisognava reimbiancare al più presto, altrimenti che cosa avrebbero pensato gli amici cacciatori?

 Martin von Arndt (Foto ORF/Johannes Puch)

Assolvetti al mio studio senza inciampi, non potevo deludere Ines e mia madre. La chitarra era un cordiale animale domestico che da me esigeva poco. Tuttavia, dopo poco tempo che c'eravamo sposati, Ines smise di usare lo strumento come stimolatore sessuale tra noi due. Quando tornava dall'acquisto del pane e mi trovava con la chitarra in mano lei eludeva il mio sguardo e silenziosa posava la spesa sul tavolo della cucina. Le avevo proposto che facessi per alcuni anni il casalingo, ma lei pretendeva di più da me. Più iniziativa. Non voleva prendere tutte le decisioni sempre da sola, non essendo in grado, io, di mettere alcunchè di mio, nulla di originale.

Ines prese il bricco dalla caffettiera per versarlo ad entrambi.

Avevo apparecchiato il tavolo della colazione come sempre. Volevo segnalarle che con lei mi alzavo volentieri prima del necessario. Lei spalmò del formaggio magro su di un mezzo panino.

"Tu volevi sempre e solo tornare alla tua infanzia. Mentre io voglio diventare finalmente grande."

"Come dici?"

Posai la tazza con il caffè. Il mio sguardo cadde su due zollette di zucchero accanto al mio piatto.

"Cos'è che non hai capito?"

"Perché mai dovrei volere indietro la mia infanzia?"

"Forse perché te l'ha sottratta tuo padre?"

"Mio padre si è suicidato quando avevo sedici anni. Un po' troppo tardi per l'infanzia."

"E come chiameresti il tuo tentativo di non essere costretto ad assumere alcuna responsabilità per la tua vita?"

Restai sorpreso. Dissi: „Rock'n Roll?"

„Dio, Jo...!"

Ines strabuzzò gli occhi, scosse lentamente la testa a destra e a sinistra.

"Pensavo proprio a questo."

Ines aveva finito il secondo panino e si diede da fare col caffè.

"Ho la sensazione che non ti dai più da fare", disse parlando dentro la tazza; lei oracoleggiava e, pur con tutta la buona volontà, non sapevo che cosa volesse dire.

"Certo che mi sforzo, certo che questa è fatica -"

"Dunque ti costa fatica vivere con me?!"

"A me?"

„Sì, a te."

„Penso piuttosto che sia tu a fare fatica con me."

"Facile."

„Che cosa?"

„Cambiare le carte in tavole. Te la fai comoda."

„Non volevo dire questo, io -„

"Che cosa?"

„Merda, ho perso il filo."

"Ora devo andare."

„Tu ora devi andare."

Lei doveva andarsene davvero.

Ciò che auspichiamo e ciò che otteniamo - due paia di stivali, entrambi stringono. Questo deve aver pensato Ines quando il ribrezzo le era scritto in volto, quando mi gettò uno sguardo di commiato, mentre io col coltello col quale avevo tagliato il burro e il pane rimestavo il mio caffè, per non sporcare un altro cucchiaio o semplicemente per risparmiarmi di andare a prenderne un altro nel cassetto.

Avevo seguito Ines a Innsbruck perché volevo rimanerle accanto. E perché non poteva finire in quel modo.

Ines non annunciò la sua ultima visita, io non avevo tempo per liberare il mio appartamento dai nostri ricordi. Scrollò la testa d'un lato, poi dall'altro.

"Quanto dovrà durare ancora questa storia?" domandò mentre stava preparando il caffè. Nella mia cucina sapeva muoversi. Ne aveva ancora tutto il diritto.

"Non ho idea", mentii, "non ho idea di che cosa tu stia parlando."

"Tu non hai idea di che cosa stia dicendo. Se almeno non volessi dimenticarmi, questo sarebbe comunque lusinghiero. Ma tu non puoi dimenticarmi. Si tratta ancora una volta di qualcosa di meccanico. E qui non c'è neppure un briciolo di cocciutaggine."

La osservavo di lato. Le sue guance sembrarono più flosce, lo zigomo emergeva meno nettamente. Ines era diventata più grassoccia. La macchinetta del caffè rantolava, Ines ne mise una tazza piena davanti a me, sul tavolo. Tenne lo zucchero in zollette a portata di mano. Ci conoscevamo da quasi 25 anni. Continuava a non sapere come prendessi il caffè (bianco e senza zucchero per il suo nuovo compagno, un gioielliere di successo, notò lei già dopo il loro primo incontro). Ne bevvi un lungo sorso (nero, senza latte), presi una delle sue sigarette e lei l'accesi circostanziato.

"Fumi di nuovo?", domandò lei.

"Sì."

"Da quando?"

"Da ora."

Ines storse le labbra facendone un piccolo ovale e storse il naso. Su questo non avevo mai mentito. Fumo ora solo per sentire libere le mie mani. Sentirle libere dal suo sguardo, per non percepirlo oltre sulle mie nocche.

Decisi di metterla alla prova confidandomi con lei. Raccontai a Ines delle mie lettere. Sbadigliò e si slisciò una ciocca bionda di capelli sulla fronte, che, come al solito, s'era impigliata nel suo (nostro?) anello.

"Questa sarebbe una - lettera?", domandò Ines, prese una sigaretta e mi sottrasse con movimento rapido dell'indice il pacchetto che si trovava sul tavolo della cucina. Mi sentii offeso, rimise lì il pacchetto. Ines capì il mio stato d'animo e tornò sull'argomento con voce più tranquilla: "Può essere una lettera, questa, se non c'è scritto nulla, Jo? Credi davvero che questa sia una lettera?"

Non volevo discutere. Ma discutemmo. Dopo un'ora e mezzo di ostinato qui e là e su e giù, durante il quale, tra le altre cose, mi consigliò di rivolgermi alla polizia,Ines, osservando l'orologio da polso, concluse con queste parole:

"Rifiutala."

Annuii, osservai anch'io il suo orologio e dissi: „Devi andare."

Il nostro incontro mi aveva sfinito. Tanto più che mi aveva mostrato come Ines non avesse capito nulla. Rifiutala - che stupidaggine! Come se in quel modo potesse cambiare qualcosa. Sarebbe come urlare ad uno che sta affogando: "Rinfrescati le membra, amico, e nuota!"

Sapevo che avrei ripreso a fumare, che Ines non avrebbe smesso di desiderarmi, senza riamarmi tuttavia, e che lei dunque s'era trasformata nella moglie di un gioielliere, prima di spedirmi quella raccomandata.

Mentre ci davamo il cameratesco bacio di commiato mi raccontò che il suo compagno sta già aprendo una nuova filiale, a Bregenz stavolta. Mi ricordai che l'ultima raccomandata aveva il timbro postale che indicava proprio Bregenz come località di partenza.

Due giorni dopo sarebbe stato il primo mercoledì del mese.

 

Vito Punzi

 

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