Thorsten Palzhoff, Berlin (D)
Thorsten Palzhoff, nato a Wickede nel 1974, vive a Berlino. Palzhoff è stato proposto per il concorso da Ijoma Alexander Mangold.
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Videoritratto
Thorsten Palzhoff
Livia
Due mesi e mezzo dopo l'esecuzione capitale di Ceauşescu, una troupe della televisione tedesco-occidentale filmò l'abbattimento della statua di Lenin nella piazza della Stampa, a Bucarest. Per le riprese era stato previsto un intero giorno di lavoro, ma i lavori si prolungarono oltre il previsto. Subito dopo, le prime scariche dei martelli pneumatici erano riecheggiate sulle pareti della Casa della Stampa, di fronte alla quale da decenni si trovava la statua alta otto metri, ad esortazione e minaccia, gli operari scoprirono imprecando che il colosso era ancorato al basamento in marmo grazie ad incredibilmente spessi puntoni in bronzo. L'abbattimento di Lenin si trasformò in un esercizio di pazienza. Il vento soffiava freddo da sud attraverso il Boulevard Kiseleff, da lì, dove si profilava l'arco di trionfo in una lontananza annebbiata dallo smog, qualcosa come un'immagine di sogno parigina. Ad ogni raffica più forte la sabbia sollevata veniva soffiata negli occhi dei curiosi e piano piano insudiciava sempre più le telecamere presenti e si posava come una sottile pellicola sull'obiettivo. Quando si fece sera, alcuni dei passanti si fecero il segno della croce alla vista delle luci smorte che provenivano dai saldatori e dalle macchine tagliatrici degli operai e al loro guizzare le gambe di Lenin sembravano tremare. Il giorno successivo, il 6 marzo 1990, quando non c'era ancora verso di avere ragione della stabilità della statua, usando una scala dei vigili del fuoco, due operai salirono sulla testa di Lenin e gli posero una spessa fune d'acciaio attorno alla gola. Appena un'ora dopo si era arrivati a questo punto: con l'aiuto del cappio da forca in acciaio e della forza di trazione di una gru, col plauso di centinaia di spettatori, si riuscì a strappare alla terra le sette tonnellate di Lenin e a trascinarlo nel cielo grigio.
La statua venne scaricata in una nave. Disposta per lungo sul ponte, come si trattasse di una salma, risalì il fiume Colentina come si muovesse al rallentatore lungo un cordone di uomini silenziosi, ed il gesto, prima così visionario, col quale il gigantesco Lenin afferrava il riporto del suo mantello, lì dove giaceva assomigliava ad una mano tesa ed implorante.
Nemmeno due settimane dopo, anche Petru Groza dovette lasciare la sua città. A lui, il primo premier comunista della Romania, un uomo con uuna fronte alta e rugosa e tratti del viso rigidi come quelli di una maschera, nel posto in cui era collocato, accanto alla facoltà di medicina, era stato cosparso del colore giallo sgargiante. Uno schernitore aveva appeso alla sua mano sollevata un contenitore d'immondizia e con un graffito aveva profetizzato: Tu cadrai come Lenin. Come fossero compagni di sventura, le due statue si ritrovarono fuori Bucarest nell'angolo vuoto dei giardini di un castello, dove, fronte contro fronte e come cadaveri insepolti, resistono al tempo dietro un basso muro in mattoni.
Restano i basamenti vuoti. Nei loro pressi il troupe della WDR chiesero ai passanti, davanti alla telecamera in movimento, che cosa pensassero si dovesse fare di quegli spazi rimasti vuoti. Le risposte offrirono loro uno sguardo sulla situazione spirituale del paese: uno, facendo gesti disperatamente sprezzanti, parlò di un memoriale per la libertà di stampa, un altro, agitando un pugno chiuso, sostenne che i simboli politici dovevano essere sostituiti da quelli letterari; una donna molto nervosa mormorò che per lei andava bene qualsiasi cosa, purchè non fosse stabilito dal governo provvisorio; infine, prima di scomparire dall'inquadratura come tutti gli altri volti anonimi, ci fu un uomo non rasato, pallido come avesse passato la notte in bianco, che urlò al microfono, sostenendo che si sarebbe dovuto fondere le statue, lasciando che poi venissero colate su di una Dacia 1300.
I tre collaboratori della WDR sapevano che cosa fosse una Dacia, ma per i tanti altri nomi avevano chiesto aiuto al loro interprete, Anghel. Con la consueta visione d'insieme spiegò loro chi fossero Mihai Viteazul, Mircea Dinescu e Mihai Eminescu. Solo in un caso non seppe rispondere a quelli del troupe: quando loro chiesero notizie a proposito di una certa Livia, il cui nome durante l'inchiesta era stato citato da molti passanti, soprattutto da quelli più anziani, Anghel sostenne che non si poteva spiegare con un paio di frasi. Piuttosto avrebbe raccontato loro di Livia quella sera, l'ultima che i tedeschi avrebbero trascorso a Bucarest, durante la cena di commiato al ristorante dell'Hotel Capşa.
Avavano conosciuto Anghel all'Intercontinental, l'albergo più caro e moderno della città, un tempo l'orgoglio di Ceauşescu e che dal momento della sua morte era stato occupato dalle troupes televisive di tutto di mondo. Nel bar del 16° piano, dove informatori, prostitute ed interpreti offrivano agli ospiti stranieri i loro servizi a tutte le ore in cambio di valute estere, avevano avuto un colloquio con lui già poco dopo il loro arrivo. Al bancone lui li aveva sottratti a dei rumeni che stavano blaterando selvaggiamente attorno a loro e li aveva avvertiti di non lasciarsi raccontare frottole dai ciarlatani. Lì da loro infatti venivano prese sul serio le chiacchiere più della realtà, e quella era una piaga profondamente radicata tra i rumeni. La loro lingua conosceva non meno di una dozzina di forme possibili e forse per la vittoria su Ceauşescu si dovrebbe ringraziare perfino il loro ambiguo rapporto con le parole. Infatti, mentre i dimostranti ancora urlavano nella Piazza dell'Università il loro Siamo un solo popolo!, quando i soldati non avevano preso ancora una decisione e gli scontri erano in pieno svolgimento, alcuni rivoluzionari erano riusciti ad accedere agli studi della televisione di stato, annunciando davanti alle telecamere che il paese era già stato liberato. I rumeni credettero più al messaggio televisivo che a quello che stava realmente accadendo nelle strade: era cominciata così la rivoluzione rumena. I tre tedeschi scossero la testa sbalorditi e seguirono Anghel sulla terrazza del tetto. Dopo che col braccio teso ebbe illustrato loro il panorama cittadino, si accordarono rapidamente: per cento dollari al giorno, per due settimane, avrebbe dovuto procurare loro storie ed immagini per una serie di servizi televisivi.
Fiduciosi sul fatto che lui avrebbe mostrato loro la vera Bucarest, quella nascosta al visitatore, lo seguirono in giro per l'intera città. Il cuore arrivò loro in gola quando davanti al Comitato Centrale indicò un'apertura murata, raccontando loro che quello era l'ingresso verso l'inconscio del paese, un sistema di tunnel sotterranei della ancora attiva Securitate; chi entrava lì usciva all'altro capo del tunnel direttamente nella camera da letto del dittatore, la scena sulla quale si rappresentavano gli incubi della Romania. Li condusse presso le case in abbandono di un quartiere residenziale, nei cui giardini inselvatichiti, appena una settimana prima, alcune famiglie di zingari avevano dato alle fiamme il parkett in legno portato via dalle abitazioni: da quando una nuova diceria aveva trasformato il clan di Ceauşescu in una stirpe di rom, quelle case erano tornate vuote e gli zingari erano spariti. Nella Casa del Popolo, l'attuale Palazzo del Parlamento, li condusse attraverso un'infnita fuga di stanze, attraverso un labirinto di passaggi, porte segrete e saloni reali con marmo e colonne, il cui fasto, come spiegò, in realtà era reso con semplice cemento, rigips e mattoni forati. Lo seguirono in Piazza della Vittoria, dove c'era una grande manifestazione, il cui significato e il cui fine sarebbe rimasto loro incomprensibile; lì prese ad indicare oltre le teste dei dimostranti, in direzione dei grattacieli, null'altro che un vuoto fondale, blocchi abitativi mai terminati, con facciate imbiancate di fresco. Per i loro acquisti di souvenirs li abituò alle regole dell'onnipresente mercato nero, al frutto della dilagante inflazione che trasformava ogni angolo della città in un bazar infinito, in un gesticolare ed urlare balcanico. Sui banchi mobili, nelle cassette a tracolla e sui carretti a mano, dietro i quali stavano uomini col berretto e donne che si calpestavano i piedi l'un l'altro, si trovava il possibile e l'impossibile: dai tubi catodici alle lampadine e alle batterie, fino alle uniformi, alle decorazioni e ad altri oggetti devozionali del regime decaduto. Da uno di quei banchi doveva aver preso il vecchio libro rilegato in finta pelle che nel corso dell'ultima serata trascorsa insieme, durante la cena al Capşa, aveva tirato furoi e messo sul tavolo, dicendo che quello era il pensiero che avrebbe lasciato agli amici tedeschi.
Con cordiale interesse i tre si volsero verso quel libro pieno di macchie. Solo quando Fechner, il redattore del troupe della WDR, lesse a voce alta il titolo rigogliosamente arabescato, Livia, i loro volti s'illuminarono. A proposito di quella Livia, si ricordarono che Anghel doveva loro ancora delle informazioni. Si avvicinarono con le sedie al tavolo, presero a sfogliare quel libro in rumeno ed osservarono le foto in bianconero al centro del libro. Alcune di esse mostravano una pallida ragazza con capelli lunghi fino alle spalle ed una fossetta profonda sul mento; in altre si poteva ammirare un sublime paesaggio montano e ampi prati, vedute di un paese e di un piccolo edificio con tetto spiovente: visioni di un mondo di cui Anghel prese finalmente a raccontare.
Livia, iniziò, crebbe tre quarti di secolo fa in un paese della Transilvania come figlia di un sarto e di una ballerina. Lassù, fin dalla notte dei tempi, i rumeni e gli ungheresi convivevano in pace, orgogliosi della loro convivenza e del ricco paese coltivato dai contadini morlacchi. Quando in aprile iniziava a far caldo ed i cigni iniziavano a dirigersi verso nord, Livia se ne andava con gli altri bambini fino al fiume. Lì un giorno vide qualcosa emergere dal fondo nuotando, qualcosa di dorato, e quando allungò il braccio per prenderlo si ritrovò ad afferrare una tromba giocattolo. Gli altri bambini risero e dissero gridando che la tromba apparteneva al principe di Kagran e che nel caso fosse venuto a cercarla, scoprendo che ce l'aveva Livia, avrebbe portato la bambina con sè nel suo castello.
Di lì a poco in paese si prese a dire che sarebbe scoppiata presto una grande guerra. Nel lontano occidente si erano incontrati i ministri di tutti i paesi nemici tra loro e con un ordine perentorio avevano abbattuto il regno d'Ungheria, dichiarando come rumeno il paese di Livia. Non fu facile per la piccola Livia capire perchè, ad un certo punto, ogni mattina i vicini ungheresi alzassero la loro bandeira a mezz'asta, perchè suo padre, il mansueto sarto, avesse iniziato a litigare con il suo miglior amico, Tamàs, e perchè sua madre avesse iniziato a starsene seduta a casa tutto il giorno ed avesse abbandonato la danza. Livia non potè più andare al fiume con gli amici e così rimase da sola in soffitta soffiando nella tromba del principe di Kagran.
Un giorno arrivarono cavalcando gli ussari dalla Puszta. Chiesero urlando chi fosse con loro e chi contro di loro: a chi che erano contro di loro venne dato fuoco e venne ucciso. Con quella battaglia l'intero paese venne distrutto e quando Livia corse con i suoi genitori fuori di casa, prima suo padre e poi sua madre vennero raggiunti dalle pallottole dei fucili. Livia si fermò presso i corpi dei suoi genitori, silenziosa per la tristezza e per la paura. Disperata portò alle labbra la tromba del principe di Kagran e soffiò più forte che potè. Ma non arrivò nessun principe a prenderla. Piuttosto, mossi da quel segnale, si appressarono gli ussari, fino a lanciarsi all'assalto con i loro cavalli selvaggi e ad aprire infine il fuoco sul nemico immaginario. La storia, concluse Anghel, vuole che la gente del paese, rimasta inorridita per la morte di Livia, finì con l'affratellarsi e con il porre fine all'insurrezione ungherese. Ecco perchè la tromba è diventata il simbolo dell'unione tra la Transilvania e la Romania.
La si ascolta come una favola, disse sbadigliando Leitner, il tecnico del suono della troupe. Anghel lo guardò fisso con tono accigliato. Naturalemente, ammise irritato, queste storie col tempo diventano leggenda. Ma a lui, a Leitner, l'inchiesta condotta davanti ai piedistalli di Lenin e Groza non aveva forse mostrato quanto Livia sia viva nella memoria della gente? Appunto. Il suo mito le permette di sopravvivere alla propria morte, come accade ai vampiri. Proprio in questo tempo particolare, disse Anghel, circola il nome di Livia. Proprio ora, dopo la svolta, il paese si presenta in una situazione molto simile a quella dei tempi di Livia. Gli ungheresi della Transilvania si sollevarono, altre minoranze avrebbero presto seguito il loro esempio e lo stato rumeno avrebbe rischiato il tracollo. Finchè non cercarono una figura simbolica, un simbolo per l'attuale situazione della Romania; una volta preso il libro azzurro e sollevantolo, disse: Livia è questo.
Anghel prese a guardarsi attorno, verso quei volti commossi. I suoi ascoltatori tacevano e in loro stava accadendo visibilmente qualcosa. Quando il cameraman Dahl, sottovoce e senza un fine specifico, pose la domanda circa la realtà storica attorno alla vicenda di Livia, Anghel lo interruppe con la proposta di continuare la chiacchierata in una birreria, semplicemente perchè non si sentiva a suo agio nel discutibile sfarzo del Capşa. Nei lampadari, sussurrò, e sotto i piatti da tavola erano nascoste delle cimici, come ai tempi di Ceauşescu. Il loro colloquio veniva registrato e in un lontano ufficio, chissà per quale fine, finiva con l'essere trascritto.
Quando uscirono sul Calea Victoriei, dove, come nell'intera Bucarest, dalle sei di sera, quando alla città veniva tolta la luce, era quasi buio pesto, Leitner alzò il bavero della sua giacca, accommiatandosi da Anghel e dai suoi colleghi. Stanco delle fatiche delle ultime due settimane, li lasciò dirigendosi verso il vicino e svettante Intercontinental. Dall'altro lato della strada, così avrebbe verbalizzato Leitner alcune settimane dopo, diressi ancora lo sguardo verso di loro. Scherzavano ancora con il portiere del Capşa, poi presero a camminare lungo la strada discutendo animatamente e strappandosi reciprocamente di mano il libro azzurro. Il mattino seguente sedetti a lungo da solo al tavolo della colazione. Quando mi decisi a chiamarli in camera, finalmente li vidi scendere, stanchissimi e provati dalla notte appena trascorsa. Mi augurarono un buon ritorno a casa, perchè per loro lì c'era ancora da fare. Secondo me volevano prolungare il loro soggiorno di uno, due giorni per girare un servizio su Livia. Anghel si era offerto di far loro da guida in Transilvania, dove, non lontano da Schäßburg si trovava il paese di Livia. Per fortuna, così concluse Leitner la sua testimonianza, non c'era più tempo per tentativi di persuasione, perchè se mi fossi messo in viaggio insieme a Fechner e Dahl di certo non sarei più tornato indietro.
Un mese dopo il rientro di Leitner dalla Romania si diceva in una comunicazione della dpa che lui era stato l'ultimo ad aver visto Fechner e Dahl. Da quel momento da parte loro non era arrivato più alcun segno di vita. Nè le indagini delle autorità rumene, nè le iniziative dei congiunti, manifesti e consultazioni di passanti a Schäßburg e a Bucarest, avevano fornito una qualche indicazione sulla loro permenenza. Era come se i due fossero stati inghiottiti dal sottosuolo.
Diciotto anni dopo la loro scomparsa avvenuta senza lasciare tracce, venne trasmesso dalla WDR un programma sulla Romania. Alla trasmiessione era accluso uno testo redatto dalla Casa di Béla Balázs, a Târgu Mureş, nel quale veniva chiesto un chiarimento. In occasione di un riordino dell'archivio della Casa, era stata trovata una cassetta con il logo della WDR e si chiedeva di rendere noto quale fosse il contenuto nel nastro. La visione della copia permise inaspettatamente di rividere Fechner e Dahl, dunque, per quanto si poteva capire, quel nastro aveva a che fare con le riprese girate nel loro ultimo viaggio. Venivano fornite informazioni su che cosa fosse successo ai due tedeschi in quel 19 marzo del 1990.
Nel filmato di vede anzitutto la hall di una stazione. Una targa con la scritta „Gara de Nord" indica che il luogo della ripresa è la stazione centrale di Bucarest. Prima ancora di rendersi visibile si sente il cantilenante Dimineaţa! Dimineaţa! di un venditore di giornali che passa accanto a due magri giovani vestiti di luridi stracci. I due sono di fronte al riquadro con gli orari di partenza dei treni e staccano le lettere nelle ultime righe dell'orario delle partenze. Un impiegato delle ferrovie in uniforme si avvicina loro minaccioso, volendo metterli in guardia, ma loro neppure lo notano perchè totalmente presi dalle lettere che stanno staccando. Quando li afferra, la porta di un treno si chiude davanti alla telecamera emettendo un forte e addirittura creaturale sospiro. Il vetro del finestrino presenta una crepa che taglia il mondo che passa lì fuori in un Sopra ed un Sotto.
Dopo un breve tremolio si spalanca un'ampia valle con un fiume, dietro di essa un grande prato e colline che si elevano ricoperte di oscuri boschi, in cima ai quali è una fitta e bianca nebbia, come ci si trovasse al culmine del cielo, molto al di sopra della terra. Dal vapore impenetrabile schizza improvviso uno stormo d'uccelli, un nugolo nero, un enorme volo tumultuoso che in un confuso scompiglio aleggia nel livido cielo con un coriaceo e sfolgorante volteggiare. In lontananza sfila una chiesa-fortezza medievale. Con le sue mura di difesa circolari, con le numerose torri e le bandiere sventolanti, la sua croce con le braccia di ugual misura e con i tetti trasversali spioventi sembra uscire da un libro di fiabe. Il paesaggio viene poi inghittito dall'oscurità di un tunnel e per un momento sul vetro tremolante del finestrino del treno si agitano a mo' di fantasmi le pallide ombre dei volti di Anghel e Fechner.
Nell'inquadratura successiva c'è Fechner in una gibbosa via lastricata al di sotto di un arcale in mattoni rosi. Il nostro Anghel se l'è data a gambe, dice al microfono. Ha preso il suo obolo ed è scomparso senza lasciare traccia. Comunque, ci troviamo a Sighişoara, chiamata dai rumeno-tedeschi Schäßburg sulla Kokel. Il paese di Livia non dev'essere lontano da qui. Il nostro viaggio ci ha portato davvero nel Medioevo...Come volesse afferrare lo spazio, Fechner si volta, la camera lo segue attraverso viuzze strette, senza anima viva, imbevute di una luce fredda, con ai lati antiche case a due, tre piani che sotto il peso dei loro enormi tetti sembrano essere conficcate nel terreno. I muri sono ripidi e ricurvi, scendono obliqui verso la strada oppure si piegano opprimenti su Fechner, che lì appare davvero minuscolo. Quando la camera gli gira intorno, guizza dietro di lui un ombra sul muro, cresce enormemente, si gira, per poi scomparire. Nell'attimo successivo si vede una porta in legno colorata di blu con un'insegna dorata. E' l'ingresso che porta ad una lunga scala al chiuso che sale per un numero infinito di gradini per condurre, come si trattasse di un tunnel celestiale, fino ad una chiesa posta in cima ad un monte.
Fechner è davanti al portale della chiesa insieme ad un ragazzo e ad una ragazza. Noi usciamo da un cadavere, dice il giovane in dialetto transilvano-sassone, per questo il padre si è preso cura di noi. Il cadavere però si è allungato ed ora si è fermata perfino la mia ora. Dov'è tuo padre, chiede Fechner. Il giovane lo guarda sorpreso e dice: E' lassù, è il custode del cimitero! E prima che Fechner possa aggiungere parola indica la ragazza su di una bianca farfalla e grida: Guarda, eccola fluttuare! e lei esce dall'immagine precedendo suo fratello.
Oscura e minacciosa la torre dall'orologio di Schäßburg si erge su tetti massicci con ampie fenditure di finestre assomiglianti ad un paio d'occhi scrutanti. Il rintocco delle campane risuona vuoto e pesante sulla città. Accanto all'occipite di Fechner si vede il grande quadrante la cui lancetta è sul cinque. Le alte figure facenti parti dell'ingranaggio dell'orologio svolgono la loro quotidiana opera secolare battendo l'ora. Quando Fechner si accorge di essere filmato si mette sorridente una mano all'orecchio e rivolto alla camera dice: è come se fosse il segnale di Livia, no? Resta in attesa, Livia, grida ridendo rivolto verso la torre, il principe di Kagran sta per arrivare da te!
Tutto sembra ruotare: scorre una striscia di case multicolori, una chiesa bianca, infine la carrellata finisce su Fechner e su di una casa intonacata di giallo. Sulla pesante porta che conduce ai sotterranei tremola nell'incipiente crepuscolo una lampada ad olio a forma di urna. Questa è la casa di Dracula, spiega Fechner e indica una lapide sul muro della casa. Qui dev'essere nato il famoso succhiatore di sangue Vlad Ţepeş, detto Dracula. C'interessa di più però la cantina della casa, perchè da ore in questa città morta stiamo cercando anima viva. Scende le scale, apre la pesante porta tirandola a sè e si ferma per un istante, finchè l'immagine mossa della telecamera lo segue in una sinistra cantina a volte, scarsamente illuminata da candele e da un lampadario.
Si vedono le pareti senza finistre, una muratura nuda e spessa dalla quale sporge una mano dalle lunghe dita da usare come appendiabiti. Dal bar penzolano ghirlande d'aglio in plastica. Sebbene molti tavoli siano occupati c'è molto silenzio.
Ad uno dei tavoli siede una coppia di anziani che osservano le fotografie contenute nel libro su Livia. La donna batte con le dita sulla pagina aperta e dice in un dialetto che suona quasi bavarese, sì, è vero, le foto sono tratte da un film che allora tutti i bambini videro. Giusto, dice l'uomo, e della vera Livia, per quanto ne sa, non esisterebbero più foto. Dal fondo si sente ridere qualcuno, la camera si muove cercando nel locale e trova infine un uomo più giovane che siede vicino alla porta davanti ad un bicchiere di birra. Una vera Livia, dice con un forte accento ungherese, non è mai esistita, esiste solo la Livia del film. Si piega in avanti, si accende una sigaretta accostandosi alla candela sul tavolo ed inizia a raccontare. Il film venne girato alla fine degli anni Venti da Morosow, un allievo russo di Eisenstein, su commissione di Gheorghiu-Dej. Un film di propaganda per i giovani rumeni, nel quale la buona ragazza rumena viene uccisa in patria dai cattivi ungheresi. Per la minoranza ungherese fu un vero e proprio schiaffo. Sa, proprio allora i rumeni si erano appropriati per la seconda volta della Transilvania. Gli ungheresi risposero a quell'opera propagandistica con una seconda, con pista sonora sincronizzata, nella quale rovesciarono le testimonianze del film. Naturalmente questa seconda versione venne vietata, si doveva conservare separatamente la pista sonora e quella visiva, per non essere scoperti. L'uomo fa uscire, sorridente, il fumo dal naso e chiede con la mano tesa il libro azzurro. Sa, dice, ne so qualcosa, di cinema. Questo film è raccapricciante da tutti i punti vista. Morosow non ha mai messo piede nel nostro paese, lo ha girato in studio usando un dito sulla cartina geografica. E siccome il film, grazie al successo, ha creato una propria realtà, questo libro dovette seguire tutto ciò che di falso lì veniva raccontato. C'è qualcosa riferito ai contadini morlacchi, ma i morlacchi vivevano da tutt'altra parte; ed è altrettanto strano che in aprile risultino cigni in volo su Schäßburg. E poi queste foto! Paesaggi montani come questi non li vedrà mai, qui, dalle nostre parti, non crede? Sono tutte scattate su fondali di studio.
Oscurità serale. Sullo sfondo una facciata in cemento disadorna. Fechner, microfono in mano, parla rivolto alla camera. Ora abbiamo raggiunto l'obiettivo del nostro viaggio, dice, dietro di lui c'è la Casa di Béla Balázs, a Târgu Mureş, un museo del cinema con un bellissimo archivio. E' stato promesso loro per quella sera una proiezione del film „Livia"...Lo interrompe una sua presentatrice. Si sente un urlo, qualcosa ha visibilmente irritato Fechner al di là della camera che sta registrando. Con una ripresa panoramica l'immagine segue il suo sguardo e mostra una folla esasperata all'angolo della via che si sta avvicinando e che viene accompagnata da una troupe con il logo della televisione rumena. Le immagini che trasmetterà TVR quella sera rimarranno nella memoria dell'intero paese: immagini di tafferugli e scontri di strada tra ungheresi e rumeni che nessuno aveva previsto; immagini di caccia alle streghe, nelle quali la muta dei fuggitivi viene inseguita con randelli e bastoni e circondata per spaccar loro le ossa; immagini di fiaccolate nelle quali vengono incendiati pupazzi e contadini alzano le punte insanginate dei loro forconi; immagini di case incendiate, di persone ciondolanti che versano sangue, che si accasciano al suolo, di morti. In questa registrazione si vedono a margine anche Fechner e Dahl che, ignoranti della situazione che si andava profilando per le strade, salgono le scale della Casa di Béla Balázs.
L'ultima scena mostra una parete bianca. Passi solenni e uno scricchiolante spostamento di sedie danno l'idea del locale in cui si trova la telecamera. Una voce di donna ripete più volte igen igen, la luce viene spenta, una porta viene lentamente inchiavata ed inizia il film „Livia", di cui nella cassetta di Dahl s'è conservato un pezzo di mezz'ora.
Nella scena iniziale la camera corre lentamente attraverso la via di un vivace mercato di paese, attraverso un fitto formicaio umano e accanto a banconi riccamente ricoperti di frutta e verdure. Solo quando si vedono le bocche aperte dei venditori si capisce che il film è senza traccia sonora. A lungo si sente il basso ronzare del proiettore, lo scricchiolio di una sedia o il contenuto raschiarsi di uno dei presenti nella sala. Forse è percettibile presenza di Fechner e Dahl a rendere così spettrale il muto movimento delle figure tremolanti sulla parete: si vede la danza di un gruppo di donne, si vede come si gonfiano le loro false gonne tradizionali al ritmo dei loro movimenti rotatori, ma non si sente alcuna musica. Si vedono i contadini morlacchi, derubati, da parte del regista, della loro vera patria, che sorridono durante il duro lavoro nei campi, ma non si capisce di che cosa debbano essere felici. Solo verso la metà del film, dopo che un uomo in uniforme è arrivato a cavallo nella piazza del mercato e, circondato dalla scenografia, ha dato lettura di uno stupido messaggio, all'azione di aggiungono gradualmente dei rumori. Si sente l'urlo selvaggio degli abitanti del paese, ormai nemici, si sente il frastuono dello scompiglio, che s'affievilisce con l'ingresso degli ussari in costume. In un momento di totale confusione pesanti cavalli attraversano incuranti lo scontro, con uno strappo stridente viene chiusa una finestra e temporaneamente il frastuono della strada viene attutito nella sala di proiezione. Ciò che si sente sono i tumulti a Târgu Mureş, che nel frattempo hanno raggiunto la casa di Béla Balázs situata a nord del centro cittadino. Si sente l'orda randagia, la si sente urlare e scandire parole, finchè una finestra non viene mandata rumorosamente in frantumi. Segue il silenzio. Un'esplosione al centro della sala mette fine alla proiezione di „Livia" mentre la ragazza si trova accanto ai genitori morti. La camera zooma sul suo pallido viso fino ad inquadrarla molto da vicino; la sua fossetta nel mento, la sua bocca e i suoi occhi sono immersi in cupe ombre. Alza la testa e dirige il volto verso una fonte di luce, si dissipano le ombre sul suo viso e la sua tristezza assume i tratti della risolutezza. Porta la tromba del principe di Kagran alla bocca e soffiando lancia il segnale al suo mondo silenzioso. Per un momento è silenzio assoluto e nel sole nascente del comunismo Livia si fonde con la
luce scintillante della camera sovresposta.
Tradotto da Vito Punzi