Christopher Kloeble

Nato nel 1982 a Monaco, vive tra Königsdorf  e Berlino. Educazione al canto presso il Coro di voci bianche di Tölz. Studi a Dublino, presso l’Istituto di Letteratura tedesca di Lipsia e la scuola di formazione per la Televisione e il Cinema di Monaco.

 

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TDDl 2010TDDl 2010

Christopher Kloeble

Un uomo nascosto

(estratto da un romanzo)

 

Traduzione: Vito Punzi

 

Ambrosio

 

In cielo stavano andando alla deriva le ultime due nubi. Un dardo sgranato e un qualcosa a forma di cuscino, d’un bianco giglio, per il quale non si poteva trovare un paragone.

Là sotto se ne stava Albert, con a fianco le sue valige, davanti alla porta di un’abitazione a Königsdorf, squadrava il bottone del campanello e non si fidava. In quel pomeriggio aveva alle spalle diciannove ore di viaggio, con il treno notturno, con quello regionale e infine con il bus di linea n. 479, il cui autista aveva fatto ogni fermata nel Voralpenland, da Pföderl passando per Wolfsöd fino Höfen, sebbene non vi fosse mai nessuno che dovesse salire o scendere, e quando mancava solo un breve tratto Albert non era stato certo che lui volesse arrivare davvero a destinazione.

Da sedici anni lui faceva visita a Fred durante le vacanze e nei fine settimana, all’inizio in compagnia di una suora di Sant’Elena, dell’orfanotrofio cattolico, in seguito da solo, e tuttavia non si erano mai sentiti particolarmente vicini tra loro. Fred lo chiamava sempre e solo Albert e Albert sempre e solo Fred. Padre non glielo aveva ancora mai detto. Quand’ebbe cinque anni – e Fred quarantasei - , nel 1988, Alfred notò che Fred, quando si tuffarono mano nella mano nel Baggersee, aveva infilato i suoi bracciali.

All’età di otto anni Albert pagò alla cassa per Fred, perché lui, al contrario di Fred, non aveva bisogno delle dita per contare gli spiccioli. All’età di tredici anni Albert rivelò a Fred il sogno di diventare attore. (Quello rigettò l’idea solo perché lo impauriva l’idea di essere osservato durante il lavoro). A quindici anni Albert cercò di spiegargli, ma Fred non ne voleva proprio parlare. Quando Albert ebbe sedici anni continuò a fare attenzione ai bracciali di Fred. E già prima del suo diciottesimo compleanno Albert si rassegnò definitivamente al fatto che un uomo come Fred, che non era mai arrivato al cambiamento della voce e considerava giardinaggio la riproduzione, non l’avrebbe mai considerato, e tanto meno indicato come proprio figlio. Fred era Fred.

La maggior parte degli amici di Albert dopo il diploma erano fuggiti lontano. Australia e Cambogia erano molto quotate; quando si tornava da un viaggio a Angkor o nell’Outback non solo si aveva trovato se stessi, ma anche un’idea di ciò che si sarebbe fatto della propria vita. Presumibilmente. Albert – che ancora non aveva capito perché certe persone accettino che le risposte che non trovano nel loro ambiente più prossimo siano da cercare lontano – era rimasto a Sant’Elena, incapace di prendere una decisione sul suo futuro. Perché avesse deciso di trasferirsi da Fred e che cosa si aspettasse da questo non lo sapeva ancora neppure in quel pomeriggio in cui si ritrovò davanti alla casa di Fred: sapeva solo, come sempre, che gli rimaneva poco tempo. Il medico gli aveva mostrato le dita di una mano sottoposta a manicure e Albert si era chiesto se quello si comportasse sempre in quel modo, se indicava di preferenza con le dita i mesi di vita che rimanevano ai suoi clienti, evitando così di dover cercare parole adeguate. Cinque dita. Albert neppure le aveva prese in considerazione, aveva preso Fred per mano e con lui aveva lasciato l’ospedale e non aveva reagito alla voce del medico, come del resto successivamente non rispose alle sue telefonate.

Così da non dover discutere con Fred, sulla strada verso casa Albert aveva parlato molto, soprattutto del tempo, nella speranza che Fred fosse riuscito a sottrarsi al gesto del dottore.

“Quante ne hai tu, Albert?”, lo aveva interrotto Fred.

“Quante di che cosa?”

“Di dita. Quante dita mancano da qui alla tua morte?”

Albert era rimasto immobile. “Non lo so”.

“Perché no? Io ne ho cinque. È abbastanza?”

“E’..è abbastanza”.

“Lo sapevo!” Una risata di sollievo. “Tu, Albert, scommetto che le dita ce le hai tutte”.

Quella stessa sera Albert era partito per affrontare i suoi esami di maturità. Un obbligo che in considerazione delle novità aveva trovato almeno altrettanto ridicolo quanto la sua decisione di ottemperarlo.

 

Da allora erano passati due mesi. Restavano ancora tre dita. La calura premeva sul cranio di Albert. Contrariante ad ogni previsione meteorologica, già da settimane l’estate si rifiutava di scatenare temporali. Il prato nel giardino di Fred era color ruggine, perfino il frinire dei grilli risuonava debole, e la calura tremolante sulla via principale davanti all’appezzamento di terreno giocava brutti scherzi agli occhi di Albert.

Chinò la testa, afferrò le maniglie delle sue valige e se ne stette lì immobile, quando infine la porta di fronte a lui si aprì e Fred apparve sul pianerottolo. Un orco dinoccolato di due metri che impacciato chinò la testa.

Si fissarono l’un l’altro.

“Albert!” disse Fred con la sua voce da bambino e prima di sapere come stesse venne sollevato e stretto contro il petto ossuto di Fred.

“Ciao Fred”.

“Sei grasso, Albert!”

“Grazie. Anche tu ti presenti bene”.

Si sorrisero, o meglio, Albert rise sotto i baffi, mentre Fred sogghignava felice.

“Di nuovo vacanza?”, chiese Fred.

“No, questa volta no. Stavolta rimango più a lungo”.

Fred lo guardò disperato. “Fino a quando?”

“Fino…”, Albert sviò il suo sguardo, “finché dura”.

“Finché dura potrebbe anche significare un lungo periodo!”, disse Fred allegro e batté le mani. “Questo è ambrosio!”

“Come?”

“Ambrosio, pagina undici”, con tono rimproverante sollevò l’indice, “tu devi leggere di più il vocabolario, Albert”.

Poi gli tolse le valige dalle mani ed entrò in casa, con Albert che lo seguiva. Si fermò nell’atrio d’ingresso. Quell’odore dolciastro della casa di Fred che lo salutava ad ogni arrivo ogni volta lo coglieva di sorpresa.

Fred si voltò verso di lui. “Sei debole?”

“No”, Albert fece un respiro profondo, “va già meglio”.  

Appese la sua giacca ad un attaccapanni, accanto al poncho color turchino reale di Fred sul cui collo una scritta dai caratteri precari ammoniva: Questo appartiene a Frederick Arkadiusz Driajes! Lo stesso nome era incollato anche al suo campanello. Nessuno lo chiamava con il suo nome completo, per la maggior parte delle persone lui era semplicemente Fred, con la e allungata, un orfano in età pensionabile che passava mezza giornata presso l’unica fermata del bus di Königsdorf per contare e salutare tutte le auto di colore verde che passavano lungo la via principale. (Inoltre c’era un paio di sempliciotti che se ne andavano ciondolando di qua e di là vicino alla Hofherr, nella birreria all’aperto, con in mano un bicchiere di birra bianca, che sostenevano che lui fosse lento di testa e lo chiamavano Freddie). 

Quando Fred depose la valige ai piedi delle scale e proseguì entrando nel soggiorno, Albert sentì che stava accadendo un dejà-vu, per meglio dire: il dejà-vu di diversi dejà-vu.

Si sarebbero seduti su una logora chaiselongue di color rosso ciliegia, proprio lì dove si erano sempre seduti e non importava ciò che lui avrebbe afferrato, migliaia di briciole sarebbero rimaste incollate alle mani di Albert e questo gli avrebbe ricordato che, invece che al tutore, sarebbe toccato di nuovo a lui preparargli quotidianamente un pasto caldo, allacciargli le scarpe, controllare che lavasse per bene i denti e tenere pulita la casa. Il suo sguardo sarebbe caduto sulla cartina del mondo applicata alla parete, sulla quale un cerchio tracciato con un pennarello verde doveva segnalare la posizione di Königsdorf , così come indicava la Germania, ed avrebbe chiesto a Fred come stava, per ricevere, ovviamente, come risposta: “Ambrosio”, e cos’altro per pregare Albert di leggergli a voce alta dal suo libro preferito, il vocabolario d’argento, così come aveva già fatto spesso prima di andare a dormire o della pennichella pomeridiana. Fred si sarebbe appoggiato affettuosamente a lui e si sarebbe sentito accaldato, piacevolmente accaldato, nonostante la calura esterna, ed Albert non avrebbe osato muoversi, finendo con l’aprire il vocabolario ed iniziando a leggere in un qualche punto, da biliardo, per esempio, senza andare oltre congiuntiva. Fred avrebbe iniziato a russare e nel sonno sarebbe apparso ancor più giovane del solito, al massimo un quarantacinquenne. Albert avrebbe richiuso il vocabolario, avrebbe sistemato un cuscino sotto la nuca di Fred e gli avrebbe coperto le gambe troppo lunghe con una coperta troppo corta. Albert avrebbe mangiato qualcosa in cucina, avrebbe quietato il suo stomaco con spesse fette di pane grigio, guardando fuori della finestra, percorsa da un’incrinatura sigillata, oltre il lavandino, i cui angoli inferiori di sinistra erano decorati con due lettere di cui non sapeva né chi li avesse incisi né quando questo fosse successo; quelle lettere però non potevano essere altro che le iniziali di sua nonna, Anni Haborn, sei piccoli graffi secondo la migliore tradizione zorresca. Albert si sarebbe proteso, la mano sinistra appoggiata sul lavandino, ed avrebbe appannato la finestra; sul vetro appannato avrebbe scritto le sue iniziali accanto a quelle di sua nonna, AD, dello spessore di un dito, fino a vederle scomparire. In seguito nella sua camera al primo piano si sarebbe accertato che nella cassapanca accanto al letto i medicinali di Fred fossero ancora a disposizione a sufficienza. Solo allora si sarebbe lasciato allettare dal materasso riverso, fino a sentirsi addosso la stanchezza senza potersi addormentare.

Ed era proprio tutto così, sebbene per tutto quel tempo Albert si fosse detto che avrebbe dovuto provare qualcosa, non un dejà-vu, piuttosto un première-vu. Infine giunse all’ultima volta.

 

Albert s’era steso sul suo letto da neppure dieci minuti, plumbeo, vuoto e con un panno sugli occhi, poiché il sole filtrava attraverso le tende, come se quel giorno non volesse mai finire, quando entrò Fred:

“Dormi?”

Albert gli fece cenno di avvicinarsi – cos’altro poteva fare? -, e Fred si lasciò cadere accanto a lui sul materasso. Aveva addosso la sua tuta da subacqueo e Albert non si meravigliò tanto di questo, piuttosto del fatto che la indossasse in piena estate. Solitamente Fred la portava sotto i suoi cenci per starsene caldo quando attendeva sotto la pioggia alla fermata del bus. Fred l’aveva ereditata da suo padre. “Senza un uomo dentro appare disgustosa come la pelle di un wurst bianco”, era il giudizio di Fred. Talvolta Albert riempiva la vasca da bagno con acqua fredda, vi aggiungeva una confezione di sale ed annunciava: “Ecco il Pacifico!” Subito Fred saltava con la tuta nell’acqua, vi sguazzava dentro come un ranocchio ubriaco e si lamentava del bruciore dei suoi occhi.

“Dimmi”, Albert stava osservando il suo mento, “quando ti sei rasato l’ultima volta?”

Fred ammiccò: “Ieri”.

“Ne sei sicuro?”

“Fred ammiccò di nuovo: “Totalmente sicuro”.

“Hai tralasciato un paio di punti”.

Ammiccamento.

“Frederick…” (questa era la versione del suo nome con la quale tutto suonava un po’ più convincente, oppure, se così serviva, anche più grave.).

“La mamma dice che ho un bell’aspetto!”

Anni tirava in ballo Fred piuttosto volentieri per sottolineare che questa o quell’altra opinione non erano frutto dei suoi pensieri, piuttosto da quelli di un’istanza sostanzialmente superiore. Un’istanza la quale l’ultima volta che aveva detto qualcosa a Fred era stato sedici anni prima. Albert allora aveva tre anni. Lui non poteva neppure indicare come tale il ricordo che aveva di lei, talvolta gli parve come se se la sognasse, poiché aveva guardato troppo spesso le tante foto di lei che si trovavano nella casa di Fred, confrontando il viso di lei con il suo, alla ricerca di somiglianze.

Albert imitava con l’indice e il medio una forbice e Fred copriva le sue guance ispide con le mani: “Mio padre aveva una barba bionda!”

Se si credeva a Fred allora il nonno di Albert era stato un sub professionista, uno dei quindici uomini al mondo capaci di adoperare un saldatore, per eseguire lavori di manutenzione, nell’assoluta oscurità dell’abisso oceanico. Quando Fred era appena più grosso del ventre nel quale aveva abitato per nove mesi, suo padre venne afferrato dal vortice di un oleodotto aperto e scomparve per sempre in quell’enorme reticolato di tubi. Per questo motivo ci fu sempre bisogno che qualcuno pulisse il cesso per Fred. Questo lo agitava più del radersi: “Il mio papà viaggia per l’eternità attraverso i tubi e una volta si trova in America, un’altra dai cinesi e chissà quando verrà anche a Königsdorf!”

A tutto questo Albert si era abituato da tempo e non si chiedeva più chi fosse stato a mettere in testa a Fred quei grilli.

 

Albert si alzò, andò in bagno, attaccò il rasoio elettrico alla presa della corrente e quando ritornò Fred se n’era andato. Dopo aver cercato in tutta la casa, Albert lo trovò in giardino, dentro la BMW che secondo Fred era appartenuta un tempo a suo padre. Fred la chiamava bolide. Come se fosse stata lavata a caldo, il verde menta della vernice faceva presupporre che il colore un tempo fosse più corposo. La gomma dei pneumatici era a brandelli. Il suono delle trombe nel migliore dei casi lo si poteva indicare come un piagnisteo. Fred trovava che gli irruviditi rivestimenti in pelle odorassero gustosamente di muffa, come lui tra le dita dei piedi. Un vuoto vaso di fiori teneva la portiera posteriore di sinistra attaccata ai cardini. La chiave d’accensione era sempre su.

Albert si sedette accanto a Fred, che se ne stava appollaiato a gambe incrociate al volante. Il peli della sua barba rilucevano al sole e il vocabolario era posato sul suo stomaco. Lo aveva aperto alla lettera M. M come morte. Con l’indice indicava l’immagine di un sepolcro in marmo di Carrara. “Questa è la guerra?”

“Bianco colomba”.

Fred scosse la testa. “Bianco cigno! È ancora più bello. Dev’essere una pietra molto bella, Albert.”

“D’accordo”, disse Albert, “per te una pietra tombale di color bianco cigno”.

Rimasero per un po’ in silenzio; mentre fuori il rumore delle auto di passaggio lungo la via principale andava scemando e loro vennero accecati per un’ultima volta dal sole prima che quello s’immergesse nella palude, Albert si ricordò di quando lui aveva permesso a Fred di andare in bicicletta sul marciapiede senza rotelle di sostegno. Albert aveva camminato su e giù accanto a lui, l’aveva spinto, aveva tifato per lui e dopo ogni caduta aveva medicato il ginocchio escoriato con la pomata Penaten, asciugandogli le lacrime da coccodrillo, finché Fred, alla fine della vacanza, non riuscì a fare i suoi primi metri senza rotelle di sostegno, così che il vento poté soffiagli gioia sul volto.

Allora Fred aveva quarantanove anni e Albert otto.

“Tutti dicono che morire sia una cosa terribile”, disse Fred, che sognante stava ancora osservando l’immagine della pietra tombale, “io non credo sia così. Di sicuro è qualcosa di completamente diverso. Me la immagino come una cosa meravigliosa, come un’enorme sorpresa. Ne sono già felice. La cosa che più gradirei sarebbe di morire insieme a te, Albert. Solo che questo sarà piuttosto difficile. Io sono più rapido”.

Albert gli promise: “Farò in fretta”, e subito Fred lo guardò con occhi raggianti, come fosse un bambino – un bambino attempato con le borse sotto gli occhi, le tempie grigie e pieghe minuscole intorno alla bocca.

“La mamma dice che apparteniamo tutti alla storia degli averi più amati”.

“E’ una buona storia?”

Come se Albert avesse posto una domanda stupida, Fred si mise a ridere: “E’ La storia degli averi più amati!”     

“E cosa sarebbe un avere più amato?”

Fred sbuffò e storse gli occhi. Poi allungò un braccio, aprì il cassetto portaoggetti e ne tirò fuori una lattina ammaccata in lamiera, all’interno della quale qualcosa sbatteva. Nell’aprire il coperto graffiato Fred si piegò sulla lattina e impedì che Albert potesse vedere, come se volesse prima accertarsi che lì dentro ci fosse ancora ciò che s’aspettava esserci. Infine pose sotto il naso di Albert una pietra grande quanto una castagna che nella luce crepuscolare riluceva d’un colore metallico. “Prendi!”

Dire che l’espressione del suo volto era d’orgoglio avrebbe significato sminuirla.

Albert cullò l’avere più amato nella mano, era sorprendentemente pesante e sembrava un corposo foglio di carta appallottolato e pietrificato. Gli venne un pensiero sviante, cui subito Fred diede voce: “Oro”.

“Davvero?”

E quello sussurrò: “Il mio avere più amato”.

Sebbene Albert avesse annuito ratificando e avesse proteso il labbro inferiore, era scettico. La pietra che era nella sua mano corrispondeva esattamente alla sua immagine dell’oro e fu proprio questo a destare la sua diffidenza.

Fred tuttavia lo guardò eccitato, il verde dei suoi occhi luccicava come l’acqua di uno stagno, di cui non si sa se è profonda abbastanza per tuffarcisi dentro.    

Albert ricambiò il suo sguardo e si augurò una volta di più di poter porre a Fred semplicemente una domanda e di poter ricevere da lui una risposta, un dialogo normalissimo, questo era ciò che lui desiderava, nel quale Fred comprendesse le parole che Albert intendeva, e soprattutto si augurava che tutti i suoi maledetti dubbi si sarebbero volatilizzati e dunque di poter credere finalmente a Fred.

“Da chi l’hai ricevuto questo?”, chiese Albert ridando la “pepita d’oro” a Fred.

Fred la rimise nel barattolo di lamiera. “L’ha sputata la terra”. Dopo una breve pausa aggiunse con occhi raggianti: “Ti posso mostrare dove!”

Quando lo guardava in quel modo, Fred appariva ad Albert ancor più estraneo e familiare del solito. Alberto lo conosceva abbastanza per sapere di non conoscerlo affatto. Quantomeno nell’aspetto gli appariva come un qualsiasi altro padre.

“Hm”, fece Albert.

“Hm”, fece Fred.

Nel stesso istante il gallo del vicino lanciò al meglio il suo gracchiato chicchirichi. Fred contrasse il viso, “non sa mai quando la deve smettere”, ad alzò il finestrino laterale.

Albert ticchettò sull’orologio fermo accanto al tachimetro. “E’ tardi. L’omino del sonno chiama”.

Prima di portare Fred a letto Albert gli preparò uova strapazzate con pomodori. Fred dispose i pomodori sul bordo del piatto, “non erano buoni” ed Albert disse “Mangia i tuoi pomodori” e Fred si divorò l’intero uovo, ma non i pomodori, e Albert ripeté “Mangia i tuoi pomodori”, e Fred ripulì rapidamente il piatto, ed Albert lo ammonì “Non ti darò il pane al miele”, ma Fred giurò che la prossima volta avrebbe mangiato i “pomodori buoni”, così che alla fine Albert gli preparò del pane con miele spalmato sopra, facendo finta di non sentire Fred che si stava lodando: “E’ stato un bel giochetto”.

Il giochetto più riuscito di Albert era quello di mischiare i medicinali con il cibo di Fred senza che lui se ne accorgesse.

 

Durante quella notte Albert non riuscì a prendere sonno. Osservò un adesivo luminoso a forma di stella grande quanto un’unghia posto sulla trave che si trovava sopra di lui. Quand’era più piccolo lo guardava ogni sera finché non gli si chiudevano gli occhi; aveva colto come consolante il fatto che quella minuscola luce facesse luce per lui, che caparbio illuminasse l’oscurità di una notte in campagna.

Mentre il respirare alitato di Fred saliva attraverso il babyfon poggiato sul comodino, Albert s’infilò un accappatoio e sgattaiolò in giardino. Quando fu fuori s’accese una sigaretta. Poteva rischiare di fumare solo nelle ore tarde; Fred l’aveva avvisato “Il fumo uccide!”, ed Albert non voleva inquietarlo inutilmente. Il fumo si perse nella notte. Quando il suo sguardo cadde sulla BMW gettò via il mozzicone di sigaretta oltre la recinzione del giardino; quello disegnò un alto arco sulla via principale, come una lucciola che stesse precipitando. Albert diede un calcio al paraurti ed attese che facesse male, ma non sentì nulla. Quel parafanghi sembrava fatto per essere scalciato da lui, dunque provò un’altra volta, con l’altro piede, e in aggiunta diede un colpo al cofano, con entrambi i pugni. Sperava che sarebbe venuto qualcuno per cercare di fermarlo, così lui l’avrebbe pestato o avrebbe potuto essere pestato, non faceva differenza. Ma non arrivò nessuno. Con respiro affannato si lasciò cadere sul sedile del passeggero del bolide. Da solo ribaltò il vano portaoggetti, prese il barattolo in lamiera e lo mise sul cruscotto. La suadente luce arancione del lampione ammantava alcune delle sue bozze e gli infondeva un fulgore color rame. Per Albert sarebbe stato meglio che quello non contenesse alcuna pietra lucente, piuttosto istruzioni, pezzi di ricordi con i quali lui avrebbe potuto iniziare qualcosa, un diario di Anni, per esempio, oppure foto di famiglia, o almeno un qualche documento. Aveva un’infinità di domande e l’unica speranza di risposta era Fred.

Albert guardò le dita della sua mano sinistra. Una piccola, flebile ed atrofizzante speranza.

Mosso da una necessità indefinita aprì il barattolo in lamiera e prese in mano il “pezzo d’oro”. Scoprì un’audiocassetta nel fondo del barattolo; su di un nastro adesivo ingiallito c’era scritto: Il mio avere più amato. Lo stile fiorito da ragazzina in età scolare non corrispondeva per nulla con la calligrafia a zampe di gallina di Fred. Albert prese dall’abitazione il registratore a batterie col quale lui e Fred saltuariamente registravano gli episodi di Benjamin Blümchen. Per un certo tempo Fred era stato ghiotto della serie nella quale l’elefante crede che fare il mestiere d’attore significhi mentire. Li aveva ripetuti continuamente, talvolta fino a dieci volte in un giorno, finché Albert non aveva trovato più altro modo per aiutarsi se non distruggendo di nascosto gli episodi.

Infilò la cassetta nel registratore, spinse il bottone da OFF a ON e vide accendersi il lumicino rosso accanto all’indicatore dei minuti.

Albert premette su PLAY. Prima un crepitare. Poi, lentamente crescente, un fruscio, che si presentò a lui in qualche modo, e in forma rivendicativa. Suonava come un silenzio. Provò a riavvolgerlo, avanti e indietro, appoggiando l’orecchio sulle fessure dell’altoparlante, verificando sia il lato A che il lato B del nastro.

Nulla.

Salì sulla console centrale e si sedette al volante, prese uno dei calendari di Fred da una tasca laterale della portiera e l’aprì. Con una mano passò su una pagina color magenta scarabocchiata che odorava mellifluamente come l’aria che c’era dentro casa, e notò le leggere scabrosità delle notizie impresse da Fred sulla carta. Lunedì, 24.5.2002: 76 auto verdi, 8 camion verdi, nessuna moto verde. Martedì, 25.5.2002: 55 auto verdi 10 camion verdi, 2 belle moto verdi, 1 trattore verde. Mercoledì, 26.5.2002

Albert gettò il calendario sul sedile posteriore, alzò il volume, dietro quel brusio si nascose dal pensiero che lui non avrebbe mai avuto una vera famiglia e percepì il peso dell’oro di Fred nella sua mano.

Poi premette il pulsante EJECT. Il registratore si aprì. Albert rimise la cassetta e il “pezzo d’oro” nel barattolo in lamiera e quando rientrò in casa li gettò tra i rifiuti. Entrò nella camera di Fred, accese la luce e lo svegliò.

“Domani andiamo in ospedale”.

Fred si stropicciò macchinosamente gli occhi assonnati con i pollici.

“Ma, Albert, devo mostrarti da dove proviene l’oro!”

Albert disse: “Frederick.”

Fred si morse le labbra, scosse la testa. “Lo hai promesso!”

“Chiudi la bocca”, disse Albert.

Con un salto Fred era su di lui, afferrò la sua mano e gliela strinse.

In un primo momento Albert non provò nulla, voleva ritrarre la mano, che sentiva come congelata, inutilmente tentò con l’altra di liberarsi dalla presa di Fred. “Lascia. Smettila” I capelli di Fred gli coprivano gli occhi, mute s’aprivano e si chiudevano le sua labbra. La pressione cresceva, le unghie delle dita di Albert s’infilarono nella superficie della sua mano e il dolore si fuse con un torpore che si diffuse lungo il braccio di Albert. Poco prima che raggiungesse il suo gomito si spinse all’indietro con tutta la forza che aveva. “Smettila adesso, Fred!”, disse, e solo allora Fred mollò, così che Albert cadde di schiena sbattendo con la testa contro la sponda del letto. Si alzò nella maniera più rapida possibile e corse in bagno. Vi si rinchiuse dentro, verificò le condizioni della sua mano diventata d’un colore rosso scuro e ne mosse una dopo l’altra le dita. Non sembravano rotte. Evitò di guardare nello specchio che si trovava sopra il lavandino e piuttosto rimase ad origliare per sentire ciò che stava accadendo in casa. Dalla porta arrivava solo silenzio. Usando un’unica mano si accese una sigaretta. Aveva caldo, volle togliersi la camicia ma s’intrecciò nel farlo, il tessuto non voleva mollarlo, ma alla fine la scaraventò a terra. Rimase per un po’ lì in piedi titubante e tremante. Anche senza verificare lui sapeva che da solo Fred non avrebbe fatto un passo. Una volta aveva trascorso cinque giorni senza mangiare all’interno del bolide, a causa di una certa bagatella di cui ora Albert non si ricordava, ed avrebbe tenuto duro ancora a lungo se Albert non si fosse recato da lui. Fred era almeno altrettanto cocciuto quanto Albert e proprio perché questi doveva andare a prenderlo, lui non lo voleva. Premette la sigaretta sul lavandino. Fred era riuscito a farlo sentire infantile. Albert si sedette sul bordo della vasca da bagno, chiuse gli occhi e s’immaginò che Fred, almeno per una volta, sarebbe venuto a prenderlo, che Fred avrebbe bussato e si sarebbe scusato, e che attraverso la porta avrebbero parlato di tutto, e avrebbero riso, riso molto, finché ad un certo punto suo padre l’avrebbe pregato di aprire la porta, e infine Albert l’avrebbe fatto.