Thomas Klupp, D

Nato nel 1977 a Erlangen, vive a Berlino. Ha studiato scrittura creativa e giornalismo culturale all'Università di Hildesheim e dal 2007 lavora come collaboratore scientifico presso l'istituto letterario della stessa città.

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9to5 Hardcore 

© 2011 Thomas Klupp

Traduzione: Vito Punzi

 

(estratto da un romanzo)

 

Non posso affermare di aver sviluppato negli ultimi mesi una posizione particolare rispetto alla pornografia on-line. Probabilmente, no, addirittura da me ci si aspetta questo, più di tutti gli altri se l’aspetta la prof. Faulstich, ma questo non mi serve. Con mio rammarico – un rammarico, detto sinceramente, che una motivazione carrieristica – sulla questione la mia posizione non ha fatto un passo avanti rispetto al tempo in cui ero un abitudinario consumatore di pornografia. Il fatto che da aprile di quest’anno abbia visto più pornografia di qualsiasi altro uomo al mondo – intendo davvero più di qualsiasi altro uomo di questa terra, compresi i registi, i cameraman e quelli che montano le pellicole delle grandi imprese produttrici a San Fernando Valley, California, USA – non cambia in alcun modo la mia sostanziale convinzione. Convenzione secondo la quale la rappresentazione esplicita dell’atto sessuale solletica l’interesse dell’osservatore anzitutto per motivi legati all’evoluzione.

Ora, quanto appena detto non è del tutto vero. Per prima cosa nei mesi scorsi ho visto più film porno di quasi ogni altro uomo della terra. L’eccezione, l’unica, urtante e perfino eccezionalmente minacciosa per me e per il mio futuro è rappresentata dalla mia collega Uschi Seidel. Seidel, senz’altro ugualmente per motivi di carriera, a proposito di consumo pornografico tiene con fermezza il mio passo. E lei riesce in questo nonostante una congenita debolezza della vista. Otto diottrie nell’occhio sinistro, sei in quello destro, come mi ha rivelato di recente. Senza i suoi spessi occhiali da esistenzialista da mezzo metro di distanza non potrebbe distinguere lo schermo di un computer da una microonda, per non dire poi del viso di una donna dal suo organo genitale, ma di ottici da queste parti ce ne sono abbastanza, ed anche il collirio non manca. Se avessi meno scrupoli, allungherei le gocce che lei conserva nel cassetto superiore della sua scrivania con del purificatore di scarico, ma per far questo mi manca la tempra necessaria nel contesto interpersonale. Non mi resta altro che riconoscere il rendimento di Seidel, sì di prenderla come stimolo e navigare io stesso nella rete alla massima velocità.

In secondo luogo, e anche questo mi inquieta, la mia posizione rispetto alla pornografia è in un certo modo cambiata. Per quanto il termine posizione non centri correttamente la questione. Preferisco formularla così: dal momento dell’assunzione del posto di lavoro ho sviluppato precise preferenze. Preferenze motivate, per essere precisi. Ho preso atto del fatto che la zona del pube e in particolare la vagina stessa gioca nel mio pensiero un ruolo sempre più importante. Ovviamente anche prima ho pensato ogni tanto ad una vagina. Chi, ad eccezione degli asessuati e dei bambini, non lo fa? In ogni caso in precedenza ho pensato per lo più alle vagine di donne precise, alla vagina come parte di quelle donne. Io la donna e la sua vagina, ovvero io nella vagina di una donna precisa – nella mia rappresentazione questo era un’unità, un nodo libidinoso che inizia a sciogliersi, lentamente ma senz’ombra di dubbio. Come se un esperto chirurgo avesse sottratto l’organo alla donna e l’avesse infilato all’interno del mio cranio – lo si sente in qualche modo al tatto.

Se questo sviluppo risulta irritante ci sono dei buoni motivi. In primo luogo quello per cui giorno per giorno mi rifulgono contro in primo piano, sullo schermo del mio computer di lavoro cinque dozzine di vagine rasate o semi rasate. Il rosa chiaro dell’organo che si distende davanti a me in maniera anche offensiva, i contorni cilindrici del sempre tumido clitoride, sì, l’intero paesaggio della zona del pube, color pastello, rilucente d’umido garantito, incorniciato da unghie smaltate di colore madreperla – di questo ci si può fidare. Questo motivo, questo antipasto, se si vuole, è il mio All-Time-Favourite tra tutti i siti web da me documentati. Non sarebbe ancor più inquietante se davanti a questo sfondo non facessi mai dei pensieri sulla vagina come tale? Non è in sostanza a mia difesa, a difesa mia e del mio carattere, il fatto che proprio a questo motivo - e non ad altri, a davvero del tutto diversi motivi – dono un po’ troppa attenzione? Mi creda, Lei non vuole sapere tutto ciò che vedo, la mia parola su questo.

Questo in ogni caso è il mio, o meglio il nostro lavoro: noi, Uschi Seidel ed io, sediamo almeno otto ore al giorno davanti ai nostro computer nella stanza 101 dell’Istituto per Scienza della Cultura dell’Università di Potsdam e studiamo la “Strategie di messa in scena di ciò che è esplicito nelle offerte on-line della pornografia occidentale dominante”. Ciò significa che al momento non stiamo facendo alcuna ricerca. Al momento ci troviamo ancora nella fase di raccolta dei documenti. Visitiamo gli archivi di tre tra i più popolari siti gratuiti e registriamo negli archi di controllo aperti sui nostri desktop tutto ciò che lì incrociamo. Registriamo le posizioni, i punti di vista delle telecamere, le dimensioni delle inquadrature, ma anche i colori dei capelli, le loro acconciature e i loro tagli, come pure l’uso di accessori. Tutto questo potrebbe apparire un picnic, ma non lo è. Ogni sito web da noi documentato possiede minimo quindici categorie, dalla A di anale passando per la M di madre che mi scoperei in tutte le posizioni, fino alla V di voyeur, con circa venti serie d’immagini per categoria, che rispettivamente consistono di venti immagini singole. La somma di tutte le somme è di 6000 immagini per sito. Seimila immagini che vengono aggiornate quotidianamente. Seimila al giorno, per tre.

Se per me, non posso esprimermi per Seidel, nei mesi passati qualcosa è diventato chiaro, si tratta di questo: da qualche parte là fuori, oltre gli schermi si scopa davvero; si scopa, si riprende, si monta e si mette on-line. Da qualche parte là fuori le persone sono così coerenti con l’oggetto che, detto tra noi, mi deprimo. Non perché la mia vita sessuale sia particolarmente deprimente. Significa che da quando ho questo posto ho una vita sessuale piuttosto deprimente, ma questo non modifica la questione. Non è questo il punto. Sento come deprimente la pura impresa di spingermi ogni giorno di nuovo in questo flusso d’immagini, di tenere testa a questo eccesso di hardcore crescente in ogni secondo. Seidel ed io, così vedo ogni tanto noi due, siamo due esploratori semiciechi che spiano le virtuali tracce luminose di una miliardaria industria high-tech. Siamo uomini dell’età della pietra con la clava che misurano le propria energie con uno stormo di aerei da combattimento. Prima ancora di trovarci nella condizione di poter brandire le nostre clave siamo stati già da tempo polverizzati nei nostri atomi dagli strumenti bellici teleguidati del nostro nemico.

E questo non basta. Non è solo la quantità delle immagini, per non dire poi della monotonia disgregante il cervello dei motivi sempre uguali, a deprimermi. No, a questo mi sono rassegnato. Ciò che talvolta produce in me un umore davvero cattivo è lo stesso disegno esplorativo. Parlo del fatto che noi documentiamo immagini fisse. Pornografia di statue, mio Dio! Che cosa crede, quanti dei circa mezzo miliardo di consumatori di pornografia presenti nel mondo si aprono la patta dei pantaloni per trastullarsi con fotografie? Lei forse? Difficile. Come qualsiasi uomo non del tutto normale anche Lei, nell’orbita delle sue attività on-line, cerca offerte nel contesto della pornografia animata. Qui la chiamiamo così: pornografia animata. Che significa: anche Lei infittisce la rete di videoclip, inserisce nella riga d’indirizzo del suo browser ad intervalli per lo più sempre più brevi youporn.com o porntube.com – e non freepicseries.com, slutsgate.com o publicpussy.com, come faccio io.

E ciononostante. Nonostante le avversità che la mia attività porta con sé, voglio dirlo chiaramente: amo questo lavoro. Dico: che fortuna avere un lavoro del genere. Che fortuna imponderabile avere un lavoro del genere! Come ogni studioso della cultura appena diplomato al temine dei miei studi mi sono adattato per lunghi anni nel cosiddetto ambito culturale, allo Hartz IV o – peggio ancora – a una serie di umilianti posti da accattonaggio, frantumanti con estrema brutalità la propria autostima. Mi sono già visto come praticante dell’assistente di direzione per le pubbliche relazioni della Langen Corburgr Kurzfilmnacht, come secondo aiuto lampista della millesima documentazione della ZDF dei mercanti di donne russi, oppure – nel peggior caso – come uno di quei disperati giovani imprenditori di se stessi che con idee di cui nessuno su questo pianeta ha bisogno puliscono per anni le maniglie, per poi, quando arrivano a trent’anni, studiare ancora per il professorato evocando così l’eredità e contemporaneamente la fine dei loro genitori. Fino a poco tempo fa simili scenari mi hanno perseguitato perfino in sogno, ed io non sono uno che sogna. Davvero, normalmente non sogno mai. Non sogno alcunché. Sono un realista e come tale so che cosa significa vita. Cioè accomiatarsi continuamente dalle visioni che un tempo si aveva di sé e del proprio futuro, l’ininterrotto relativizzare verso il basso delle pretese di una volta, il continuo tradimento dei precedenti ideali, i quali in realtà non erano ideali ma sviamenti pubertari della peggior specie.

Visto in questo modo ogni pompino da me documentato, ogni gangbang registrata, ogni eiaculazione in bocca annotata, ogni clic su di un’altra foto significa un piccolo passo in direzione del posto fisso. Quanto meno in direzione di un possibile posto fisso. E a questo possibile posto fisso, se tutto procede alla perfezione, potrebbe seguire chissà quando un impiego funzionariale. L’impiego funzionariale nel ventre dell’Alma Mater, significa: spirituale libertà da pazzi senza limiti, uno stipendio fisso, un ufficio pulito con vista sul campus – ultimo ma non ultimo – stanze per le lezioni piene di sempre nuove generazioni di giovani studentesse, aggiornamenti in 3D in un certo modo di loro stesse, che – per quanto si avvicinino vecchiaia, malattia e morte – non saranno mai più vecchie di ventisette anni.

Parlo dal punto di vista tecnico professionale, e Lei sarà senz’altro d’accordo con me, del paradiso sulla terra. Parlo del paese benedetto che io, a differenza di molti altri, non ho solo visto da lontano ma che ho già visitato. Intendo dire: sono qui. In forma del tutto ufficiale, perfino con la targhetta alla porta, Robert Thaler, collaboratore scientifico, dipartimento II, Istituto per la Scienza della Cultura è lì in lettere nere sulla targhetta quadrata in plexiglas davanti alla stanza 101. Sono qui e giuro: non me ne andrò mai più da qui. Cioè: se dipendesse da me non me ne andrei più via da qui. In realtà la situazione si presenta meno rosea. In realtà è così come segue: i due mezzi posti di lavoro che momentaneamente stiamo occupando Seidel ed io in un prossimo futuro – il prof. Faulstich ci ha informati di questo appena abbiamo iniziato a lavorare – si ridurrà ad un solo posto a tempo pieno, ed è molto improbabile che possa essere io ad ottenere quel posto. Non scherzo, qui in istituto non c’è persona disposta a scommettere un solo cent su di me.

Il problema non è che Seidel è più giovane e, suppongo, anche più intelligente di me. No, l’una e l’altra cosa si dimenticano. Nel mondo accademico, diversamente da quello reale, non dipende esclusivamente dalla giovinezza. E neppure, su questo in pieno accordo con il mondo reale, dalla intelligenza. Al contrario: la capacità di reprimere i propri pensieri quando sono ancora in germe e al posto di questi assumere e parafrasare opinioni professorali senza averle analizzate criticamente, risulta essere qui la competenza chiave. In ogni caso io non conosco nessuno nel ceto medio che sia arrivato in quello stesso edificio senza l’aiuto di questa strategia. Se dipendesse solo da questo io avrei i migliori presupposti per fare carriera.

Il problema vero, quello incidente, è un altro. Ovvero, Uschi Seidel è una donna. Lei è una donna e questo fatto pesa enormemente. È come se confrontassimo in una corsa ad ostacoli, solo che il mio pene risulta essere annodato al manicotto della lavatrice della signora dott.ssa Huber. La signora dott.ssa Huber è l’incaricata per la parificazione nella nostra università e lei considera con acribia che “con lo stesso livello di qualifica le candidate femminili nell’aggiudicazione dei posti sono da preferire”. Lei sostiene questo sebbene nel suo dottorato smascheri come reazionaria l’idea di una identità sessuale chiaramente definita e la neghi nella maniera più feroce. Dr. Huber. Dr. Heike vaffanculo Huber! Tutta la follia del nostro mondo si raccoglie in questa donna, e se fossi un carattere più facile da impressionare getterei la spugna solo a causa sua. Ma questo non è il mio stile. Credo nella mia opportunità, per quanto possa essere piccola e per fare questo ho perfino i miei motivi. Ne ho tre, per essere precisi.

Il primo: c’è nondimeno la possibilità che Seidel prossimamente si ammali, resti incinta o cose del genere. Non sarebbe il primo caso di dropout in questo Istituto. Scompaiono in continuazione collaboratrici per i motivi più oscuri, all’improvviso sono via ed è come se non fossero mai state lì e nessun gallo canta più dietro a loro. Perché non dovrebbe accadere anche a Seidel? Lei ha la vista debole e non di rado si lamenta di attacchi di emicrania quand’è davanti allo schermo. Inoltre è con il suo compagno da una mezza eternità e a dicembre compirà trent’anni. Chissà dove la porteranno i suoi pensieri nelle silenziose ore notturne. Un piccolo incidente, un piccolo incidente dal quale potrebbe venire un bambino, appartiene assolutamente al contesto di quanto risulta immaginabile.  

Il secondo: il mio aspetto. Io, non posso dirlo diversamente, sono perfino oscenamente attraente. Pensi a Colin Firth quand’era giovane, pensi a Colin Firth nella sesta scena di Orgoglio e pregiudizio e Lei avrà di fronte una davvero buona rappresentazione del mio viso. Occhi color capriolo, particolarmente penetranti, e al di sopra una fronte alta coronata da scuri riccioli a spirale. Inoltre, lineamenti intelligenti, piuttosto pronunciati, ed una pelle dai pori fini, soavemente pallida, ma in nessun modo pallida per malattia. Il mio viso, questo ho potuto constatarlo continuamente nel passato, incide sul mio ambiente allo stesso modo di un buco nero. La maggior parte di quelli che vi si avvicinano non se ne distaccano. Spero e prego perché anche il prof. Faulstich, che ha in corso studi anche nel campo dell’estetica, oltre che in quello della pornografia, faccia quest’esperienza.

Il terzo, e questo è forse la mia grande carta vincente: il mio impegno. Il mio letteralmente pericolosissimo impegno rispetto a ciò che riguarda l’istituto ed i suoi progetti. Si dice: non c’è persona che veda per approssimazione tanti film porno quanti ne vedo io, neppure Uschi Seidel. La sua giornata di lavoro termina esattamente nel momento in cui chiude Internet Explorer ed assicura i suoi ultimi file di controllo nel disco rigido. La mia giornata no. Come lei, anch’io clicco e passo di pagina in pagina fino allo sfinimento, finché le immagini sullo schermo diventano superfici color carne, e poi…poi continuo. Mi sfilo di dosso l’abito del ricercatore e mi metto a disposizione della professoressa come probando. Si chiama ripiegamento. Apro il mio raccoglitore Faulstich-Pedersen, che si trova sul mio desktop, clicco su una delle clip memorizzate per me ed attivo Ariadne, un avanzato software di documentazione danese. In aiuto del software, durante le prese in esame predispongo poi il cosiddetto diagramma di decorso, o meglio diagramma del piacere. La questione che pone la professoressa è questa: Quanto piacere provo e in quali scene? Quando accadono i miei picchi ed i miei minimi di piacere? E come appare la curva del piacere durante il decorso dell’intera clip? Il metodo di misurazione è a prova di idiota, è realizzato come fosse destinato a bambini piccoli. Ogni quindici secondi devo premere su uno dei tasti numerati – 9 corrisponde al piacere massimo, lo zero al totale disgusto – alla fine da tutto questo Ariadne produce il mio grafico del piacere relativo alla mia persona.

Beninteso, si tratta di piacere, non di eccitazione. erezioni risultanti durante le prese in esame hanno un ruolo solo subordinato. Non si tratta della reazione del mio membro rigonfio, mi ha detto più di una volta la professoressa, piuttosto del piacere che provo in testa. Vogliamo entrare nel Suo cranio, Thaler, queste le sue precise parole. A questo mi sono limitato a rispondere con un cenno tenendomi per me qualsiasi altra domanda. Anche senza poter ripercorre in tutte le sottigliezze la distinzione da lei effettuata, so di che cosa parla. Davvero io stesso, è il mio corpo il mio esempio per questo. Noto – e sempre più spesso negli ultimi tempi – che il mio pene nelle scene di sesso più spinte e più impegnative penzola come un cavo tra le mie gambe, mentre in altri momenti, per esempio se osservo nello specchio della toilette dell’istituto, oppure se mi pulisco i padiglioni auricolari con i cottonfioc, mostra reazioni enormi.

Ma mettiamo da parte piacere contro eccitazione, come pure le reazioni del mio pene: mentre prendo in esame le clips sono preso da preoccupazioni del tutto diverse. In particolare m’inquieta il fatto che nelle misurazioni non è in gioco solo il mio personale godimento. La professoressa coopera nel contesto dello studio con la psicologa sessuale prof.ssa Inga Pedersen, di Copenaghen, la quale ha raccolto attorno a sé, nel suo istituto, un gruppo di uomini pornodipendenti. Uomini che alla vista di un modem, come sotto coercizione, tirano giù con violenza i loro pantaloni fino ai popliti, uomini che per cinque minuti di connessione ad internet venderebbero la loro madre al diavolo, uomini che volontariamente si sono gettati tra le braccia di terapeuti. Questi uomini – e questa è la parte potenzialmente vincente del mio impegno – si vedono esattamente nelle stesse condizioni, come io esattamente gli stessi esatti videoclip. E le professoresse poi adattano i risultati tra loro. Per loro si tratta di stabilire le differenze di godimento in consumatori di pornografia psicopatologicamente rilevanti e psichicamente stabili. Sa il cielo che cosa quelle si ripromettono, in ogni caso a me la questione rende nervoso. Che cosa significa, mi chiedo di continuo, che cosa significa se le mie curve del piacere coincidono perfettamente con quelle dei danesi dipendenti dalla pornografia? Che cosa rivela di me? E ancor peggio: che impressione – al di là dell’oggettività accademica – potrebbe farsi di me la professoressa?

Ancora all’inizio della ricerca mi sarei fatto maciullare le piccole dita della mano sinistra per arrivare alle curve raggiunte da quelli di Copenaghen, nel frattempo tuttavia vedo le cose in maniera più rilassata. Da un lato mi si presentano sempre più chiaramente davanti agli occhi gli effetti positivi, soprattutto il mio stretto rapporto con la professoressa, che quasi si potrebbe definire intimo. Per quanto in un primo momento un’annotazione come quella su mio membro rigonfio possa sembrare irritante, in ultima analisi la si potrebbe anche interpretare come un segno di crescente fiducia tra noi. In ogni caso io la interpreto così. D’altro canto nelle ultime settimane ho passato notti intere su diversi forum di auto-aiuto on-line, dove chattano schiere di pornodipendenti sui loro modi di consumare. Nei casi più gravi, così raccomandano i contributi, ciò che è caratteristico è che si premono a ritmo forsennato dozzine di clips aperte contemporaneamente, sempre alla ricerca di eiaculazioni in bocca. L’utente svedese Ole B. l’ha chiamato “Sperm-driven-Speed-Zapping. Per distinguermi da lui ripongo i vertici del mio piacere soprattutto in scene di lesbiche, in (finti) orgasmi femminili e talvolta in lenti pompini. Alle sequenze di sesso di gruppo con una sola donna e di eiaculazioni in bocca al contrario ho riservato i tasti dallo 0 al 5. Sono fiducioso del fatto che Ariadne genera processi di curvatura sulla base di questi valori, valori che contrastano le curve danesi. Processi di curvatura che indicano un consumatore di pornografia effeminato, probabilmente un po’ inibito, in ogni caso integro dal punto di vista morale. Così dev’essere accolto dalla professoressa, così mi immagino questo nel caso ideale.

In fin dei conti la mia strategia sembra perfino lievitare. Quantomeno fino ad ora nessuno s’è scandalizzato delle mie curve. Cioè, nessuno tranne Uschi Seidel. Giusto venerdì scorso mi ha fatto la posta nella caffetteria dell’istituto, davanti al distributore automatico di bevande calde, ed io presumo che abbia scelto quel luogo per assegnare al colloquio un tono familiare. Mentre seleziono nel distributore quello che è ormai almeno il decimo cappuccino, lei mi si avvicina di lato, ha manipolato attorno ai suoi occhiali per poi, come dal nulla, assalirmi con i suoi scrupoli. Lei non è così sicura, ha detto mentre il distributore stava producendo il suo solito sibilo, se sia metodologicamente corretto che io aiuti la professoressa nel ruolo di probando. Sì, si chiede se i miei dati possano essere presi in considerazione nell’analisi. Lei stessa in ogni caso dopo otto ore di lavoro di documentazione non si vede nella condizione di fare fondate asserzioni sul suo godimento. In sostanza non si vede in condizione di fare fondate asserzioni su qualsiasi cosa. Si sente liscia e semplice come fosse morta. Ora devi essere sincero Robert, ha detto con un tono quasi compagnone, a te accade davvero così.      

Furba Uschi Seidel. Lei sa come vanno le cose. Cerca di infiltrarsi nel mio impegno con critica metodica per carpirmi l’una o l’altra frase che potrebbe incriminarmi. Ma non con me. Conosco questi trucchetti. Con la tazza del cappuccino fumante in mano le ho sorriso e l’ho consigliata di presentare il suo scrupolo direttamente alla professoressa. Questo l’ha fatta tacere. Lei sa bene come me che il professor Faulstich  boccerebbe le sue obiezioni. Non perché sarebbero ingiustificate. Lo sa Dio quanto non lo siano. Ogni volta che apro una delle clips faccio esattamente l’esperienza da lei descritta. L’esperienza che lì una quantità di immagini colorate piene di coppie e gruppi copulanti tremolano sul monitor, dei quali uno mi da tanto o poco piacere quanto il successivo. Ma non è questo il punto. Il punto è che nel nostro istituto su dieci studenti otto sono donne. E gli uomini – dei quali, considerati con cura, un terzo sono gay e dunque tecnicamente irrilevanti – non si fanno certo in quattro per inviare le loro curve in Danimarca. Quelli temono la combriccola pornografica ancor più di quanto la temi io. La professoressa ha semplicemente bisogno di ogni uomo disponibile e di poter concludere il rilevamento dei dati.

E anche questa è solo una parte della verità. L’altra parte, di gran lunga più significativa, suona così: per la professoressa – come per qualsiasi altra studiosa delle scienze umane su questo pianeta – è in sostanza del tutto indifferente, finché i loro dati arrivano, è del tutto indifferente il modo in cui questi vengono acquisiti. I dati, non bisogna dimenticarlo, sono la nostra moneta. Nel nostro mondo i dati significano flusso di cassa. I dati, in particolare quelli elaborati, hanno come conseguenze il follow-up e dunque nuove proposte di progetti. In queste proposte vengono spillati freschi contenitori d’incoraggiamento, che irrigano di altre sostanze l’amministrazione dell’istituto, con le quali possono essere creati nuovi posti di lavoro. Posti di lavoro che vengono creati per, per dirla con la massima precisione, per generare nuovi dati. Fare ricerca significa semplicemente mantenere in funzione la macchina. Tutto il resto è contingente, sfocature metodiche non hanno davvero alcun peso. In particolare non hanno peso se si considera che le nostre ricerche – come del resto tutte le ricerche in ogni ambito delle scienze umane – dal punto di vista sociale sono rilevanti quanto le brochure sull’allevamento dei conigli. È davvero così, al di fuori delle università, a nessuno interessa nulla di ciò che abbiamo da dire. Nessuno fuori legge neppure una frase di quelle che abbiamo messo su carta. E non si tratta di un’opinione solo mia. Uno studioso di scienze umane che non sia del tutto bugiardo glielo confermerà come un dato di fatto empiricamente accertato.

Lo si può contestare, certo. Sì, alcune colleghe qui in istituto non fanno altro, ma io non sono una di loro. O quantomeno all’apparenza. Ogni tanto concordo con il loro coro di lamentele – proprio per dichiararmi rispetto a quelle, tra le quali non da ultima è compresa anche la dottoressa Huber, un collega nel dolore. Come uno che esattamente come loro viene stritolato dal peso percepito della propria assenza di significato. Questi lamenti sporadici, queste arie cariche d’amarezza spontaneamente squillanti non mi provocano alcun disturbo. In sostanza il sapere della mia assenza di significato è una delle poche convinzioni, ma sì, forse è addirittura l’unica convinzione che ho. In ogni caso con la differenza che non la percepisco come un peso. Al contrario, ringrazio ogni giorno Dio per il fatto che alla società non frega nulla di me e delle mie opinioni e che io, del tutto indisturbato dalle sue pretese, posso mettermi al servizio quale suo osservatore, mal pagato e tuttavia pagato. Per quanto la parola osservatore non centra correttamente la questione (per tacere poi del termine scienziato). Mi considero infatti piuttosto uno speculatore. Il laureato speculatore della cultura Robert Thaler, io stesso avrei fatto scrivere questo sul mio diploma. Quantomeno l’avrei fatto in un mondo onesto.

Io – e peraltro anche Uschi Seidel, la quale lo ammette perfino apertamente – noi due lo sperimentiamo di nuovo giorno dopo giorno. Ogni volta, se navigando clicchiamo negli archivi del web e fissiamo lo sguardo anche per una sola frazione di secondo di troppo su una delle immagini, in quel momento finisce l’osservazione ed inizia la speculazione. Questo accade non solo con immagini a proposito delle quali dobbiamo riflettere più a lungo sulle dimensioni dell’inquadratura e sulle prospettive, oppure se abbiamo a che fare con una gangbang o no, o piuttosto con un’orgia. No, questo accade con rappresentazioni semplici, inopinabili – per esempio con il primo piano di una vagina divaricata, dalla cui apertura stillano fili di sperma. Proprio con simili temi le mie sinapsi fanno fuoco da tutte le condutture e lacerano l’idea della nuda osservazione come si trattasse di un pezzo di pane umido. Mi chiedo: che cosa vedo esattamente quando mi fisso, con gli occhi arrossati, sul monitor? Vedo davvero, come sostengono gli spiriti più austeri dell’istituto, solo l’organo di riproduzione della femmina di un mammifero? O non vedo piuttosto un’immagine che mi racconta del piacere di milioni di persone? Per conto mio uomini. Ma perché il loro piacere? È l’idea che infilino il loro pene in quella vagina? Ma lui non fa questo, lo caccia piuttosto nel sudato pugno di lui. Quest’immagine non mostra dunque piuttosto la finzione di piacere di quegli uomini? Oppure è la finzione della disponibilità di quella come di tutte le donne a suscitare in loro piacere? E che cosa vedono davvero le donne? Che cosa vede per esempio Uschi Seidel? Vede forse, lei che è una semiotica, la negazione visivamente manifesta dell’immagine di donna cristiana? Vede la pornografica vagina della rete come segno di un cambio di paradigmi culturali? Oppure ci sbagliamo entrambi? Non è che, in sostanza, non riusciamo ad andare con lo sguardo oltre la vagina e oltre le finzioni di piacere degli uomini, non riusciamo a penetrare il medium? È il trionfo auto-referenziale delle apparecchiature medianiche a spegnere il fascino dell’immagine? La dimostrazione del loro totale abuso del potere. Oppure alla fine hanno davvero ragione le femministe che attorniano la dottoressa Huber e noi non facciamo altro che guardare una grande maialata?

Domande su domande che come schegge di shrapnel attraversano i miei giri, per le quali non ho, o almeno non ho ancora risposte. Per le quali, così spero e per questo prego, neppure Seidel ha ancora risposte. Per le quali forse non si troveranno mai risposte definitive. Tuttavia, chissà! Forse ammaino le vele troppo rapidamente. Forse, semplicemente, non ho visto ancora abbastanza. Forse non sono ancora penetrato a sufficienza in profondità nella materia e devo aumentare drasticamente la cadenza, dice il mio quotidiano piano d’immagini. Ma sì, forse è questa la soluzione. Per strappare al cosmo pornografico on-line il suo mistero devo penetrare ancor più in profondità in esso. Ancora molto più in profondità. Finché la vagina in rete non solo farà pressione dall’interno contro la mia lastra frontale, piuttosto riempiràl’intero cranio. Un luccicare e un brillare di colore rosa che corre attraverso ogni singola fibra nervosa – questo devo produrre. In seguito si formuleranno risposte e perfino una posizione rispetto alla questione. Solo non devo perdere il controllo. Questo è essenziale, non perdere il controllo. Mi ripeto questo ogni giorno, quando mi siedo al computer ed inizio a navigare: non posso perdere il controllo, qualsiasi siano le circostanze.                   

 

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