Alina Bronsky, Frankfurt (D)

Alina Bronsky nata a Jekaterinburg (Russia) nel 1978, vive a Francoforte. La Bronsky è stata proposta per il concorso da Ijoma Alexander Mangold.


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Alina Bronsky

Dal romanzo Parco in frantumi

A volte penso di essere la sola nel nostro quartiere ad avere sogni ragionevoli. Ne ho due e per nessuno dei due ho bisogno di vergognarmene. Voglio uccidere Vadim. E voglio scrivere un libro su mia madre. Ho già un titolo: La storia di una donna senza cervello e con i capelli rossi che vivrebbe ancora se avesse ascoltato la sua intelligente figlia più grande. Forse questo è solo un sottotitolo. Ho tempo per rifletterci ancora con precisione, perché non ho ancora iniziato a scriverlo.

La maggior parte delle persone che vivono nel nostro quartiere non fanno sogni. Ho chiesto apposta. E i sogni dei pochi che li hanno sono così penosi che io al loro posto volentieri ne farei a meno.

Il sogno di Anna, per esempio, è di sposarsi per diventare ricca. Lui dev'essere un giudice, sui trentacinque anni, e, se possibile, non del tutto odioso.

Anna ha diciassette anni, come me, e dice che se si presentasse uno così lo sposerebbe subito. Così potrebbe fuggire finalmente dal monolocale e trasferirsi nel penthouse del giudice. Nessuno oltre a me sa che Anna ogni tanto va in centro città con lo Strassenbahn e gira per tredici volte attorno al tribunale provinciale in attesa che il giudice finalmente esca, la veda, le regali una rosa rossa e la inviti prima a prendere un gelato e poi nel suo appartamento-penthouse. Lei dice che si deve lottare per la propria felicità, altrimenti meglio tirare avanti.

"Sai cosa significa un monolocale, tu stupida vacca", chiedo, "E' un diamante particolarmente nobile collocato in una corona. Tu non abiterai mai più in un monolocale se te ne andrai da qui".

"Questo te lo sei immaginato apposta. Loro non avrebbero mai chiamato diamante questo cubo di cemento", dice Anna. "E in genere, quando si sa troppo, si diventa presto vecchi e raggrinziti". Questo è un proverbio russo.

Alina Bronsky (Foto ORF/Johannes Puch)

Poiché il giudice di Anna si fa attendere, lei dorme con Valentin, che pure ha un sogno di categoria C. Lui vuole una Mercedes color bianco neve nuova di zecca. Prima deve prendere la patente, per questo prima della scuola si esercita con quiz sui segnali stradali. Mentre li fa ha per lo più un'espressione del viso come se qualcuno gli avesse ficcato un cactus nelle mutande.

Peter, del quinto piano, al contrario sogna una biondina autentica con occhi scuri. Prima stava con Anna, che ha occhi marroni, ma non è genuina - in ogni caso non come biondina. A me lui non era interessato. I miei capelli sono troppo scuri.

Mi chiamo Sascha Naimann. Non sono un tipo, anche se qui da noi tutti pensano che questo abbia a che fare col mio nome. Ho rinunciato a contare quanto spesso abbia già cercato di spiegarlo alla gente. Sascha è una abbreviazione di Alexander. Il nome con cui mi chiamano di solito è Sascha, così mi ha chiamato sempre mia madre e così voglio anch'io. Se mi si rivolge la parola come Alexandra non reagisco.

Talvolta penso che non vorrei più conoscere nuove persone, perché ne ho abbastanza di dover ripetere la stessa storia dall'inizio: perché mi chiamo Sascha, da quanto tempo vivo in Germania, come ho fatto in così poco tempo a trasformare il mio accento moscovita in alto tedesco, nel quale osteggio aspramente il suono sibilante dell'Assia che all'inizio del mio soggiorno ho assorbito dai turchi del caseggiato vicino. Lo imparato da solo, potrei rispondere, se volessi rispondere. Infine la mia testa è piena di materia grigia che sembra una noce che macroscopicamente ha molte tortuosità e che microscopicamente invece presenta una orgogliosa quantità di sinapsi. Posseggo un paio di milioni di sinapsi più di Anna, forse, anzi è sicuro. Se mi capita di prendere un due, mi si avvicina l'insegnante e si scusa.

Su questo mia madre aveva riso e detto che la inquietavo. L'avevo sempre inquietata, perché pensavo in maniera più logica di lei. Non era stupida, ma troppo sentimentale. Ha letto almeno un grosso libro alla settimana, suonava il pianoforte e la chitarra e conosceva un milione di canzoni.

Ma non sapeva fare uno più uno. Oppure non si accorgeva di quando fosse il momento di sbattere un uomo fuori dalla porta. Tutte facoltà, queste, che ho acquisito apertamente da mio padre. So solo che aveva più titoli di dottorato ed aveva un carattere di merda. "Anche tu ce l'hai", ha detto mia madre, "E i titoli arriveranno sicuramente".

Sono l'unica nel nostro quartiere ad andare a scuola alla "Alfred-Delp". Si tratta di un ginnasio privato cattolico e ancor oggi non so perché mi accettarono, allora - ancora prevalentemente muta, non battezzata, col mio pullover rosa sfavillante fatto a maglia dalla mia nonna daltonica. Allora era ancora là da venire il tempo dei pullover rosa. Per mano a mia madre, che parlava solo il suo inglese fiorito con un accento terribile, proprio per questo così forte, e portava i suoi capelli color rosso fiammeggiante. In mano un litro di latte in una confezione di plastica Aldi.

Oltre a mia madre, avevano iscritto i loro figli anche centinaia di architetti, medici ed avvocati tedesco-cattolici. Tutta gente sulla cui fronte stava scritto a chiare lettere "Elargisci volentieri e generosamente".

Nel frattempo ho capito che la mia accettazione rientrava in un progetto della scuola: un po' d'integrazione e molta cura dell'immagine. Tutti i dottori, gli avvocati e gli architetti hanno infatti ricevuto il rifiuto per il loro figli. I miei compagni il primo giorno di scuola mi hanno guardato fisso, come fossi sbarcata da un UFO. Poiché la maggior parte di loro non aveva ancora mai visto uno straniero da vicino, furono tutti carini con me.

Mia madre diceva che avrei dovuto invitare una volta i miei compagni di scuola a casa. Diceva così perché non aveva idea d icosa significasse. Invitò costantemente amici. Io però ero già stata a casa di due mie compagne di classe e con tutta la buona volontà non potevo immaginarmi un cambiamento della situazione.

Nessuna idea di quello che mi aveva sconvolto. L'ordine nella camera della mia compagna Melanine, o i mobili, dei quali prima avevo pensato appaiano solo in un catalogo o nella fantasie di Anna, o le lenzuola con i cavalli. Non avevo mai visto prima lenzuola colorate. A casa, da noi, ce n'erano solo bianchi o celesti a fantasia, in ogni caso vecchissimi e slavati. Mi chiedevo come ci si potesse addormentare sopra o sotto quei cavalli senza che ne derivasse un tremolio degli occhi.

La mia compagna di classe Melanie aveva le guance rosse, odorava di sapone e portava una giubbotto di jeans stirato. Sua madre a pranzo mi guardava di traverso compassionevole e mi faceva domande sulla mia città di nascita, sul tempo a Mosca, sulla mia vecchia scuola e su mia madre.

Raccontavo che mia madre aveva studiato storia dell'arte e a Mosca era entrata in un gruppo teatrale che veniva continuamente sciolto, e che anche qui voleva cercare un piccolo teatro per recitare. La madre di Melanie deglutì ed evitò di domandare se il nostro palazzo non fosse troppo pericoloso. Dissi che era più pulito e accogliente della casa nella quale avevo vissuto dall'altra parte. Quando parlavo di Russia dicevo sempre "dall'altra parte". Melanie masticò silenziosa il suo quark. Dopo pranzo tornammo nella sua camera ordinata, dove Melanie accese il suo impianto stereo. Scoprii lì accanto una pila di vecchi "Bravos" e iniziai a leggere. Nel frattempo Melanie si era voltata con la sua sedia da ufficio e stava parlando al telefono con un'amica. Proprio per il fatto che non avevamo nulla da dirci, trovai quel tempo ben speso. La sera la madre mi portò a casa, mi guardai attorno agitata e insistetti per farmi accompagnare fino alla porta dell'appartamento e perché fosse eseguita la consegna a mia madre.

In ogni caso mia madre non era in casa. Però avevo una chiave.

"Vieni a trovarci ancora", disse la madre di Melanie e accarezzò la mia guancia.

"Va bene", dissi e pensai tra me: solo se ci saranno nuovi "Bravos".

Dopodichè osservai il nostro appartamento con occhi diversi. Il nostro divano trovato tra i rifiuti, con di fronte il tavolino, di cui, se lo si guardava di sbieco, si vedeva il terzo piede spezzato. Di fronte il piccolo televisore un mucchio di videocassette. Già allora nessuno aveva più videocassette! L'armadio senza sportello. I calzini del mio patrigno sul termosifone. La calzamaglia di mio fratello sulla sedia. Le nostre cinque sedei venivano dal deposito dei rifiuti ingombranti, i nostri piatti dal mercato delle pulci. Il nostro tavolo da cucina era ricoperto di vasetti di marmellata, lettere, cartoline, bottiglie indignate e vecchi giornali. Allora non avevamo ancora una lavatrice e il più delle volte i nostri piatti s'ammucchiavano nel lavandino fino a che di sera non tornava a casa mia madre a rimettere in ordine. Qualche volta lo facevo io, ma piuttosto raramente. Ed evitavo, soprattutto quando ad esortarmi a farlo era Vadim. Solo quando pronunciava minacciosamente il nome di mia madre da quella sua lurida bocca mi mettevo a pulire rapidamente.

Io odio gli uomini.

Alina Bronsky (Foto ORF/Johannes Puch)

Anna dice che esistono anche uomini buoni, simpatici, gentili, che cucinano e puliscono, che guadagnano bene e vogliono figli, che fanno regali e prenotano un volo alle Canarie, che portano vestiti puliti e non bevono e che forse hanno addirittura una belle presenza. E dove sarebbero, sulla luna? Anna sostiene che uomini del genere, anche non ce siano nella nostra città, di certo se ne trovano, forse a Francoforte. Ma neppure lei ne conosce di persona, tutt'al più dalla televisione.

Per questo motivo ripeto volentieri quello che mia madre ha sempre detto: io stessa sono un uomo.

Per quanto lo abbia detto non si è mai ritenuta tale.

Da quando so che ucciderò Vadim sto molto meglio. L'ho anche promesso al mio piccolo fratello Anton, che ha nove anni. Credo che da quel momento vada meglio anche a lui. Quando gliel'ho raccontato ha spalancato gli occhi e senza fiato mi ha chiesto: "E come farai?"

Ho fatto come avessi una grande esperienza. "Ci sono migliaia di possibilità", ho detto. "Posso avvelenarlo, strangolarlo, strozzarlo, pugnalarlo, gettarlo dal balcone, investirlo con un auto."

Ma tu non hai un auto", disse mio fratello Anton, e certo aveva ragione.

"In questo momento non posso neppure avvicinarmi a Vadim", dissi, "Lo sai che è in prigione. E ci rimarrà ancora per molti anni."

"Allora durerà ancora così tanto?"

"Sì", risposi, "ma è bene così. Posso prepararmi meglio. Sai, non è così facile uccidere qualcuno se non lo si è ancora fatto mai."

"La prossima volta andrà sicuramente meglio, disse Anton con tono da esperto.

"Una volta voglio portare questo sulla scena", dissi, "Non deve diventare un hobby".

Ero alleggerita dal fatto che Anton la trovasse una buona idea. In definitiva Vadim è suo padre, ma il piccolo lo odia come lo odio io. Se non di più. I suoi nervi erano distrutti già da prima perché lui, al contrario di me, aveva sempre paura di Vadim.

Ora Anton è sempre completamente fuso e non migliorerà. Mi chiedo se tutte queste terapie servono a qualcosa. Anton balbetta, a scuola non può sedere in silenzio, di notte piscia nel letto ed inizia a tremare se qualcuno inizia a parlare a voce alta. Inoltre, lui sostiene di non può ricordarsi nulla. Allora gli dico sempre: sii felice, anch'io lo sono perchè per quanto il fatto che, per quanto sia stata presente, non riesco a ricordare nessun fatto.

Del mio primo sogno posso parlare con Anton. Degli altri no, perché sempre, quando qualcuno dice in sua presenza la parola "mamma", Anton s'irrigidisce e diventa inaccessibile. Altri bambini del monolocale trovano stimolante verificare con regolarità se questa reazione si produca con continuità.

Per questo motivo schiaffeggio ogni bambino che dica in presenza di Anton la parola "mamma". E' il minimo che possa fare per mio fratello. Oltre a non cacciarlo quando di notte, urlando, viene nel mio letto, si stringe a me e prima o poi, quando suona la sveglia, piscia sui miei piedi per il terrore.

Prima volevo essere famosa, come qualsiasi altra persona. Non avevo avuto nulla in contrario ad avere una madre prominente, della quale tutti parlano. Quando saremmo stati davvero tutti famosi, li avrei strangolati volentieri: i fotografi e i cameraman, gli uomini e le donne con i microfoni e piccoli taccuini che filmavano l'ingresso della nostra casa e suonavano ai nostri vicini per chiedere quanto chiasso ci fosse quella sera. Chi ha urlato e chi ha pianto, chi è corso e Vadim ha detto davvero: "Qui c'è sangue, non entra?"? Ed anche: "E' finita, scappa"?

Il giorno dopo mia madre era su tutti i giornali. Il suo nome proprio, la prima lettera del cognome, l'anno di nascita e una foto. Era quella che avevano ricevuto dal suo gruppo teatrale, una bella foto, i lunghi capelli rossi, il viso non così ben truccato come di solito, il pullover nero. In quei giorni divenne una star.

Guarda, ti rallegri ora, le ho chiesto. Non ti avevo avvisato? Perché hai sposato questo coglione? Perché l'hai lasciato nell'appartamento in quella maledetta sera? Tu sei sempre stata una donna incredibilmente stupida, te l'ho detto. Come potevi farmi credere di essere stata così stupida?

Poi mi sono scusata con lei. Era come era e non poteva farci nulla. Era una di quelle tipe che oggi non esistono più - innanzitutto un po' più, un po' meglio e un po' più raffinata. E questo lo scriverò nel mio libro, così che tutti ne possano fare esperienza. Non voglio che lei diventi famosa solo perché è morta povera.

Ho letto le notizie sui giornali dall'inizio. Sono scesa al chiosco qui sotto e ho comprato tutto quello che c'era. I primi giorni non eravamo in casa, perché l'ufficio d'assistenza ai minorenni ci aveva sistemato in un appartamento che appartiene al Comune. Ma dopo due giorni ho detto che non lo sopportavamo. L'appartamento era completamente privo di polvere, di libri e di vita. Inoltre c'era lì dentro un ficus di plastica. Ho detto che i ragazzi volevano tornare a casa.

Potemmo tornare a casa, dove tutto era già comicamente in ordine come mai era stato prima. Fummo assistiti ventiquattrore su ventiquattro da diverse donne con i capelli corti che sembravano tutte uguali e avevano il doppio nome e da un uomo con i capelli lunghi e con ugualmente un doppio nome.

Mi ricordo appena quei giorni. So solo che ho parlato quasi ininterrottamente e ho spiegato loro com'era organizzata la nostra vita prima e che ora doveva rimanere tale e quale; che in nessun caso avrebbero dovuto comprare cibo diverso da quello che eravamo abituati a mangiare. Tuttavia un giorno c'era del burro biologico sul tavolo e quella volta mi è venuto un malore.

Ricordo ancora lo sguardo che una delle donne mi ha lanciato quando, urlando, sono caduta a terra, direttamente sul burro calpestato. In quello sguardo c'era sollievo. Mi avevano tenuto in castigo per giorni e giorni, in quel momento non avrei avuto bisogno di funzionare. Avrei potuto lasciare libero corso ai miei sentimenti.

Avrei dovuto farlo.

Ma non avevo dato loro ascolto.

E poi Maria era lì. Cugina di secondo grado, con due consistenti valige importate da Novosibirsk. Una chance, per i bambini traumatizzati, per diventare di nuovo una famiglia.

Cugina di Vadim, peraltro.   

Alina Bronsky (Foto ORF/Johannes Puch)

Avevo acconsentito che venisse perché dopo l'esperienza fatta nell'appartamento comunale avevo reagito in maniera allergica alla parola "casa" e non c'erano certo file di coppie sposate che volessero accogliere tutte e tre le tre smarrite marmocchie d'origine russa. E certo non migrare proprio nell'appartamento la cui porta era stata fotografata come Heide Klum.

Dunque Maria.

Maria è sui trentacinque, ma ne dimostra cinquanta. Ha lavorato a Novosibirsk in una fabbrica-cantina. Maria, queste sono mani incallite grandi quanto una vanga, con unghie ricoperte di smalto rosso sangue, capelli biondi ossigenati corti e con permanente, gambe grasse con vene varicose, che però non si vedono sotto la calzamaglia di lana, una dozzina di vesti fiorite, un posteriore così largo che sopra ci potrebbe atterrare un elicottero, un profumo così dolce che fa starnutire, una grande bocca pitturata di rosso, guance larghe, piccoli occhi.

Occhi carini. Di solito è carina, Maria.

Alissa la abbatte subito, come le avesse sparato. Maria qui, Maria là, Mascha, cara. Ma-ma-ma-ma-mamma! Non ero mica acida con lei. Era solo ancora dannatamente piccola. Ha occupato subito l'immenso ventre di Maria. Credo che per giorni non sia voluta scendere e Maria era molto nervosa, perché con Glissa in grembo non poteva cucinare bene. Come se qualcuno di noi volesse mangiare. Ha cucinato bene, Maria. Cucina ancora bene. Molto meglio di mia madre. Maria può fare il Borschsch ed altre zuppe complicate. Nell'appartamento c'è sempre profumo che viene dalla cucina. Prepara brodi azzeccati, di pollo o di manzo, con ortaggi e un bel po' di verdura. Frigge polpette di carne perfette nella forma e frittelle leggere come trina. Nel supermercato russo all'angolo ha scoperto il latte condensato zuccherato, una pappa dolce ambita al tempo dei soviet più del caviale, e vi inzuppava le frittelle ripiegate. Mette i cetrioli in salamoia e prepara la marmellata di ribes neri.

Negli articoli di giornale Maria era "l'unica parente vivente pronta ad occuparsi dei tre fratelli sopravvissuti."

Non siamo "sopravvissuti", ho mormorato allora. E Maria non è venuta per gettare la sua degna vita ai nostri piedi. Se si lavora in una mensa a Nowosibirsk e all'improvviso viene chiesto se si è disposti ad andare in Germania per cucinare la zuppa ad un paio di bambini, allora questo ha un po' meno valore rispetto ad un mezzo regno, ma ne ha molto di più in confronto ad un sei fatto al lotto.

Tanto più che Maria si era sposata non so quando in gioventù e si era separata rapidamente. Questo successe forse anche una seconda volta. Non ha bambini, né animali e così ha pensato che nulla la legava al suo monolocale e alla sua mensa. Questo è risultato nel frattempo come falso e questo avrei dovuto dirglielo subito anch'io. Perché a Nowosibirsk c'era sempre qualcuno che ascoltava le sue opinioni, che puntellava con resoconti dalla sua vita rovinata. Qui al contrario nessuno se ne vuole interessare. Dunque è condannata al silenzio.

Maria, dopo quasi due anni, conosce una ventina di parole tedesche, del tipo bus, patata, burro, immondizia, cucinare, lavare, inculatevi (per gli adolescenti dai riccioli neri che talvolta le fischiavano deitro per la strada e le facevano gesti inquietanti). Questi vocaboli li raggruppava saltuariamente in frasi. Per lo più tutto questo andava a monte. Quando va a fare spesa in un supermercato che non sia russo deve indicare con le dita e scrivere i numeri. E' per questo che deve portare sempre con sé un blocknotes. Dopo ogni spesa fatta da Aldi è un bagno di sudore. Se viene chiamata per strada si mette a gemere e le vengono fuori macchie rosse sul viso. La frase "io parlo solo russo" l'ho provata con lei per due settimane. Se l'è scritta in caratteri cirillici su di un piccolo pezzo di carta che ha nel portamonete.

Quando vengono in visita i doppi cognomi dell'ufficio di assistenza ai minorenni Maria finisce ogni volta nel panico e, sia prima che dopo, devo consolarla a lungo, dicendole che fa bene quello che fa e che non deve tornare alle pentole della sua mensa.

Si sente così tanto infelice nel monolocale, che, sebbene non ancora, vuole a tutti i costi tornarsene a Nowosibirsk. Sogna di rientrare, prima o poi, più in là, con un corpetto, truccata decentemente, con una valigia piena di roba sciccosa e possibilmente sottobraccio ad un tedesco con baffi ben curati. Dev'essere simpatico e ricco e soprattutto deve parlare russo, perché questo tedesco, dice Maria, è più difficile del cinese, che pure sto imparando il martedì pomeriggio in una comunità di lavoro.

Quando faccio i lavori di casa talvolta la sento sospirare alle mie spalle e commentare in questo modo: "E' importante imparare, è bene imparare. Prima non ho mai studiato, ho lavorato sempre. Fin da bambina. E ora mi osservo. Ne è valsa la pena?"

"Leggi qualcosa, passerotto", dico. "Non dev'essere subito Guerra e pace. Prova con un giallo."

"La sera sono sempre così stanca, luce della mia vita", dice. "Quando ho letto un po' dimentico subito e devo ricominciare da capo. Mi stanca." Per questo motivo legge giornalmente una pagina del calendario a fogli staccabili Per la casalinga ortodossa, dove trova una volta una ricetta, un'altra volta un consiglio per cavarsela più rapidamente e talvolta una barzelletta: tutto questo le basta. Allora strabuzzo gli occhi, ma in modo che lei non se ne accorga. Perché davvero lei non può nulla per aver ricevuto dall'inizio troppo poche sinapsi, delle quali peraltro due terzi andarono perdute nella mensa della sua fabbrica.

Alina Bronsky (Foto ORF/Johannes Puch)

Sono solo un po' preoccupata per Alissa. Maria è ancora un'altra cosa rispetto alla mia sorella di appena quattro anni, ma questa situazione cambierà in un tempo non troppo lontano. Ho introdotto nella giornata di Maria delle ore di lezione come appuntamenti obbligatori nella giornata di Maria. "Non sapevo", ha detto stupita Maria dopo l'impatto con il primo libro illustrato, "che esistono libri così interessanti".

Lei vuole bene ad Alissa nella maniera più tenera. A tal punto che era contraria a portare la piccola all'età di tre anni all'asilo, dove ci sono malattie e cibo congelato. Dovetti minacciare l'intervento dell'ufficio d'assistenza ai minorenni per spezzare la sua resistenza.

Maria abbraccia ed accarezza di continuo mia sorella e sotto un mare di lacrime rinuncia solo al "mia povera orfanella", da me severamente pietosamente vietato.

Qualora Maria dovesse tornare a Nowosibirsk si spezzerebbe il cuore non solo a lei, ma anche a mia sorella. "Solo quando Alilein sarà grande mi sentirò di nuovo libera" dice Maria. "Voglio allevarla così che diventi felice e in salute (miapiccolaorfanella)".

In altri giorni Maria dice che si sentirà libera solo quando Alissa avrà trovato un uomo decente da sposare.

"Tu non sei un servo della gleba", dico. "Può essere che Alissa trovi un uomo degno solo a trent'nni. Se sarà fortunata."

Maria sospira. "Quando Alilein avrà un diploma", dice infine, "anche allora sarò pienamente felice."

"Diploma" per lei è una parola magica, come la tassa sul reddito da capitale o ilparacetamol.

Per Alissa lei morirebbe. Questo non significa che abbia qualcosa contro Anton. Cerca sistematicamente di accarezzare quell'orfanella, ma Anton non permette alcun contatto. Lui fa semplicemente un passo indeitro, finché non trova la parete alle sue spalle. Allora anche Maria capisce di dover allontanare le mani da lui.

Maria ha paura di me e questo ha i suoi vantaggi.

Maria vede molti motivi per venerarmi. Padroneggio la lingua di questo dannato paese. Le spiego questo nostro mondo e l'accompagno a fare spesa li dove è necessario un interprete. So come si fa domanda di assistenza sociale e di assegni familiari. Di solito sono presente quando fanno visita quelli dell'ufficio d'assistenza ai minorenni. Quando devo tradurle una domanda penso subito anche alla risposta.

Maria ha una paura panica di fronte a tutto ciò che ha a cha fare con le autorità. Di fronte a chiunque diffonda l'autorità statale si sente piccola come una formica. Da del „lei" anche alla biglietteria automatica e quando viene controllata in un bus con un sorriso scoraggiante tira fuori il biglietto dalla tasca con tale fretta che il rossetto e l'assorbente si mettono a volare nell'aria come pallottole.

"Sempre con calma, Maria", dico sibilante quando capita che ci sia anch'io e mi metto a strisciare sul pavimento per raccogliere quegli oggetti, mentre Maria, paralizzata, ride alle spalle del controllore.

"Non avrei mai pensato ad un tipo del genere", sussurra timorosa, "con i capelli lunghi e un orecchino come fosse uno dei Beatles. Strano modo di andare in giro. Cos'ha attaccato all'orecchio?"

"Un registratore mp3" le spiega lui.

"Cosa?"

"Musica."

"Credo che tu diventerai come tua madre", dice Maria, come di solito, in una situazione del genere.

"Cosa?"

Lei si tappa la bocca con le mani.

"Cos'hai detto?"

"Nulla, nulla", sussurra lei, "nulla, nulla."

Infine scendiamo al centro e cambiamo l'orologio da polso che Maria aveva comprato due giorni prima per 4,95 euro e che da ieri non funziona più.


Tradotto da Vito Punzi
 

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