Max Scharnigg

Nato nel 1980 a Monaco, dove risiede. Dopo il diploma di scuola superiore, ha frequentato la scuola di giornalismo e da allora ha iniziato un’attività di collaborazione fissa e di commentatore per la redazione di jetzt.de, il sito Web della Süddeutschen Zeitung.

 

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TDDl 2010TDDl 2010

 

Max Scharnigg

La scalata della parete nord dello Eiger sotto una scala

 

Traduzione: Vito Punzi

 

1.

Era il primo giovedì di aprile quando non misi più piede nell’appartamento. Allora stavo lavorando da settimane ad un articolo sulla prima scalata della parete settentrionale dello Eiger e sulla città soffiava un föhn che rendeva le persone inquiete e scattanti. Lasciai la redazione del giornale per ultimo e presi la metropolitana per andare a casa con in testa sempre la scalata dello Eiger. Durante il tragitto mi ritrovai in piedi accanto a due uomini con giacche appariscenti. Avevano i colletti chiusi quasi fin sotto il mento, parlavano per metà ciascuno dentro la propria giacca, per l’altra metà con chi gli era di fronte del week-end che stava per iniziare, ed io udii uno di loro dire esattamente: “di sera sarà sicuramente geniale”, quando il rumore delle porte che si chiudevano m’impedì di udire altro. Sulle spalle dell’altro, rivolte verso di me, c’erano attaccate le parole a grosse lettere “Mammut Extreme” e quando me le ripetei lentamente nel pensiero arrivò l’annuncio del guidatore della metro così che Stiglmaierplatz suonò come Mammut Extreme.

Partendo da Monaco di Baviera, Anderl Heckmair aveva pedalato insieme all’amico Wiggerl fino a Grindelwald: era il 1938. Avevano piantato la tenda proprio ai piedi della parete nord dello Eiger, s’erano rinvigoriti prendendo Ovomaltina ed erano saliti, con pullover di lana. Lungo il cammino passarono accanto al famoso scalatore Heinrich Harrer, il quale con la sua cordata già da tempo brancolava lungo la parete. I ragazzotti s’appiccicarono a Harrer e in quattro scalarono la parete in diciassette ore. Sulla terrazza del Kleinen Scheidegg c’erano quella volta turisti con pantaloni serrati sotto le ginocchia che osservavano con il binocolo la scalata. Quando Heckmair giunse sulla cima la sua grande preoccupazione fu che non avrebbe trovato un luogo dove trascorrere la notte, poiché lui e Wiggerl non avevano più soldi. Successivamente dovette partire come soldato per il fronte orientale e di seguito divenne guida alpina a Oberstdorf. Due mesi fa, il primo febbraio, Anderl Heckmair, il primo conquistatore dello Eiger, è morto. Era il giorno del mio ventottesimo compleanno.

 

Ero sovraffatico, aveva detto M., ed era vero. Due settimane fa avevo chiesto le ferie, ma non avevo ricevuto alcuna risposta. Forse sospettavano che per me non si trattasse di ferie. Non avevo certo in testa ombrelloni da spiaggia. Ciò che volevo era un silenzio benevolo, come quello che domina in un piccolo cimitero di città. Questo era ciò che avevo in mente come vacanza, un silenzio benevolo nel quale potessi muovermi. Scesi a Rotkreuzplatz, non passai per Leonrodstrasse, com’ero solito fare, piuttosto voltai alla via successiva. I marciapiedi erano umidi e puliti.

Davanti a me camminava una giovane donna che da dietro sembrava M., con i suoi  capelli a coda di cavallo. Ma era un po’ più alta e portava stivali in pelle marroni all’interno dei quali scomparivano i suoi jeans. Stava camminando velocemente, come me.

Ci eravamo trasferiti da qualcosa più di un anno nella casa di Jutastrasse, allora aveva nevicato e il riscaldamento non aveva funzionato, così che la prima settimana restammo al freddo e M. non uscì mai dal letto. Quando rientravo dalla redazione il mio alito creava nuvole nelle camere spoglie.

Anche la giovane donna davanti a me svoltò in Jutastrasse e questo fatto m’inquietò. La via non era lunga. Lei rallentò il passo proprio di fronte alla mia porta di casa e portò la borsa davanti al proprio corpo, per cercarvi la chiave. Mi fermai, ma per soli pochi secondi, perché solo così poteva apparire ragionevole. Poi mi diressi verso sinistra, attraversai il passo carraio di un garage, fino ad un cancello dov’era appeso un cartello “Chiudere la porta”. Attraverso il cortile interno del vicino giunsi nel nostro cortile interno, che consisteva in una bassa baracca per i bidoni dell’immondizia e in un piccolo giardino, nel quale la moglie del portinaio coltivava ortensie. Durante l’ultima estate le ortensie erano diventate così alte che le api, che si stavano dirigendo verso i fiori più alti dovevano fare una sosta sul nostro balcone.

Entrai nella tromba delle scale attraverso una pesante porta in ferro che era solo socchiusa. I passi della giovane donna che stavano salendo gli scalini in legno risuonarono sopra di me, mentre io me ne stavo in silenzio. Lei non aveva acceso alcuna luce, la tromba delle scale era immersa nell’oscurità e l’oscurità odorava un po’ di carne bruciata, poiché nell’edificio c’era una macelleria. Sentii il passo della donna arrestarsi, venne aperta una porta, probabilmente al terzo piano. Noi abitavamo al secondo.

L’interruttore accese la luce solo dopo una seconda pressione, salii lentamente i gradini della scala, con in mano il giornale che avevo preso dalla nostra cassetta delle lettere, fatto che indicava come M. non fosse uscita di casa neppure quel giorno. Nel nostro appartamento ardeva una luce che attraverso il vetro opaco della vecchia porta appariva calda e uniforme. Sulla soglia della porta c’era un paio di scarpe. Fatta eccezione per gli stivali di gomma dei bambini, di regola nessuno metteva le proprie scarpe nella tromba delle scale. Si trattava delle scarpe basse di un uomo che normalmente erano posate accanto al nostro zerbino. Avevano una forma sportiva e affilata, ma non si trattava di scarpe da ginnastica, la loro pelle verdognola in alcuni punti era crepata, mentre la pelle interna era gialla, dall’alto potei vedere le scure impronte dei polpacci. I lacci mi sembrarono troppo lunghi. Non erano scarpe che mi appartenevano.

 

La luce della tromba delle scale si spense provocando un lieve e lontano rumore ed io rimasi in piedi nell’oscurità di fronte al paio di scarpe ignote accanto alla porta del nostro appartamento. Come se con la luce fosse venuto meno anche un rumore di sottofondo, il silenzio nella tromba delle scale a quel punto fu molto più significativo. In uno dei piani superiori era in funzione una lavatrice. Per quelle scarpe non c’era alcuna spiegazione, M. non aveva un fratello, così come non aveva amici che avrebbero potuto farle visita senza annunciarsi. Amici di questo tipo ce n’erano stati, certo, ma con gli anni erano del tutto scomparsi. Nella luce crepuscolare la fodera delle scarpe continuava ad essere ben riconoscibile. Con prudenza toccai le scarpe con un piede, spostandole un poco di lato, fino a farle toccare alla porta. Sentii venire delle voci venire dall’interno. Quella di una donna, ovattata, come se filtrasse attraverso due porte chiuse, dunque mi risultò impossibile capire se si trattava della voce di M. La voce suonava pacata e dolce, come se fosse rivolta ad un uomo che già da tempo siede in una stanza riscaldata. La voce maschile sembrava ancor più lontana, ma udii distintamente le dure sillabe con le quali iniziava ogni quarta o quinta parola. Poi si aprì una porta, così che s’alzò il tono del colloquio, tuttavia senza che io potessi intendere le singole parole, si aprirono altre porte, entrambe le voci si stavano avvicinando a me. All’improvviso udii molto da vicino attaccare all’interno la catena della porta, quella che veniva usata ogni sera da M. e me durante una cerimonia silenziosa: senza il suo tintinnare protettivo non potevano starcene del tutto tranquilli.

Le voci si fecero di nuovo più flebili, allontanandosi s’abbracciarono, così mi parve, ridendo si toccarono, finché il rumore scrosciante dello scarico del cesso ricoprì tutto. Avevamo infatti uno scarico molto rumoroso, l’acqua scendeva nella terrina partendo da un contenitore posto a quasi due metri d’altezza. Indietreggiai di un passo dalla porta, immutata la luce arrivava fin nella tromba delle scale attraversando la lastra di vetro opaco, ma aveva perduto il suo calore. Dall’interno arrivarono allora rumori di posate e stoviglie prese dall’armadio e disposte sulla tavola, sempre avvolti dal pacato colloquio tra le due voci. Con facilità le fessure della porta vennero attraversate anche da un odore di cipolle cotte. Me ne stavo lì quasi affannato, con la chiave in mano.  

 

Con uno scatto lontano venne riaccesa la luce della tromba delle scale, sentii sbattere sotto prima la porta d’una abitazione e poco dopo il portone. Atterrito mi voltai, riposi la chiave nella tasca del cappotto e me ne andai – proprio come se dovessi uscire dall’edificio. Scesi di fretta, come fossi nella scena di un film, arrivai fino alle cassette delle lettere, che si trovavano alla parete, accanto alla porta della cantina. Mi fermai davanti alla nostra cassetta, come se la nostra targhetta col nome avesse la stessa funzione di una targhetta con numero nel parcheggio di una fabbrica, come se lì potessi parcheggiare e spegnere il motore.

 

L’edificio è vecchio ed ha una zona d’ingresso molto grande e con un soffitto alto a volta. Le pareti sono ricoperte di piastrelle fino all’altezza del mento. La luce si spense di nuovo, lo scatto del timer ora era molto vicino. Chiusi per un attimo gli occhi, sui lati interni delle mie palpebre lampeggiavano le scarpe verdi che erano davanti alla nostra porta. Quelle scarpe appartenevano ad un uomo che si trovava nel nostro appartamento e che si stava intrattenendo con M., anche in quel momento. Stavano apparecchiando la tavola e facevano risuonare lo scarico del cesso. Era accaduto qualcosa. Solo poche ore prima in quello stesso appartamento mi ero alzato, avevo svegliato M. e, mentre mi vestivo davanti all’armadio, avevo parlato con lei, come facevamo tutte le mattine, con un ritmo commisurato al suo molle risveglio nel quale, dopo il suo sonno, interrogo sulle immagini di sogno e sulle piccole insensatezze che forse si erano verificate. Avevo aperto la finestra stamattina? Avevo detto qualcosa sul tempo? Il sole era entrato nella camera sui bordi delle tapparelle come una cornice abbagliante? M. non si era alzata neppure per andare a prendere un bicchier d’acqua? Tutto questo poteva non essere accaduto neppure ieri o mai. Attraverso la ringhiera della scala guardai verso l’alto, ma la vista non poteva andare oltre qualche metro. In alto tutto era avvolto da un’oscurità impenetrabile. Non avevo alcun desiderio di risalire fin lassù.

 

Sotto la scala c’era dello spazio. C’erano lì una carrozzina e un cestino per i giornali pubblicitari, che veniva svuotato saltuariamente dal portinaio. La scala sporgeva lì sopra come si trattasse di un semitetto. Spostai un poco la carrozzina di lato e fui colpito dal modo in cui si mosse allontanandosi da me. Lì dietro era buio pesto. Da bambino avevo vissuto in una stanza in soffitta, il mio letto si trovava direttamente sotto lo spigolo dove aveva inizio l’inclinazione del tetto. Di tanto in tanto, alzandomi, battevo la testa, ma ci dormivo bene e ancora anni dopo che i miei genitori avevano venduto la casa con stanza nella soffitta potevo addormentarmi solo se mi immaginavo quell’inclinazione del tetto della mia camera da bambino.

M’infilai sotto la scala. Il pavimento era caldo, sotto le piastrelle marroni del pavimento correva probabilmente un tubo di riscaldamento. Mi sedetti con le spalle alla parete, esattamente nel punto in cui senza sforzo potevo appoggiare la testa all’inclinazione delle scale. Con i piedi manovrai la carrozzina davanti a me così che il suo fianco schermasse la mia posizione. Spinsi il cestino al suo lato destro, come si trattasse di una torre di guardia. Misi il giornale sotto di me, usandolo come unico strato isolante. Riflettei su cosa ci fosse quel giorno che potesse interessarmi, una doppia colonna su di un film per la televisione, e fui contento che quel giornale servisse a qualcosa.

La mia posizione era comoda, sedevo su di un pavimento riscaldato, le gambe distese arrivavano giusto alla carrozzina, che aveva un rivestimento impermeabile contro la pioggia e che mi schermava quasi per intero. Di lato il cestino, che era un po’ più basso della carrozzina, chiudeva l’angolo. La luce si spense, lontano, alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù si sentì battere le otto e ancor prima dell’ultimo rintocco, contrariamente alle mie abitudini, caddi in un sonno appagato.

 

2

Passai i giorni successivi sotto la scala. Di tanto in tanto mi sgranchivo le gambe nel cortile interno, ma raramente. Per lo più non avevo necessità di movimento e diversivi. Non provavo noia. In una specie di dormiveglia, nei pensieri continuai a scrivere della scalata allo Eiger, ovviamente senza scriverne davvero. E tuttavia quelle riflessioni erano molto dettagliate e così precise che dopo alcune ore le frasi che avevo in testo potevo cancellarle, come nel computer, lasciando semplicemente  che avanzasse il testo restante, potevo spostare anche interi passaggi di altri potevo anche fare con calma la correzione delle bozze. Questo lavoro m’impegnò molto, il testo era lievitato ormai a nove pagine e continuamente lo integravo con nuove parti. Durante le pause più lunghe ascoltavo i passi delle persone che camminavano sopra di me e prese avvio un altro testo nella mia testa, una specie di catalogo, nel quale cercai di trascrivere l’identità di quei passi. Desideravo di potermi servire di quelle descrizioni, mi ricordo che si trattava di supposizioni dirompenti ed acute, simili alle notizie che un sommelier si fa sul costo del vino.

C’era lì una donna che di mattina che scendeva dal quarto piano e faceva ogni scalino con una tale, voluta foga che io già prima del suo passaggio mettevo la testa tra le ginocchia, come mi trovassi seduto in un aereo che sta precipitando. Minuti dopo che la donna scalpitante era uscita dall’edificio gli scalini gemevano ancora, come se dovessero rilassarsi lentamente e dovessero riposizionarsi nelle loro vecchie giunture. Di sera, quando la donna rientrava, non potevo neppure distinguere i suoi passi da quelli degli altri. faceva fragore solo di mattina. Le persone la sera camminavano diversamente dalla mattina, rientravano nei loro appartamenti, in maniera impercettibile, o sollevati, oppure erano così carichi di buste della spesa che dopo ogni passo dovevano fare una breve pausa, proprio come se respirassero aria rarefatta. Quando sentivo qualcuno procedere così mi immaginavo che quello fosse Anderl Heckmair alle prese con gli ultimi passi sulla cresta settentrionale della vetta. Alcuni si fermavano già dopo il primo pianerottolo per guardare fuori dalla finestra.

 

Passai molto tempo lì sotto con l’ansia di essere scoperto da chi usava le scale. Nel caso fosse successo, m’ero inventato un dialogo che modificavo di continuo e recitavo sempre di nuovo, da un lato lo colorivo, dall’altro lo sfrondavo. La mia difesa, con tutte le sue varianti, consisteva principalmente nel fatto che dovevo comportarmi come se mi fossi ritrovato seduto lì sotto la scala senza alcuna intenzione. Come se avessi cercato un posto dove passare appena un attimo e alla fine si fosse offerto proprio quel cantuccio delle scale. In relazione con un’amabile porzione di sbadataggine e con una convincente posizione del tipo “e allora, perché no?” quello doveva bastare per ammaliare i miei scopritori e fuggire nel cortile posteriore, finché quelli non se n’erano andati.

Non avevo alcuna intenzione di abbandonare quel posto. Il testo sull’Eiger, per quanto potevo prevedere, avrebbe richiesto ancora del tempo e non conoscevo miglior luogo di lavoro dell’oscurità del mio nascondiglio sotto le scale, il quale non sembrava dare occasione ad alcun occhio umano di gettarvi uno sguardo accurato. Alla redazione non provocavo alcun pensiero. Il giornale continuò ad essere stampato anche senza di me, ogni mattina, verso le sei, un albino affaccendato lo infilava nelle fessure delle cassette delle lettere, come fossero cariche esplosive in una roccia. Non di rado con quel modo di fare la prima pagina si comprimeva e così i titoloni compressi l’uno sull’altro se ne stavano lì a guardarmi per l’intera giornata, parole abbreviate in forma curiosa che terminavano invisibili nelle fauci della cassetta delle lettere. Mi procurava un certo piacere indovinare l’intero titolo dalle parti spiegazzate. Con i grandi quotidiani questo risultava facile, poiché il loro titolo principale derivava sempre da un piccolo ambito semantico di termini politici e di formulazioni posate. I tabloid erano molto più difficili, perché si sforzavano molto di rendere il più contorti possibili i loro titoli. Molti dei giornali rimanevano nascosti nelle cassette per l’intera giornata e non pochi da lì finivano direttamente nel mio cestino-torre di guardia. Ma non potevo vincere la tentazione di leggerne almeno uno. Mi bastava indovinare i titoli della prima pagina, sebbene non fossi certo di averci azzeccato.

 

Lì sotto le scale non mangiai nulla. Fin dal primo istante la mia fame era sparita. All’inizio lo spiegai con la mia rinuncia al movimento, ma subito dovetti confessare a me stesso che già al minimo dispendio d’energia sarebbe emerso in forma percepibile un deperimento. Al contrario, però, provai una sazietà che in certi giorni diventò perfino pesantezza di stomaco. In questo si celava una regola che doveva in relazione con gli odori che provenivano dalla macelleria, poiché quella sensazione intensa si presentava solo nei giorni, due ogni settimana, del Leberkäse. Ma non avevo tempo per verificare tutto questo. Quando, qualche volta, per capriccio sentivo fame, mi sentivo come un violinista che volesse eseguire qualcosa senza avere lo strumento per farlo. Si trattava di una sensazione quasi progressiva, senza che fosse metabolismo, come se fossi un uomo speciale. Ma su questo non ci riflettei molto.

 

3

Una mattina la carrozzina era sparita. Quel giorno avevo dormito a lungo. Il punto del rivestimento in legno su cui poggiavo la mia testa si era già colorato di scuro ed in forma leggermente rilucente, una scoperta questa che in maniera difficilmente spiegabile mi riempì di soddisfazione.

Ne avevo tratto la conclusione che la carrozzina non sarebbe più stata usata, che era stata lasciata lì per sempre e che per il suo proprietario, ogni volta che vi passava accanto, era come subire una pugnalata che quello era abituato a tenere in conto. L’unica famiglia dell’edificio che aveva un bambino piccolo ogni volta si portava la carrozzina su per le scale. Quando questo accadeva, nella mia testa si produceva un tumulto, ben distinto da quello provocato dai passi, che in me risultava benefico.

Senza la carrozzina quel luogo era denudato. Il nuovo spazio, sotto il mio sguardo risvegliato e indagatore sembrò cambiare più volte. Come quando con un cannocchiale si cerca la nitidezza, i miei occhi s’affrettavano da un lato all’altro, eppure, al termine di tutte le esplorazioni, non potevano essere contenti della situazione che si era creata. Il cestino se ne stava ora ai margini, come qualcosa di davvero poco valore. Quando distendevo le gambe mancava ora loro l’appoggio dell’intelaiatura della carrozzina, sulla quale fino a quel momento s’erano potute appoggiare. Si estendevano nude e lunghe allo scoperto. La mancanza del principale strumento di difesa, tuttavia, non modificò la mia invisibilità. Gli inquilini transitarono come d’abitudine sul mio nascondiglio sotto le scale con quella sequenza che osservavano con precisione rimarchevole. Ciascuno aveva il proprio preciso istante in cui lasciava il proprio appartamento, solo di rado quella sequenza veniva scombussolata, per un intoppo, per un frettoloso rientro in casa, per un indugio imprecisato sull’ultimo scalino. In ogni caso, quando questo tipo di irritazioni si presentava accadeva che s’accumulassero ed aggredissero tutti quelli che usavano le scale.

 

Non venni visto, ma il mio lavoro quel giorno s’incagliò. Ampi brani della scalata dello Eiger che si trovavano nella mia testa non erano subito richiamabili. Così l’intera traversata del “ragno bianco”, finora il punto chiave di ogni scalata dello Eiger, la ritrovai dopo una faticosa concentrazione e solo in una vecchia versione. Accompagnato da una paura affossante sorvolai le frasi assolutamente incompiute, lessi locuzioni che pensavo d’avere da tempo cancellato, trovai ad ogni riga errori di battitura e imprecisioni di fronte alle quali in egual misura provavo vergogna e mi alteravo. Una rapida perizia dell’intero testo rivelò che alcune sue parti erano così impeccabili come le avevo lasciate ieri. Altre sembravano essere state rigettare in stadi disuguali di compiutezza e c’erano pochi punti, passaggi e annotazioni a margine che io non potessi ricordare. Per quanto spesso ci provassi, le guardavo velocemente e in ogni caso per un tempo non sufficiente per riconoscere le parti scomparse. L’appurare le perdite ed il necessario cautelare mi richiesero l’intera mattinata e parte del pomeriggio.                 

 

Ero così assorto in tutto questo che mi accorsi del passo troppo tardi. Era diverso da tutti gli altri e proveniva da sopra. Durante i primi giorni trascorsi sotto le scale, quando compilai il mio catalogo dei passi, avevo cercato di continuo di immaginarmi il passo di M.. Così la feci entrare nei miei pensieri, la feci camminare con me, mi accompagnò ancora una volta per gallerie e mercati nei quali di solito l’avevo accompagnata, ma senza ottenere un particolare risultato. Ora ciò che cercavo era di fronte a me nella risonanza. Era una andare che non sembrava procedere del tutto in avanti. I passi con ogni attacco arretravano un poco, in quel modo toccavano appena il pavimento e ogni due scalini dovevano intramezzare un passo intermedio saltellato per adeguarsi al ritmo delle scale. Assemblai tutto questo con ritardo e finché l’avevo interpretato e avevo messo da parte la scalata dello Eiger la porta di casa si richiuse con una leggera scossa d’assestamento del vetro. L’interno dell’edificio era attraversato da strisce di luce solare nelle quali, salendo e scendendo, si muoveva lentamente del pulviscolo.             

 

Volevo rimettermi al lavorare sul mio testo, ma ora era tutto un tumulto. La carrozzina scomparsa e i passi di M. mi avevano confuso. Continuai a cercare di ricordarmi quei passi, con acribia, come si cerca di ricordare in maniera ancor più precisa le ultime parole pronunciate da un morto. Lei non era andata controllare la cassetta delle lettere ed era uscita senza esitare.

 

L’ultima volta che eravamo usciti insieme di casa era stato tre o quattro settimane prima, come al solito, con la scusa d’aver dimenticato le chiavi, aveva fatto dietrofront già nella tromba delle scale. Quella volta avevo aspettato per dieci minuti davanti alla vetrina del macellaio, infine M. uscì dal portone con circospezione. Si era cambiata, al posto della gonna chiara aveva ora dei pantaloni scuri, guardava imbarazzata per terra, mi prese rapidamente la mano, come fosse una richiesta di clemenza, e vi pose la sua, debole. L’essere debole, questa era la paura.

 

Lei non aveva sempre paura; questa era venuta ad abitare da noi come si trattasse di una parente ammalata. Durante il primo anno lei non c’era ancora, anche se successivamente M. ritenne che io semplicemente non l’avessi vista. Il nostro luogo d’incontro allora era una panchina nel parco che si trovava proprio a metà strada tra la sua università e la mia redazione. Una volta c’eravamo dati appuntamento lì e da quel momento c’incontrammo ogni giorno lì, su quella panchina, sempre all’ora del primo incontro, senza che su questo ci accordassimo. Eravamo timidi e contemporaneamente non nella condizione di riconoscere la presenza di questo tratto caratteristico nell’altro così che dall’inizio ne venne fuori un equilibrio intrinseco. Nessuno dei due nelle prime settimane osò esigere un appuntamento per il giorno dopo. Il silenzioso rincontrarsi nel parco che si ripeteva ogni giorno era preceduto sempre da una vaga speranza. Da parte mia ogni giorno ero certo che lei non sarebbe venuta e cercai d’alleviare le morsa di quel pensiero escogitando motivi innocenti che avrebbero giustificato il suo non apparire. Con meticolosità, ogni volta, a seconda dello stato d’animo, infilavo nella borsa Pan di Knut Hamsun, oppure i diari di Byron, poiché io non andavo lì per incontrare M., ma solo per leggere un po’. Ad oggi non ho ancora letto una sola riga di entrambi i libri. M. si presentò sempre. Nel cesto della sua bicicletta c’era Auto da fè di Canetti o un libro di Françoise Sagan. In ogni caso lei, successivamente, li ha letti entrambi. Ci assomigliavamo molto. Io avevo portato Byron e lei veniva sempre con Sagan. Così s’innamorarono anche i nostri libri ed oggi nella libreria di M. Byron e Sagan sono uno accanto all’altra, mentre Canetti e Hamsun sono da me l’uno sopra l’altro, perché io ammucchio i miei libri in pile alte fino al ginocchio. Con i nostri incontri al parco passò un’intera estate senza che avessimo tentato di fare qualcosa di diverso dallo stare seduti l’uno accanto all’altra su di una panchina. La siepe di faggio rosso che ci schermava dalla città che stava alle nostre spalle, in certi punti divenne brulla nel giorno in cui M. non volle sedersi e piuttosto mi prese la mano, così che con molta circospezione abbandonammo quel primo luogo d’incontro.

 

4

Il disordine sotto le scale sarebbe stato difficilmente riducibile ad una misura normale. Contemporaneamente non avevo alcuna fretta di farlo. Attribuii i fatti accaduti quel giorno ad un errore di costruzione, ad un’ossatura sghemba che avevo caricato troppo e frettolosamente, così che alla fine non avrebbe potuto che cedere. Questo volevo evitarlo e per l’intera giornata ordinai con grande diligenza i testi che avevo in testa, li distesi pagina per pagina e gli spazi liberi che se ne produssero avevano il sapore di un refrigerio. Mentre durante le ore del pranzo nell’edificio era tutto tranquillo, intorno alle quattro rientrarono i primi inquilini e portarono con sé nell’edificio un sapore di calpestato e esalato. Non mi preoccupai oltre di loro, tirai su le gambe e mi dedicai solo ad ordinare e a ricominciare. Misi in un angolo quelle parti del testo della scalata dello Eiger che mi sembrarono immutate e tutto ciò che mi sembrò lacunoso lo sparsi con circospezione, con la paura che un nuovo alito di vento potesse scompaginare del tutto le sparse singole parti. Simile ad un medico in sala operatoria, sterilizzato e con movimenti simili, lavoravo con la coscienza che aperto di fronte a me c’era qualcosa di vivente. Una parte del testo, nonostante una premurosa ricerca, rimase tuttavia introvabile; si trattava di quella nella quale si raccontava l’avvicinamento di Anderl Heckmair alla base della parete dello Eiger. Esploravo continuamente gli inizi delle frasi cercando un brano di contatto liberatorio, come uno che aspetta cerca un volto tra la folla. Tra l’arrivo e i primi tiri di corda alla parete nel mio racconto c’era un punto mancante. Lo ripassai più volte, ma non riemerse più nulla. Ancor più inquietante fu il fatto che non sapessi più che cosa avevo scritto stando lì. Anche il mio archivio non offriva spiegazioni. L’avvicinamento di Heckmair alla parete settentrionale dello Eiger me l’ero perso, non un passo, non un immagine erano rimaste di quello e dietro le mie palpebre chiuse non mi si mostrò altro che la porta di casa che si era chiusa dietro M.. Era rossa e violetta. Dovevo osservarla a lungo.

 

Ehi, che cosa fa lì?

La porta rossa e violetta si sciolse sulla mie palpebre. Al loro posto apparvero quelle parole, come la scritta su un’insegna luminosa andavano da sinistra verso destra, troppo rapidamente. Dopo il loro passaggio, lo sapevo, avrei dovuto aprire gli occhi e nulla sarebbe stato come prima.

 

Quell’uomo nell’edificio non l’avevo ancora mai visto. Era fermo, mentre stava camminando s’era bloccato e per questo motivo l’intero corpo era rivolto di lato in maniera strana verso di me, lontano meno di tre metri, ed aveva con sé, alla spalla, una vecchia borsa di tela con un lungo manico. Inoltre, lunghi e bianchi capelli gli scendevano ai lati della testa, in un modo che nessuno li avrebbe notati. Alla sua gola era appeso un cordoncino che aveva il compito di reggere un paio d’occhiali che poggiavano sul suo stomaco sporgente.

La domanda dell’uomo continuava a librarsi nell’aria. Mi guardava con cordialità.

Sapevo che i miei dialoghi a memoria in quel momento non andavano bene. Così dissi:

Lavoro.

Senza esprimere un filo di stupore rispose:

Lei lavora sotto le scale.

Sono anche le mie scale, abito al secondo piano.

Da quanto tempo siedi lì così?

Indugiai e contemporaneamente ci pensai su.

Non posso dirlo con precisione, in ogni caso da un bel po’, alcuni giorni, due settimane, ma non più a lungo.

Il vecchio fece un passo. Nella sua espressione non c’era nulla di particolare, e questo mi deluse. Ora aveva preso in mano i suoi occhiali.

Vuole entrare?

Batté gli occhiali sulla porta. Continuai a starmene accovacciato con le ginocchia tirate su, la mia bocca, mi venne in mente ora, era rigida per il lungo tacere, e quando parlavo cricchiava la mascella.

Da lei?

Sì, abito qui, mi chiamo Jahn. È ora, credo, oggi cucino. C’è del pollo alla paprika.

 

Parlava lentamente, la sua voce se ne andava a passeggio tra le parole, davvero senza fretta. Il pollo alla paprika. Una parola come un nuovo sole che rapido saliva sulle montagne delle mie parole e da lì splendeva tra le frasi in granito, tra i ghiacciai e tra le cime, frugava tra le espressioni degli scalatori, tra tutti i morsetti, i ganci e i ferri vari il pollo alla paprika offriva il proprio calore rosso. Quello si sciolse proprio grazie al mio lavoro degli ultimi giorni.

Grondavo di sudore.