Iris Schmidt
Nata nel 1967 a Hamm, vive a Düsseldorf. Formazione in amministrazione aziendale presso la Thyssen. Primi tentativi letterari con piccole parodie della vita quotidiana in ufficio.
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Iris Schmidt
Neve
Tradotto da Vito Punzi
La ciocca di capelli che gli scendeva sul viso al momento di starnutire se la riportava con la mano dietro l’orecchio. Karl puntava le proprie spalle contro lo schienale del sedile dell’auto e si tergeva sotto il naso. Un cielo giallognolo premeva grave sul paesaggio, il nevischio aveva attaccato, sebbene fosse solo metà ottobre. Karl provò piacere a sbadigliare, spalancò la bocca e respirò soddisfatto. Ritrasse le labbra e si mostrò i denti allo specchio. Glielo avevano consigliato, il Bleeching, il suo fatturato sarebbe raddoppiato; ad un bel sorriso non si attribuisce neppure la più grande menzogna, aveva detto il relatore durante uno dei corsi d’addestramento facendo spumeggiare le parole tra i suoi denti color avorio. Questo lo voleva anche lui, Karl Müller, voleva poter dire: successo con qualità, luoghi comuni, falsità avvolte in bagliori frizzanti, menzogne sbiancate
Con lunghe curve a serpentina la strada saliva in direzione della montagna. I fiocchi di neve iniziarono a volteggiare sempre più fitti sul parabrezza, il tergicristallo riusciva a malapena a ripulirlo per lasciare libera la vista. Tanto più che era calata l’oscurità e la strada era poco illuminata, poiché i lampioni era piuttosto lontani tra loro. Quando Karl passava accanto ad uno di loro vide rami spogli e neri in parte ricoperti di neve. Poi la luce veniva completamente meno. Karl accese i fari abbaglianti e tuttavia il fascio di luce venne ingoiato quasi per intero dalla neve.
Che l’albergo si trovasse piuttosto fuori mano glielo aveva detto al telefono la signora dell’ufficio del turismo. Ma se non si fosse rifiutato per la lunga strada, la pensione sarebbe rivelata familiare, situata in un posto tranquillo e circondata da boschi, per cui veniva prenotata preferibilmente da turisti che sapevano apprezzare lunghe e indisturbate passeggiate in una natura incontaminata.
La strada continuava a salire e Karl non avrebbe saputo dire da quanto tempo fosse già in viaggio. Gli sembrò come se già da ore avesse perso qualsiasi senso dello spazio e del tempo. Il suono dell’auto era sordo, solo di tanto in tanto il motore si metteva a urlare, quando, dopo una curva, la salita si faceva troppo ripida, allora scalava la marcia così che l’auto poteva riprendere a salire lentamente la montagna.
All’improvviso la strada si biforcava, Karl si fermò al margine, accese la luce all’interno dell’abitacolo e guardò la carta stradale. Ma nella cartina non era indicata alcuna strada, solo l’uscita dall’autostrada utile per raggiungere il luogo. Karl scese dall’auto e si ritrovò all’istante preso da un vento imprecante. S’appoggiò ad una ripida parete d’argilla che gli offriva un po’ di riparo, poiché in quel punto formava una piccola sporgenza. Dalla roccia scendevano pezzi di ghiaccio larghi un braccio. Karl tentò di capire quale fosse la strada che portava all’albergo, ma attraverso la fitta tempesta di neve non riusciva a vedere nulla. Rientrò in auto, riaccese il motore: voleva proseguire allo sbaraglio. In quel momento vide due figure emergere dall’oscurità; coperti da cappucci, avanzarono lentamente in quel biancore furioso. Karl abbassò il finestrino, allungò la mano fin fuori dall’abitacolo e gridò loro: per favore! Qual è la via per l’albergo…?!, e la bocca gli si era già riempita di neve. Le due figure neppure sollevarono lo sguardo, si strinsero solo l’una all’altra, ed una di loro allungò un braccio indicando la direzione. Sparirono nell’oscurità creata dal turbinio della neve che Karl, non riuscì neppure a dir loro grazie.
La strada che gli avevano indicato quei due viandanti portava ad un ampio e piano abbrivio sulla montagna. La precipitazione nevosa è un po’ diminuita, al punto che Karl poté disattivare il tergicristallo. Vide subito brillare attraverso i rami degli alberi una luce spettrale color ambra, e quando s’avvicinò si delinearono i contorni di un edificio. Doveva essere l’albergo, e Karl riconobbe il cartello: Camere libere! Nel parcheggio c’era una sola auto e dalla targa capì che non apparteneva all’albergo. Karl parcheggiò direttamente accanto a quella, prese il cappotto e la valigetta con i documenti dal sedile accanto, tirò fuori dal bagagliaio la borsa da viaggio e si avviò in direzione dell’ingresso.
Dovette suonare, perché la porta era chiusa. Passò un po’ prima che qualcuno aprisse. Una ragazza alta e magra con addosso un grigio pullover di lana salutò Karl, i seni della ragazza si delineavano chiaramente sotto il maglione. Con i suoi fitti capelli aveva fatto due rigide trecce che a destra e a sinistra le scendevano piuttosto lontane dalla testa.
Quando fu nell’ingresso Karl provò un calore ed una luminosità piacevoli. Ha fatto buon viaggio?, gli chiese la ragazza e Karl avrebbe voluto raccontare anzitutto come lui non sapesse delle biforcazione, ma annuì semplicemente. La ragazza lo accompagnò alla reception, lo pregò di attendere un attimo e si allontanò. Dal retro spuntò poco dopo un uomo altro e pesante in pantofole e scalpicciante. Dal tratto del mento Karl capì che si trattava del padre della ragazza e si ricordò che la signora dell’ufficio del turismo, quando gli aveva fatto il nome dell’albergo, gli aveva parlato di un’atmosfera “familiare”. L’albergatore s’infilò dietro il banco, prese una penna dal contenitore e guardò Karl: Prego!, e Karl disse il proprio nome. L’albergatore aprì un grosso registro, cercò con l’indice, si fermò in un punto e voltò il registro verso Karl, così che lui potesse mettere la propria firma. Di seguito l’uomo prese una chiave dal gancio e Karl la prese dal banco, dove lui l’aveva appoggiata. Secondo piano, disse quello, a destra subito dopo la porta a vetro all’inizio del corridoio. Appoggiò poi i gomiti sul banco, la testa tra le mani ed attese finché Karl non si fosse allontanato.
Karl arrivò al secondo piano salendo una stretta scala in legno. C’era un pesante odore di lana bagnata. Svoltò verso un corridoio. La sua camera era la prima, così gli aveva detto l’albergatore, una piccola stanza accogliente in stile contadino. Sul tavolino davanti alla finestra c’era un mazzo di fiori freschi. Karl posò la sua borsa da viaggio accanto al letto, di seguito la valigetta con i documenti, appese il cappotto nell’armadio, si tolse le scarpe e si buttò volentieri sul materasso, che molleggiò un poco. Incrociò le braccia sotto la testa e per qualche attimo chiuse gli occhi. Bussarono alla porta. Karl provò terrore, come se l’avessero scoperto a fare qualcosa di proibito. Sì, prego!, disse, e la ragazza che gli aveva aperto la porta entrò. Quando desidera fare colazione domattina, signor Müller?, chiese quella, restando timidamente di spalle, per nascondere i suoi seni, troppo grandi per quel corpo sottile. Lui provò d’improvviso piacere a pensare di tirarle le trecce, forte, come aveva sempre fatto da bambino, finché le bambine iniziavano a piangere. Ma riuscì a frenarsi, posò le proprie mani sulle ginocchia e disse semplicemente: mi andrebbe bene verso le sette e mezzo.
Quando Karl giunse in sala da pranzo per la cena scoprì che era l’unico ospite. Dietro il bancone c’era la ragazza che sta asciugando i bicchieri con un panno. Karl si sedette in un tavolo ad angolo, vi poggiò sopra i pugni e distese le gambe davanti a sé. La ragazza gli si avvicinò e gli porse il menù. Una birra, per favore, signorina!, disse Karl e la ragazza tornò al banco. Una donna piccola e rotondetta con grembiule a camicia entrò in sala, si posizionò dietro il bancone, accanto alla ragazza e scambiò un paio di parole con lei. La donna fece un movimento della testa in direzione di Karl, poi la ragazza poggiò il bicchiere di birra sul vassoio e si avvicinò a lui. Gli pose il bicchiere davanti, rimase per un po’ immobile e titubante nella sala, pressò il vassoio contro il proprio petto, come fosse una scudo. Aveva il capo chino e Karl pensò che stesse aspettando la sua ordinazione. Dunque s’affrettò nella lettura del menù, ma lei spostò una delle sedie e si sedette al tavolo accanto a lui. Mia madre chiede se la camera è di suo gradimento, disse a voce bassa. Karl notò che la donna li stava guardando. Molto, è molto accogliente!, rispose allora alla ragazza, gettando un cenno alla madre. Senta, continuò Karl, non siete troppo isolati quassù, d’inverno, senza ospiti?, e cercò d’afferrare lo sguardo della ragazza. Talvolta, è vero, si è isolati, disse la ragazza, aggiungendo, mentre lo guardava in volto, che però ora c’era lui. E’ vero, ora ci sono io, ribatté Karl, ed osservò attentamente i suoi occhi, che non erano certo belli, in qualche modo giallognoli, come se soffrisse d’epatite.
Nel frattempo era entrato in sala anche il padre, scambiò un paio di parole con la moglie, poi si avvicinò al tavolo di Karl. Ha già deciso, signor Müller? Durante il colloquio con la ragazza Karl aveva del tutto dimenticato di scegliere qualcosa da mangiare. Sfogliò frettolosamente il menù e nominò il primo piatto che gli capitò davanti agli occhi. Per l’imbarazzo aveva iniziato a sudare, afferrò il boccale di birra e bevve con lunghi sorsi. L’uomo andò dietro il bancone, prese il panno che la figlia aveva lasciato lì e prese a sua volta ad asciugare i bicchieri, tenendo sott’occhio il tavolo dove sedeva Karl. Questi prese a manipolare nervosamente il risvolto in carta che era attorno al manico del suo boccale.
La fauna locale qui è molto varia…, iniziò a dire d’improvviso la ragazza, sollevandosi e porgendo in avanti il suo grosso seno. In ogni caso in inverno molti animali si rintanano dentro grotte o sotto ammassi di foglie…, il ghiro per esempio, o il moscardino…, per i rapaci è particolarmente difficile trovare del cibo, poiché la poiana e il milvo…, finendo con l’elencare tutto quello che le venne in mente. Come un barboncino addestrato, pensò Karl fissando lo sguardo sul seno della ragazza; sentì il leggero odore di cipolla che proveniva dalle ascelle di lei.
Devo sciogliere le mie trecce? Chiese allora la ragazza, e già ne aveva afferrata una, tirò via l’elastico e la sbrogliò usando le dita. Lo stesso fece all’altro lato della testa, poi si diede una scrollata, così che i capelli finirono col distribuirsi uniformemente; capelli che erano incolori e spuntati.
La donna portò un piatto d’insalata e lo pose di fronte a Karl; lui in realtà non l’aveva chiesto ma per vergogna vi infilò la forchetta e mise sotto i denti alcune foglie in un modo che la salsa gli colò dagli angoli della bocca. La ragazza sedeva lì accanto silenziosa, giocherellava con un anello che portava nella mano sinistra. Masticando Karl indicò l’anello e chiese se lei aveva già un fidanzato. Sì, rispose la ragazza sbrigativamente, un fidanzato ce l’ho già. È il guardaboschi che vive quassù. Per questo so tutto sugli animali, me lo ha spiegato con molta precisione il mio fidanzato e qualche volta mi porta nel suo punto d’osservazione e da lì guardiamo i caprioli e li cervi, e in inverno riempiamo le loro mangiatoie con castagne, mais o paglia…
Arrivò la donna con la portata richiesta e gettò un’occhiata alla figlia per farla tacere. Buon appetito!, disse, rimase immobile ancora un poco accanto al tavolo e si strofinò le mani sul suo grembiule. Dovete essere affamato, disse la ragazza appena la madre si fu allontanata, osservando Karl che stava mangiando frettolosamente. Karl sentì venirgli una certa acidità di stomaco e tuttavia mangiò sempre più rapidamente, poiché voleva lasciare in fretta la sala da pranzo, la ragazza silenziosa che gli stava accanto, e i genitori di lei, che perseveranti continuavano ad osservarlo da lontano. Per la tensione gli faceva male l’intera cervice. Non aveva neppure finito di ingoiare l’ultimo boccone che si alzò, e la ragazza s’alzò con lui. Karl notò che la madre aveva fatto un movimento brusco, come volesse ordinare a sua figlia di fermarlo. Karl aprì la bocca solo per sbadigliare e per dire quanto fosse stanco, quanto fosse stata buona la cena e per annunciare che la mattina dopo l’attendeva un altro lungo viaggio; se ne andò di corsa verso l’ingresso, poiché temeva che lo si potesse inseguire per trattenerlo, invitandolo a ballare un po’ o a una partita a carte.
Quando si ritrovò nella sua stanza, Karl notò che era davvero molto stanco. Si lavò velocemente il viso e voleva dare ancora una volta un’occhiata alla documentazione per il giorno dopo, ma i suoi occhi si stavano già chiudendo. Così spense la luce e s’infilò sotto le coperte. Non erano passati neppure due minuti che Karl sentì d’improvviso dei passi lungo il corridoio. Si trattava forse di uno degli altri ospiti…?, pensò. Ma quei passi si fermarono proprio davanti alla sua porta. Karl riaccese la luce. Era di nuovo bello sveglio. Silenzio. Silenzio. I passi iniziarono ad allontanarsi, lentamente, lievi, come fatti in punta di piedi, lungo il corridoio, giù per le scale, il legno scricchiolò, finché non poté sentire più nulla.
La mattina dopo Karl si svegliò tra lenzuola madide di sudore. Aveva dormito malamente. Si era rigirato continuamente sul materasso, perché per tutta la notte s’erano sentiti dei colpi alla parete dietro il termosifone, come venisse sbattuto metallo su metallo, un bussare costante, un ritmo, come quello del battito cardiaco, il battito cardiaco dell’albergo e i tubi erano un intreccio di vene ed arterie che attraversavano la muratura, e al loro interno circolava sangue denso come miele. A quel rumore s’aggiungeva poi il continuo crocchiare del legno, lo scorrere della neve sciolta dal tetto dell’edificio, il rumore dello scarico del bagno. Ogni tanto Karl era riuscito a prendere sonno, e allora vedeva la ragazza piegarsi su di lui con i suoi grandi seni, fino ad arrivargli vicino alla faccia. A quel punto era sobbalzato, credendo di sentire ancora dei passi nel corridoio. Ma niente, si sentiva solo quel battere costante alla parete. Una volta, dopo uno di quei sogni s’era alzato, aveva aperto così tanto il lucernario che l’aria entrò nella stanza come una falce tagliente e la neve davanti alla sua finestra sembrava alabastro.
Karl non fece colazione, senza neppure sedersi buttò giù solo una tazza di caffé che gli aveva offerto la moglie dell’albergatore. La ragazza non la si vedeva da nessuna parte. Aveva lasciato un po’ di contante sul comodino poiché era certo che subito la ragazza avrebbe dovuto ripulire la camera, e le aveva lasciato anche i fiori che aveva messo lì la sera precedente. Alla reception pagò il suo conto e lasciò l’albergo.
La copertura nuvolosa s’era squarciata, la neve abbagliava sotto un cielo d’un azzurro terso. Uno strato di bianco ricopriva anche l’auto di Karl, accanto alla quale c’era ancora l’altra macchina e con la manica del cappotto ripulì velocemente i finestrini. Karl aprì la portiera del posto di guida, gettò la borsa da viaggio sul sedile posteriore e si sedette in auto. Poggiò la valigetta con i documenti sulle ginocchia e ne tirò fuori gli elenchi sui quali si era addormentato la sera prima. Poi ordinò i campioni di medicinali che più tardi avrebbe voluto distribuire negli ambulatori medici, in paese. Era un lavoro che amava. Negli ambulatori era tutto meravigliosamente lucido, bianco, igienico. Anche le donne all’accoglienza. Lo salutavano con un grazioso sorriso, dopo che lui si era presentato: Karl Müller, ci siamo sentiti al telefono! Allora la sua voce pronunciava frasi e le frasi erano aria mossa dalla sua bocca, respiro, che era aria e umidità. Così che le donne, quando lui parlava, venivano attraversate da un leggero brivido, lui se ne accorgeva, lo sentiva mentre loro lo seguivano con lo sguardo mentre attraversava l’ambulatorio. Così vestite di bianco, per lui erano come brocche contenenti latte fresco, immacolate, igieniche, pure, troppo pure per le sue mani, che erano sempre sporche; e il loro vestito era come un petalo di giglio che aderiva al loro corpo, in totale purezza.
Talvolta, quando in ufficio sedeva alla sua scrivania e le sue dita erano diventate untuose a forza di sfogliare documenti, quando gli si gonfiavano per il continuo battere sulla tastiera del computer, non poteva fare altro che correre in bagno a lavare quelle dita, ben benino, in tutti i pori, al punto che già da un pezzo lo seguiva un confabulare, un parlottio lungo il corridoio e si facevano gesti alla sue spalle che indicavano la sua testa, che lui, ardente, sentiva addosso, ma non era necessario che lui si guardasse intorno. In giorni come quelli la sporcizia era così aderente alla sua pelle che acqua e sapone da soli non bastavano a pulire le sue mani. Allora prendeva la spazzola per le unghie e strofinava così a lungo e con forza che la pelle finiva col crepare ed escoriarsi, così che dopo nella più piccola fessura non era possibile nascondersi neanche il più piccolo granello di polvere.
Una sguardo fugace Karl lo gettò ancora sulle medicine, poi rimise tutto al proprio posto e la valigetta finì sul sedile del passeggero. Nel momento in cui provò a far partire l’auto il motore non si accese. Provò più volte, inutilmente. È colpa del freddo, Karl lo sapeva, un freddo che si rispecchiava mille volte tanto nei cristalli di neve che riflettevano la luce del sole, in una maniera così luminosa che lui, accecato, serrò gli occhi e subito sentì un dolore nelle cavità. Karl abbassò la visiera di protezione, sospirò, scese dall’auto e rientrò in albergo.
L’albergatore, com’era sua abitudine, aveva i gomiti appoggiati sul banco della reception, la testa appoggiata sulle mani, così che il suo intero corpo si occupava dell’accoglienza. Guardò Karl come se lo stesse aspettando. La mia auto…iniziò questo, non si mette in moto. Forse potrebbe chiamarmi un taxi?! Certamente, rispose l’albergatore. Si staccò dal banco e si allontanò nel retro. Lì prese il telefono e fece un numero. Karl lo vide parlare accorgendosi anche che la moglie si trovava sul varco che portava alla cucina e che stava osservando il marito. L’albergatore riattaccò il telefono, fece l’occhiolino alla moglie e ritornò verso di lui. Non ci sarà molto da aspettare, disse a Karl, si ripiegò sul banco della reception e puntò le sue grosse braccia contro il legno. La moglie nel frattempo era scomparsa in uno dei locali retrostanti. Karl fece all’uomo un cenno di gratitudine e tornò fuori per tenere sott’occhio la sua auto durante quel tempo d’attesa.
La luce del sole luccicava in maniera ancor più scintillante sulla neve fresca. Il sole ora era alto. Karl s’arrabbiò per aver lasciato a casa, sul comò, i suoi occhiali da sole. Il cofano dell’auto era ghiacciato e non era possibile aprirlo, dunque Karl si sedette di nuovo in macchina e chiuse gli occhi di fronte al chiarore accecante. Quando riguardò l’orologio era già passata una mezzora. Solo allora Karl si accorse che i segnali stradali laterali erano completamente sommersi dalla neve e che neppure si poteva intuire dove fossero. Ma i taxi qui raggiungono spesso l’albergo, pensò tra sé, e certo sono abituati alla neve, a quest’altezza, saranno adeguatamente attrezzati….Eppure, dopo un’ora il taxi non era ancora arrivato e Karl, seduto nel suo freddo sedile, aveva iniziato a congelare, così decise di tornare in albergo per chiedere ancora una volta.
Il fatto che le serrande fossero state abbassate non lo sorprese, visto l’accecante luce del sole, ma la parte anteriore della porta era sbarrata e dopo che ebbe premuto più volte il campanello nessuno era ancora venuto ad aprire. Batté con le nocche sul legno, chiamò, e infine prese a sbattere i pugni contro la porta. Nessuna reazione. Karl girò attorno all’edificio, fino a giungere sul retro, dove si trovava la porta della terrazza. Ma anche lì erano tirate giù le serrande, sebbene in quel punto fosse tutto in ombra e la porta della terrazza era ben chiusa così come lo era quella d’ingresso. Forse hanno proprio ora le loro ore di riposo?, pensò Karl, forse si sono coricati un po’, e decise di tornare nella sua auto e di attendere. Ma ne uscì poco dopo saltellando un po’ sulla neve profonda un palmo, per riscaldarsi. Erano già le dieci e mezza e del taxi non c’era ancora traccia. Anche il riposo degli albergatori sembrava non avere fine, nessuno che riaprisse la porta, le serrande erano ancora chiuse. Il sole aveva superato il suo zenit ed ora stava calando lentamente sulla cima della montagna. Ancora una volta Karl si diresse verso l’albergo, chiamò e batté, questa volta con il piede, contro la porta d’ingresso, mentre con i pugni colpì le serrande delle finestre. A quel punto capì che non gli rimaneva altro da fare che intraprendere a piedi il cammino prima che iniziasse il tramonto.
Non appena iniziò a camminare nella neve che subito gli era arrivata al ginocchio le sue scarpe s’erano immediatamente inumidite, come i calzini, e i piedi presero a gelare. Voleva cercare un’officina per poi far rimorchiare l’auto fin lì. Perché non l’aveva chiesto subito, l’albergatore gli avrebbe trovato e dato sicuramente un recapito?! Karl provò a chiamare col cellulare il servizio informazioni, ma non c’era copertura. Attraverso un bosco di neri scheletri d’albero e presto giunse in una radura dove la neve era ancora più alta. Inoltre, lì il vento fischiava in un modo che rendeva il suo viso indolenzito dal freddo. Al punto che non si accorse neppure più del muco che gli colava dal naso. Karl si accorse che gli stavano venendo meno le forze, quando all’improvviso sbatté contro una ripida parete di roccia, alla quale erano appesi ghiaccioli della larghezza di un braccio che argentei luccicavano alla luce del sole. Allora Karl cadde in ginocchio per la felicità. Ora sapeva che era sulla strada giusta. Alla fine della parete di roccia c’era il punto nel quale la sera prima aveva chiesto informazioni ai due viandanti e da quel punto, per raggiungere la propria destinazione, doveva semplicemente tenere la destra. Ripartì, camminando frettolosamente su quel bianco crocchiante. Per un attimo ebbe l’impressione di essere guardato e si voltò in direzione del punto d’osservazione dove sedeva in quel momento la ragazza insieme al suo fidanzato, il guardaboschi: lei lo stava guardando con un binocolo. Il dolore nelle sue cavità oculari batteva sempre più forte, era come se il battere dell’impianto di riscaldamento continuasse nella sua testa, metallo su metallo. Quanto più il sole calava, tanto più diventava freddo. Sul paesaggio si stendevano già ombre azzurre. Karl continuò a camminare aderendo alla parete rocciosa. Aveva percorso forse un chilometro finché vide la fine di quella parete. Provò a correre, scivolò, si rialzò. La destra, pensò, tieni sempre la destra e arriverai subito in fondo, e subito ti potrai sedere dentro un caldo rifugio, davanti a un bel boccale fumante di grog. Tuttavia, dopo che per un po’ si era tenuto sulla destra si accorse che il sentiero riprendeva a salire. Si era sbagliato? Quella dunque era la direzione sbagliata? Il giorno prima si era trovato in un punto diverso della parete rocciosa? In lontananza Karl intravide qualcosa che assomigliava ad un punto di riparo e vi si diresse senza sapere bene a che cosa potesse servirgli. Ma qualcosa lo attirava lì, qualcosa che non era del posto, e subito gli fu chiaro ciò che solo vagamente aveva riconosciuto. Poiché nel riparo c’era qualcosa d’incappucciato, qualcosa che se ne stava lì accovacciato. E quando Karl raggiunse quel luogo vide i due viandanti cui il giorno prima aveva chiesto la strada. Pallidi, coi volti cerei, se ne stavano seduti, stretti l’uno all’altro, la donna con la testa appoggiata sulla spalla dell’uomo. Le loro palpebre erano serrate da cristalli di ghiaccio. Karl s’inginocchiò accanto all’uomo, e come se volesse ancora usare qualcosa, lo afferrò per il bavero del cappotto scuotendolo con vigore. Allora cadde qualcosa dalla tasca del cappotto, dell’uomo, un oggetto metallico; Karl lo sollevò, si trattava della chiave di un auto. Gli venne in mente quella che si trovava davanti all’albergo, accanto alla sua, e gli venne in mente anche come l’albergatore, alla fine della sua telefonata, avesse fatto l’occhiolino alla moglie.
Karl rimise la chiave nel cappotto dell’uomo e si alzò. Sollevò il colletto fino alle orecchie, infilò le mani in fondo alle proprie tasche e premette le braccia contro il proprio corpo. Infine riprese il cammino attraverso il bosco. La fredda luce lunare si stendeva già sull’esteso e bianco paesaggio nel quale ora Karl finì per sparire, rapido come un’ombra.