Judith Zander
Nata nel 1980 ad Anklam, vive a Berlino. Studi di germanistica, anglistica, storia a Greifswald, quindi presso l’Istituto di Letteratura Tedesca a Lipsia.
Download testo in:
Formato Word (*.doc)
Formato PDF (*.pdf)
Informazioni sull' autore
Videoritratto
Jidith Zander
Estratto dal romanzo inedito
Cose che dicevamo oggi
Tradotto da Vito Punzi
Quando alla fine ti alzasti t’imbrogliasti soprattutto nel trovarti ancora addosso le tue mutandine. Come se non fosse successo nulla. Provasti contemporaneamente varie cose. Una di questa era gratitudine. Verso le mutandine, che di cotone e bianche ti coprivano esattamente come prima e soprattutto dietro potevano essere un po’ sporche. In un momento di follia hai perfino fatto un pensierino al fatto che te lo avrebbe infilato di nuovo, per quella notevole cura che lui aveva sempre usato quando sulla via di casa, verso Kossin, era finito ancora una volta sotto la maglietta, la Nicki, e subito dopo l’aveva tirata giù, pizzicando nel punto giusto, come se avesse voluto sempre ritrattare tutto. Un comportamento che a te apparve solo potenziato in quel mica-togliersi-prima le mutandine. Solo dopo. Ma sì. Un elastico slabbrato.
Non potresti più tornare a casa stasera. Perché si trattava di un crepuscolo mattutino nel quale raggiungevi infine la vostra casa come dopo una lunga assenza e, come ti apparve, non proprio puntualmente. Nessuno attese il tuo arrivo. Diversamente da Phileas Vogg non ce l’avevi fatta, avevi perso la scommessa, avevi girato il mondo noto in una notte, ma non avevi vinto nulla, eri semplicemente ritornato a Bresekow davanti alla vostra casa e per punizione saresti stato in ritardo per il resto della tua vita attorno a quel non si sa quanto lungo margine.
Tiri le tende arancioni. Tua madre non ti svegliava. Se qualcuno avesse bisbigliato nel tuo sogno che a Schmalditz c’era una scuola avresti dovuto ridere fragorosamente.
Poi però tu sei andata di nuovo, con una giustificazione scritta da tua madre, e questa ti sembrerà oggi la cosa più stravagante. Che tu continuavi ad aver bisogno di queste cose, che tu stessa credevi evidentemente di aver sedici anni. Non ti sentivi mai troppo giovane, ed era chiaro che non lo sembravi a nessuno. Da allora ti sei sentita piuttosto un po’ troppo vecchia. Già prima degli esami guardavi te stessa come ad un’alunna della Scuola Superiore Politecnica di Schmalditz, da tempo già diplomata richiamata solo per un errore burocratico. Accetti il mediocre certificato come una facente funzione. Alla festa finale ovviamente tu non ti sei mossa, sebbene fossi curiosa di sapere se qualcuno avrebbe ballato con te. Alla festa finale si sarebbe potuto fare. Se non si fosse saputo troppo.
Questo problema non ti ha mai impegnato seriamente. Se uno sapeva qualcosa allora lo saprebbe ancor oggi. Non sarebbe cambiato nulla. E tu saresti stata senz’altro quella che ha denunciato il bello, il povero Roland, quella che lo ha trascinato davanti a un tribunale e che lo ha pure portato dietro alle sbarre. Non quella che ha violentato Roland Möllrich. Ma sì, proprio così, quella che lo ha violentato.
Durante tutta l’estate non notasti quasi nulla. Non ti indisponeva, tutt’al più in quei minuti, il fatto che tua madre ti facesse la posta e chiedesse a che punto fossi giunta con la tua riflessione su di un possibile insegnamento, un’indicazione per la EOS, che certo ti avrebbe alleviato, non l’avevi ricevuta. Per tua madre era lo stesso, per lo meno non aveva voluto convincerti ad affrontare altri due anni di scuola, vedeva piuttosto chiaramente che da quelli non ne sarebbe venuto fuori nulla di meglio. Non nutriva neppure l’opinione che si dovesse diventare qualcosa, piuttosto solo quella che si dovesse fare qualcosa e non avrebbe tollerato un bighellonare durato per un’intera estate. Tu t’annoiavi e basta, e dubitavi che una cattedra potesse rimuovere quella noia. Davanti al tuo occhio interiore scrivi la parola con due “e”.
Prima la regola era che tu non avevi il tuo ciclo mestruale ogni quattro settimane. Non rimpiangesti quell’innaturale essere malata, probabilmente sperasti in quei mesi di essere lasciata in pace per sempre. Dev’essere stato in pieno luglio che prendesti coscienza di ciò che quella pace poteva significare. Non era che tu non fossi a conoscenza; quando il male ti aveva colpito per la prima a tredici anni nessuno aveva avuto bisogno di sottrarti il terrore verso qualcosa di sconosciuto sostituendolo con il terrore per qualcosa d’inesorabile, Anna Hanske non propendeva per la dissimulazione. L’avevi accettato come qualcosa che riguardava anche le altre, le tue vanitose compagne di scuola. Per te si trattava solo di un inutile funzione del tuo corpo. E questo disinteresse, o come lo si dovrebbe chiamare, non lo avevi rimosso neppure un paio d’anni dopo. Ti era risultato impensabile che tu, tu saresti potuta finire in una simile condizione, nella condizione che tu ora – ora sì, sospettavi è già una parola severa, per questo l’intera rappresentazione era appena realistica. Quando eri stata insieme a Roland, in quelle brevi ore, brevissime, su questo non avevi mai sperperato neppure un pensiero, così come non avevi sprecato un pensiero neppure sul futuro. Per te non aveva alcun valore.
Tua madre iniziò a coinvolgersi con te, alla HO, al Konsum, guidava fino a Pasewalk. L’avevi saputo troppo tardi, continuavi a sentire. Avresti potuto semplicemente dirlo e quest’impresa sarebbe stata schiantata per prima. Normalmente non vedevi alcuna necessità di foderare la tua apatia con scuse relative al movimento, questa volta cercasti anzi di adeguarti. Non eri sicura di te stessa. Tua madre t’avrebbe spedito sollecitamente dal medico, alla fine sarebbe emerso che non era ancora troppo tardi. Ma tu da tempo non ti conoscevi troppo bene: tu non eri il tipo per una salvezza dell’ultimo secondo. Ogni “subito” ti affaticava da sempre, ti paralizzava a tal punto che riuscivi regolarmente a sciupare tutto. Non riflettevi seriamente su ciò che ci fosse da sciupare, seguendo la tua abitudine neppure soppesavi un sovraffaticamento rispetto ad un altro, non a quello chiaramente prevedibile, ma quello momentaneo all’altro al quale tu non sapevi assegnare alcun altro attributo. Non ti era stato insegnato a paragonare le invisibilità con le impossibilità?
Era senz’altro anche così: il futuro doveva dimostrarsi, purtroppo, come troppo poco visibile – devi aver smesso fin da bambina di pensare all’immediato, addirittura un’incapacità che lì avevi sviluppato proprio perché era sempre accaduto nel modo in cui avevi temuto – così almeno verrebbe meno una parte di esso come provvisorio, sarebbe rimovibile. L’insegnamento il cui accadere non ti sembrava più verosimile. La tua progressiva condizione t’avrebbe certamente sospeso, forse per sempre, “rimandato” si trasformava in te costantemente in “annullato”. Potevano accadere tante cose, è vero.
Tu recepisci questo senza particolari moti dell’animo, come si rivelasse che solo la Compagnia di Produzione Agricola fosse propensa ad accoglierti tra le sue fila e farti diventare un’agrochimica. Prima ti saresti lasciata convincere, dedita quasi spontaneamente, nel processo socialista, all’”agricoltura, il nostro più importante punto d’appoggio”, saresti stata lodata pubblicamente al cospetto della classe, come accaduto a Corista Poley, che divenne agente di commercio ed unica tirocinante nell’ufficio della LPG di tua madre, dove dietro ognuna delle cinque finestre fioriva una permanente. Avresti sempre potuto avviarti al giardinaggio, l’anno successivo. Quando dovetti trasferire i tuoi bottoni sui tuoi pantaloni iniziasti ad intuire ciò che ti avrebbe permesso di acquisire questa serenità. L’anno successivo! Come sei giunta proprio ora a comportarti così, come se credessi ad una balla com’è quella del trascorrere del tempo? L’anno successivo per te non esisteva. Ci sarebbe stato eventualmente un bambino di Roland Möllrich. Di Roland, col quale tu eri stata sul prato, e nel parco, uno di questi doveva essere accettato come causa, e questo tuttavia sarebbe stato indifferente. Erano la tua stupidità e la tua colpa, ed entrambe corrodevano così tanto che tu coltivavi la legittima speranza che alla fine ti avrebbero interamente disarticolato. Ci sarebbe stato il figlio di Roland Möllrich. Come poteva essere qui. Dove c’è un corpo non può essercene un altro, a lungo andare. Tu non sognavi icneumoni o cose simili. Ti ronzavano in testa in pieno giorno. Di loro ti ricordavi un paio di cose, da un lato questo, dall’altro: erano utili. Una parola che non si riceve mai per intero dalla lingua. Faceva magnificamente rima con Möllrich, con i figli del sindaco, che nella Scuola Superiore Allargata, nonostante la formazione ampliata, non avrebbe dovuto indurre a lungo a sottoscrivere un pezzo di carta, di qualsiasi cosa si trattasse. Per ognuno si trovava qualcosa, qualcosa di utile. Non ti ritenesti capace di così tanta acrimonia. Non ne eri in possesso. Come non possedevi neppure rabbia. Rimase tutto monco.
Ti ritrovasti in una camerata con otto letti dello studentato per tirocinanti di Kießow. Tutti gli altri letti erano stati occupati, per te era rimasto quello in basso accanto alla porta, un cuscino, una coperta NVA scartata. Era settembre, non si doveva vedere nulla, se non si voleva. I pantaloni non ti si chiudevano più del tutto, i bottoni automatici saltavano appena li chiudevi, ma possedevi una cinta e un ampio pullover. Nella toeletta ti pieghi sul lavandino, ti lavi nella tua parte più posteriore e ti giri verso la parete. Nessuno mostrava un interesse accresciuto nei tuoi confronti. Come sempre tu parlavi poco, si reagiva quasi atterriti se tu una volta aprivi la bocca. Non c’erano abituate, quelle ragazze chiassose. Alcune si chiamavano per cognome. Tu eri convinta che nessuna conoscesse il tuo, mentre i loro li scambiavi. Solo con Kathi eri sicura che lei si chiamasse così, Kathi Breitsprecher, quella che dormiva sopra di te e iniziava ogni suo rivolgere la parola con “tu, Ingrid”. Tu sapevi che l’avresti detto a lei per prima, perché dovevi dirlo, meglio di chiunque altra. Contemporaneamente, riguardo a lei, ti assalirono i più grandi scrupoli, provavi una reale paura che lei potesse iniziare a piangere. Lei piangeva spesso, e tra una e l’altra delle sue frasi. Quando la osservavi notavi che la si poteva solo ferire, la sua pelle ti appariva quasi trasparente. Niente scorza simile alla tua. Lei era molto più bassa di te, ed anche più rotonda, e in lei tutto lo era: i suoi capelli castani dopo essere stati lavati si disponevano da soli in magnifici riccioli, la sua bocca formava stabilmente una piccola “o”. Lei si rivolgeva al suo ambiente esclusivamente con il riso o con il pianto, ma era difficile profetizzare con quale dei due. Non potevate decidervi su che cosa fosse degno d’essere odiato: le vuote ore nell’edificio piatto di Kießow che odorava di wurst all’avena e segatura o l’aria di campagna della settimana di pratica nei campi di rape, nella stalle delle mucche del distretto di Anklam. Sognavate mammelle. Gli occhi del guidatore di trattori. Entrambe pensavate che non potrà andare sempre in questo modo. Questo vi legava. Ma Kathi era fiduciosa.
Ancor prima della fine del primo mese trascorso lì avresti potuto imbottire la tua testa con l’insieme delle questioni e delle faccende familiari di Kathi, tanta era la sicurezza con la quale lei ti procurava quotidianamente materiale di riempimento sempre nuovo, o forse anche sempre uguale, ma era raro che tu ascoltassi. Il buco nella tua testa s’ingrandì, dimenticavi le cose più semplici. Andavi sempre più presto a letto. Una volta, quando t’eri spogliata, la porta s’aprì all’improvviso, e gli altri, che altrimenti sarebbero piombati dentro facendo baccano solo quando tu avessi fatto finta di dormire, furono all’improvviso tutti intorno a te, ed Elfi, o Barbara, o Liebmann, disse: “Ehi, di un po’, sei incinta, o cosa?”, e spinse l’indice sul tuo ventre, come se tu avessi riso con loro. L’avevi dimenticato. Avevi dimenticato di dirlo. Ma questo suonava come una delle scuse che solo tu avresti tollerato. Non potevi ricordarti quando qualcuno ne aveva inventata una per te. “Sì”, dicesti. Si sdegnarono, esagerarono, risero ancora un po’ nel tuo angolo, ma davvero non era piacevole, così vennero assestate ancora solo due o tre battute. Tu notasti la sua delusione. Kathi disse: “Ingrid, davvero?”, ed iniziò a piangere.
“Smettila”, dicesti, “Non è poi così terribile”.
“Ma Ingrid, sono così contenta per te!”
Avevi sottovalutato Kathi. Iniziasti a riflettere su tutto. A prendere il pianto per riso, e all’inverso. Ora talvolta avevi voglia di ridere.
Dovesti ridere quando tua madre, nel fine settimana, ti osservò a lungo con una faccia che avrebbe messo su altrimenti solo ascoltando alla radio notizie dell’adempimento o del sovradempimento dei progetti, dicendo poi: “L’avevo immaginato”. Non ti disse come sarebbe proseguita. Questo lo si capiva sa sé. Ma non l’altro per tua meraviglia. “E con chi-“, si schiarì la voce e tu non lo riconoscesti come uno dei suoi gesti, “penso, e chi sarebbe responsabile oltre a te?”
“Nessuno”, dicesti subito e quasi ridente, perché tu non avevi bisogno di riflettere.
“Ingrid smettila. Non sono di nuovo così stupida, e neppure tu lo sei”. Cercò di esprimersi come una madre: “Ora dimmi, chi è il padre?”
Volevi risponderle che non lo sapevi. Che l’avevi dimenticato. Già. Uno di Anklam, no, di Berlino, uno dell’ovest, dell’altra parte. Ma nessuna di queste barricate ti sembrarono insormontabili. Sarebbe stato meglio stare dall’inizio ad un’unica versione, quella più semplice da ripetere. Con la tua testa non si poteva mai sapere.
“No”, dicesti.
“Ingrid Hanske!”, disse tua madre. Fece spallucce, si tenne stretta allo schienale della sedia ed osservò affannata la fenditura tra cucina e atrio, come se sperasse di sbirciare oltre. “Come puoi volere far questo da sola…tu pensi di non aver bisogno di nessuno, vero? Tu…” S’interruppe all’improvviso, si voltò ed uscì. Potrebbe essere andata così. Che non sapesse più di chi stesse parlando, Anna Hanske.
Poco prima che tu ti dirigessi verso il bus ti mise in mano un regalo. Non sapevi che cose ne avresti dovuto fare e lo infilasti nella borsa dei tuoi vestiti. Nello studentato ti addormenti subito. Lunedì era il tuo compleanno. Lunedì dovevi andare in aula docenti. Andasti subito alle questioni con le quali ti eri svegliata. “Signorina Hanske, lei ci deve una spiegazione”.
“No”, dicesti e te ne rallegrasti, perché la versione ti era già penetrata nel sangue. Nel sangue. Riflettesti un momento su questo. Per quanto riuscisti ad afferrare, gli insegnanti si sforzarono di dissuadersi l’un l’altro. Ma non ci riuscirono. Mentre uno ancora lanciava saette, l’altro già tuonava, finché non venne pronunciata la parola fulminante: “conseguenze”. Se tu avessi continuato a tacere ci sarebbero state delle conseguenze. Non sapevi che cosa avresti dovuto dire. Per troppa ingenuità. Nel caso non avessi fatto scena muta ci sarebbero state in ogni caso conseguenze. Questo potevano notarlo di certo.
Dopo la lezione la tua testa era di nuovo vuota. Guardasti la tua borsa accanto al tuo letto e tuttavia non la vedevi. Ti sembrò insensato mettere indumenti nel cassetto di un armadio. Per quale motivo? Cambiare indumenti. Lavare. Vestirsi, svestirsi, vestirsi. Avevi la sensazione di imitare gli altri. Se trotterellavi dietro di loro in direzione della toeletta, ti nascondevi come loro non facevano più. Se aprivi la cerniera BH, con l’orecchio sulla parte del corpo che guidava l’altra metà sembrava trattarsi movimenti che tu avevi imparato da loro. Dicevi “buona notte” se loro dicevano “buona notte”.
Un paio di giorni dopo ti tornò in mente il pacchettino, nel bel mezzo della lezione d’educazione civica. Ti precipitasti fuori dall’aula, forse anche questo avrebbe avuto conseguenze, ma nel frattempo eri venuta in possesso di un antidoto: privilegi. Gli altri non ti trattavano più con sguardi, o al contrario, non bisbigliavano più in tua presenza. Fuori la maggior parte dei giovani ti schivava, un paio di loro si mostrava cordiale. Da tempo non guardavi più lo specchio, come un facevi un tempo, non ti riconoscevi: ciò che vedevi non era quella che ti portavi addosso quotidianamente. I capelli continuavano a rifulgere di biondo. I tuoi occhi erano più chiari delle pozze di liquame sotto il cielo estivo. Ach, smettila. Tu lì non li avevi ancora visti. Diventasti per le tue compagne di camerata una specie di piccola mascotte.
Trovasti il regalo nella tua borsa. Nessuno ti derubò. Nello scartare si mostrò un paio di guanti blu in pelle, un blu illusorio da cento marchi. Piangesti sulla coperta ammuffita, per tre giorni, o finché non dovesti andare di nuovo al cesso.
Assecondasti le sollecitazioni di tua madre, quasi tutte. Il medico tuttavia non ti disse nulla di nuovo. Ricevesti un documento d’identità sul quale era scritto “Passaporto di maternità”, lo accostasti al tuo documento personale e alla tessera della FDJ, in ognuno di questi trovasti il tuo nome e ti era stato battuto dall’incaricato con i caratteri della macchina da scrivere, ti chiedesti spesso chi fosse quella persona che avevano cercato d’incastrare i cui documenti tu, per un motivo incomprensibile dovesti portare con te, se quella persona esistesse davvero da qualche parte. Talvolta provavi piacere nel conoscerla, solo per consegnarle quei documenti. E questo lentamente prese il sopravvento. Ma alla fine si trattava di una specie di gettoni da gioco e tu non volevi fare brutta figura. Allora dovesti recarti con regolarità a Anklam, e per questo potevi scroccare mezze mattinate. Ogni tanto, dopo, la mattina verso le dieci, te ne andavi al Broilerbar e con i tuoi soldi dell’apprendistato ti concedevi un mezzo pollo. Le arroganti cameriere ti conoscevano già, ma tu davi loro così tanta mancia che ti offrivano un posto alla finestra. Probabilmente ti presero per una abbandonata, del resto apparivi proprio così. In questo fu tuttavia curioso il fatto che a te quella ti sembrò una supposizione a proposito della quale si poteva per metà ingiuriare e per l’altra metà ci si poteva divertire. Amused. Si dice così.
Quando tornavi da quelle visite Kathi ti accoglieva sempre con la domanda: “Allora Ingrid, tutto a posto?” Tu la guardavi sempre senza capire. Ti veniva in mente la storia di Jona nel ventre della balena. Come se a lui qualcuno avesse posto la stessa domanda.
Lei iniziò a palpeggiarti la pancia. Le sue mani erano belle calde, rideva. “Noti qualcosa?” Tu non volevi rispondere e Kathi ti osservava compassionevole. “Vedrai”. Tu non volevi sapere che cosa. Lei aveva un ragazzo che ogni venerdì la veniva a prendere e che sotto tutti i punti i vista era una calamita. Lui s’incollò a lei come lei a lui, le restanti donne gli si appiccicarono addosso. Lui era mezzo metro più alto di lei, le piaceva. Solo lui rideva sempre. Lei te lo aveva presentato subito, fin dalla prima visita: “Questa è la mia amica Ingrid”. Tu avesti la sensazione che intendesse quell’altra Ingrid. Lei ogni volta ti esibì a lui come tu fossi qualcosa di cui lei aveva motivo d’essere orgogliosa. Ogni volta la tua pancia cresceva, come si trattasse di un profitto. Tu eri carina con lui. Quando Kathi nel pomeriggio di un venerdì chiese: “Helmut potrebbe toccare?”, tu rispondesti: “Sì, ma non me”. Kathi scoppiò quasi subito a piangere e si scusò per tre giorni interi, vero? Forse Helmut ritrasse la sua mano, ma non smise di ridere.
In dicembre gli altri iniziarono ad accostarsi tra loro nel letto. Anche Kathi ti fece questa proposta. I tuoi stinchi non si scaldavano mai. Se lei non avesse mendicato in quel modo ti saresti impennata verso di lei. Dagli altri senti: “Vedi, siete già in due”, oppure “Non sei proprio sola”, e qualcuno di loro ridacchiava. No, tu non eri per niente pazza. Non volevi pensarci, a questo. Di notte ti svegliavi spesso, oppure non potevi addormentarti subito. Sentivi il secchio di zinco che si riempiva. Irene, questo era il suo nome, possedeva “acqua tagliente”. Le avevano concesso il secchio. Col tempo lo usarono tutti, ad eccezione di te e Kathi. Vi accompagnavate a vicenda nel lungo corridoio gelato che portava al cesso. Ma preferivi andarci da sola, quando ascoltavi i soli tuoi passi, quando non c’era nessuno oltre a te.
In paese non c’era altri oltre a te. Ti avevano mandato a casa un’intera settimana prima di Natale con l’avviso che anche nel nuovo anno non saresti dovuta tornare a Kießow, piuttosto saresti dovuta rimanere nel tuo paese per riguardarti e prepararti. Dissero anche a che cosa, ma tu già non ascoltavi più. Ti fu consentito portare con te i libri, Kathi promise di portarti tutto il perduto. Tu non l’aspettasti. Sorvegliavi il termometro. Quando rimase stabilmente per cinque giorni sotto zero, serrando tutti per l’intera giornata nelle loro case, partisti senza esame preventivo. Tu non l’avevi dimenticato. Si fece buio, come avevi programmato, la messa era finita da tempo, avevi sentito la campana e poi più nulla. I pattini da ghiaccio di Peter li avevi trovati per terra, decidesti di allentare un po’ le viti, i tuoi piedi erano diventati nel frattempo più lunghi dei suoi, quelli di un quattordici-quindicenne. Ti sedesti sul cuscinetto di neve della panchina malferma vicina allo stagno, come facevano le ragazzine. Solo pensasti che non avrebbe funzionato, non ti potevi piegare abbastanza per tirare le viti, le tue dita s’irrigidirono, sebbene tu sudassi.
Sollevasti i piedi incrociandoli sulle ginocchia, in qualche modo ci riuscisti. Ti sembrò come a scuola, quando all’ora d’educazione fisica l’esecuzione di un esercizio in sé facile veniva inutilmente complicato, per esempio, con una palla medica, come si trattasse di un disincentivo. Con cautela vacillasti sull’indistinto margine dello stagno, subito avesti problemi d’equilibrio, un passo più lungo e sgraziato avrebbe messo fine a quasi tutto. Da bambina avevi sempre pensato che “sgraziato” fosse una specie di participio e non avevi creduto a Peter quando te l’aveva suggerito, sospettando che lo pronunciasse volutamente male. Lo stagno ghiacciato ti sorresse agevolmente, non ci fu neppure uno scricchiolio, come se tu neppure ci fossi, o fossi molto leggera. Dopo aver preso il via, il tuo corpo non vacillava più, un passo seguiva l’altro e dovevi solo fare attenzione a non andare troppo veloce quando dovevi curvare, il cosiddetto traghettare non l’avevi mai imparato. Il ghiaccio era recente e invisibile, e domani, quando si sarebbero portati fuori dalle camerate i bambini insieme alle esalazioni della festa, si ritroverebbero sconcertati chiedendosi chi avesse sottratto la loro proprietà, l’incontaminatezza della neve. Un uccello goffo, di cui si sapeva solo che non poteva volare.
Arrivò l’anno 1970. Iniziò in febbraio. Poi seguì l’anno 1971 e a questo dovette seguite l’anno 1972, ma tu non sai quando iniziarono. Dell’anno 1973 sai almeno quando finì. Fu davvero breve e in un giorno di febbraio era già finito. Probabilmente si trattava di un unico tempo, senza mesi, senza settimane e senza passaggi, un’anomalia. Si cercò di farti credere qualcos’altro, si misura una bambino in centimetri e grammi, pensando di averti dimostrato così il trascorrere del tempo, proprio così, come se scorresse per ciascuno in maniera uguale, proprio così, come se ci si fosse sbagliati nel misurarti. Una stupidaggine.
Da un giorno di inizio febbraio ci fu qualcosa che divenne costantemente più grosso, che dall’inizio per te era stato troppo grosso e ti causò dolori sconosciuti, una pietra che sussultava e si muoveva, sfregava e sfregava. Fosti così ferita per tutto il tempo che neppure ci facevi più caso. Talvolta per questo motivo non provasti dolore, anche se in realtà quello non aveva smesso, non smise, dovesti supporre da ciò che non sarebbe mai più venuto meno. Dovesti dargli un nome, uno qualsiasi. Henry.
Forse lo avevi letto da qualche parte. In ospedale lo avevano chiesto di nuovo. Ma accadde più spesso. Ti attaccarono un lattante al seno. Da ciò dovevi sapere che ti apparteneva. Mordeva, non l’avresti mai creduto che si potesse mordere senza denti. Ma erano possibili molte cose. Fino alla fine non avevi creduto di poter mettere al mondo un bambino, il tuo o quello di Roland Möllrich. Qualcosa uscì da te, e non così facilmente, dovettero tirarlo fuori, tutto era possibile. Fece male, come solo qualcosa di estraneo può far male, il tuo corpo non ti avrebbe mai provocato simili dolori. Tu non volesti sapere se era maschio o femmina. Il tuo figlio “naturale”. Sapevi cosa significava questo. Ti desti da fare con l’innaturale. Il tuo corpo divenne il tuo alleato. Dopo due settimane non si lasciava mordere più a lungo. Nei tuoi seni palpitava caldo e duro, nulla poté più avvicinarvisi, da lì non uscì più nulla. Prendesti la penicillina, ma il tuo corpo si fece furbo, molto più furbo di te. Il medico ti insultò. Avresti dovuto segnalare un’allergia. Tu eri sicura che il tuo corpo l’aveva trattenuta nell’ultima mano per giocarla proprio adesso. “Non sogghigni in maniera così imbecille”, disse il medico. Quando ti dava del “Lei”. Tua madre agitò il Milasan, mentre il tuo stomaco tollerava male il Berlocombin. Per te era come se oscillassero rimproveri nei suoi sguardi. Il tuo corpo tenne tutto a distanza.
Distruggesti la vecchia carrozzina a cesto, lì dentro alla fine non ci stavi più e non ci stava nessun altro. Sarebbe stato impossibile uscire con quella. Tua madre ne portò una nuova da Anklam, era gialla come una multa. Di diverso non c’era nulla. Ovviamente no. Non c’era nulla più di diverso. Ci andasti a passeggio fuori dal paese, fin nel boschetto, per poi fare ritorno, sempre lo stesso percorso, così potesti andare presto con gli occhi chiusi, con occhi nei quali ardeva il sonno espropriato, l’insonnia, un espropriazione in ogni caso, confusa. Tu non li vedevi e loro non ti vedevano. Perfino l’urlare s’attenuò per un po’. Non sentivi nulla, certo non un lontano ciclomotore.
Dopo quattro mesi ricevesti un posto all’asilo nido. Ti dissero che altrimenti avresti dovuto aspettare più a lungo. Non suonò come un privilegio. Suonò come se la colpa fosse tua. Il bambino di Bruni Deetz era morto, così, come si diceva, “così, semplicemente”, disse la schröderiana alzando le sopracciglia. Bruni Deetz aveva ancora cinque o sei bambini e non ti fece particolarmente male. “Sembra come con i Deezens”, diceva la gente, quando un’articolazione del nucleo familiare non coincideva con il suo senso della misura di uno strofinaccio, di una corsia da tavola. Ti chiedesti se anche tu ora vi appartenevi e spingesti la parola “Assi” sulla lingua come se si trattasse di un cibo esotico ed aspro. Così, semplicemente, pensasti. Per un momento, che fu così breve che neppure tu sai come la tua memoria riuscì ad evitare di perderlo nel ciarpame di tutti quegli anni, provasti qualcosa come l’invidia. Andò così.
Tornasti sui tuoi passi. Per quello che potesti fare, un piccolo tratto. Il tuo letto nello studentato di Kießow non era stato occupato. Tua madre non aveva detto nulla al proposito. Lei poteva farlo: tirare su bambini sconosciuti. Tu eri lì durante i fine settimana. Non ti accadde di sentirti come fossi stata dimenticata. Non ti accadde di sentire la mancanza di qualcosa. Ma te lo auguravi di tanto in tanto. Quando il bambino ti sorrideva tu gli rispondevi con un sorriso. Non ti riusciva la stessa cosa con il pianto. Kathi ripassava tutto con te. Tu non la invitasti mai, lei ti invitò spesso. Non viaggiavi mai, neppure durante le vacanze che dovevate avere in estate. Dove andare con te? Nel bus raramente ti aiutava qualcuno quando andavi verso Anklam. Talvolta non c’era più posto a sufficienza per un’altra carrozzina, allora ti voltavi e te ne tornavi a casa. Non faceva alcuna differenza. Ad Anklam prendevi a prestito dei libri. Prendesti spesso in considerazione di nasconderti tra la scaffalatura, di lasciarti recludere, di passare almeno una notte in un luogo estraneo. Ma la carrozzina gialla davanti alla porta ti avrebbe sempre tradito. Tu lo sapevi. E tuttavia ogni volta ti sorprendevi, se così si può dire, nel ritrovarla lì dopo aver lasciato la biblioteca. Un paio di volte le saresti quasi passata davanti senza fermarti.
Com’è stupido fare di tutto questo una storia. Sei quasi stupida anche a crederla. Devono raccontarla. A te non è successo nulla. Per tre o quattro anni, che te ne importa. Se hai fortuna, un ventesimo. Nessuno si può immaginare un ventesimo. Così sottile, non c’entra quasi nulla. Un po’ di soldi, li tiri fuori da questa stretta fenditura della tua vita, la comprimi alla meglio, perché anche lei voleva diventare costantemente più grande. C’era solo un modo. Ti tendevi come un arco, la abbindolavi, perché lei si allungava da sola, fino ad un punto nel quale nessuno avrebbe potuto sostenere la sua tensione, a te bastava una piccola irritazione, e il vento di febbraio ti portava in quel luogo dal quale nessuno ritornava.